Sono le cinque del pomeriggio. Lo specchio riflette l’immagine perplessa di una donna, con la bocca stretta in una smorfia interrogativa, nascosta dietro la mascherina chirurgica. Chi è questa figura, in camice e calzoni verdi, che pare uscita di fresco da una sala operatoria? Possibile? Sono io. Di nuovo. A questo giro con la divisa da operatrice professionale di casa di riposo, necessaria per lo stage. Eccomi qui, ancora una volta travestita da qualcosa che non sono.
E pensare che appena l’anno scorso mi aggiravo nei corridoi in giacca e pantaloni bianchi, scarpe antinfortunistiche (naturalmente bianche) e cappellino: la tenuta ufficiale di accesso ai laboratori di panificazione. La mia collega Tiziana mi ha insegnato talmente tanto sulla lievitazione e l’impasto, che ora, appena riesco, il pane me lo faccio in casa. Senza “Bimbi”, perché con quello non vale. E che dire di due anni fa, quando, grazie alla pandemia, la mia divisa quotidiana consisteva in un camice usa e getta, guanti in lattice, visiera trasparente e mascherina chirurgica? Vi lascio immaginare in che condizioni arrivavo a fine giornata. Come capivo, allora, personale medico e infermiere/i, costretti per ore dentro palandrane non traspiranti, con le mani cotte dai guanti, il mal di testa permanente e addosso un odore da tricheco spiaggiato a fine turno! E poi? E poi quattro anni fa, in officina meccanica, 10 ore a settimana con occhiali protettivi, scarpe antinfortunistiche, camice blu in tessuto ignifugo e guanti di pelle. Attorniata da venti ragazzoni con le spalle larghe e lo sguardo di chi per te, povera creatura di sesso femminile caduta per sbaglio nella fossa dei maschi dominanti, può provare solo pietà.
Ora, mentre guardo la mia immagine riflessa nello specchio, in questo verde pisello che non mi sta nemmeno troppo male, a dire il vero, mi risulta immediatamente chiara una cosa: negli ultimi anni sono diventata la maestra dei travestimenti. Solo che la mia professione ufficiale, quella per cui mi pagano, è una: la prof. di sostegno. Si vede che l’arte della metamorfosi è una competenza richiesta per chi sceglie di fare il mio mestiere. Dovrebbero specificarlo sul contratto di assunzione. Arturo Brachetti potrebbe organizzare degli utilissimi corsi di aggiornamento per noi disperati/e dipendenti della scuola pubblica, che tra corsi professionali (nel mio caso per panificatori/trici, meccanici/che e operatori/trici socio-sanitari/e) e stage vari, cambiamo d’abito con la stessa frequenza di una modella da passerella. Solo che non soltanto i nostri stipendi non sono esattamente uguali a quelli di Bianca Balti, ma neppure le nostre mise sono fatte su misura. E di certo non sono di quel bel Rosso Valentino, capace di rendere affascinante chiunque e che fa risaltare ogni singola curva del corpo. No. I nostri travestimenti sono decisamente più dozzinali, in genere recuperati all’ultimo da qualche collega dell’anno precedente o comperati in saldo in un grande magazzino il pomeriggio prima di iniziare a utilizzarli. Tocca a noi adattarci agli abiti. Tocca a noi entrare nel ruolo, ogni santo giorno, magari appunto facendo i conti con l’utilizzo di una saldatrice (fino ad allora presente nel nostro inconscio solo come oggetto mitologico) o con il funzionamento delle impastatrici industriali. Anche se due ore prima, magari, stavi raccontando l’incontro tra Alessandro Magno e Diogene. E chi ce la insegna l’arte del travestimento, la magica abilità della metamorfosi? Chi ci rende sufficientemente eclettici/che, competenti, adattabili, flessibili o, come si usa dire adesso, multitasking? Come possiamo essere buoni/e insegnanti, se ci viene chiesto di saper fare tutto: dalle materie teoriche (che non è sufficiente conoscere, ma che occorre anche saper rendere accessibili alle/gli studenti con Bisogni Educativi Speciali senza banalizzare i contenuti), alle applicazioni tecnico-pratiche, alla gestione dei contesti extrascolastici, oltre a quelli scolastici con tutto il loro bagaglio di burocrazia e procedure? Forse un giorno qualcuno, o più probabilmente qualcuna, avrà pietà di me e mi porterà anche un costume da Wonder Woman. La aspetto a braccia aperte.
Nel frattempo la sola risposta sensata, e tutto sommato abbastanza intelligente, alla domanda che ponevo sul come essere buone/i docenti qualora si abbia la disgrazia di non essere nate/i Uni e Trini è la seguente: imparare a imparare. Sempre. Proprio quello che insegniamo ai/lle nostri/e alunni/e ogni giorno. Se la vita ti chiede di cambiare abito con una frequenza disorientante, se ti picchiano in mano una saldatrice quando tu hai una laurea in filosofia (quindi ne sai più di spiegare Platone che di avvitare un bullone), o ti chiedono di accompagnare in casa di riposo una tua alunna a fare lo stage, anche se tu magari hai appena perso la nonna e l’ultimo posto al mondo dove vorresti essere è una residenza per anziani, c’è solo una cosa che puoi fare: accogliere la sfida e, appunto, provare a imparare. È umiltà? Non credo. È solo intelligenza… e spirito di sopravvivenza.
Così oggi, oltre ad avere un intero settore dell’armadio dedicato alle divise più svariate, mi accorgo di avere una cassetta degli attrezzi decisamente più variopinta e ricca di quando ho iniziato a fare questo mestiere. È un lavoro facile? Assolutamente no. È vario, stimolante, a tratti anche straniante? Certamente. Purché sotto quei camici, quelle maschere, quelle nuove identità rimanga sempre io. Chiara la tutor dello stage, la panificatrice, la linguista, la chimica, la letterata, la meccanica, la filosofa, la manutentrice di impianti di raffreddamento, l’accompagnatrice della gita, la consolatrice dei traumatizzati da un 3 in matematica, la mamma lavoratrice che corre per star dietro a tutto. Chiara la trasformista. Insomma, una ordinaria insegnante di sostegno.
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Articolo di Chiara Baldini

Classe 1978. Laureata in filosofia, specializzata in psicopedagogia, insegnante di sostegno. Consulente filosofica, da venti anni mi occupo di educazione.