La donna nel Settecento. Socialità, mondanità, parità

Il Settecento è il secolo dell’emancipazione femminile. Nella seconda metà del XVIII secolo, in piena rivoluzione industriale e in concomitanza con la diffusione dei principi illuministici, si notano progressivi sintomi di cambiamento: in tutta Europa le donne dell’alta nobiltà e della borghesia colta danno vita a importanti salotti letterari, dove da ottime padrone di casa ospitano intellettuali, artiste e artisti e da perfette intrattenitrici sanno animare discussioni culturali di ampio respiro. Le donne nel secolo dei lumi hanno il merito notevolissimo di aprire la strada all’emancipazione femminile.

Ritenute dagli Illuministi sufficientemente intelligenti da sostenere conversazioni sulle più svariate tematiche alla pari degli uomini e abbastanza intraprendenti da guidarli nelle loro scelte finalizzate all’edificazione di una nuova società, le dame dirigono i salotti e danno il loro contributo scientifico e filosofico alla stesura della stessa Enciclopedia, che è un po’ la Bibbia del nuovo secolo e dei tempi moderni.

Lettura di Molière in un salotto letterario del ‘700 (dipinto di Jean Francois de Troy, 1728 circa)

Le gentildonne dei salotti francesi del Settecento discutono autorevolmente su quali debbano essere i costumi quotidiani di entrambi i sessi. Affrontano molti problemi di notevole importanza e prendono la parola con grande sicurezza su tutte le questioni che riguardano i rapporti sociali tra uomini e donne e, sia pure indirettamente, influenzano perfino la vita politica. Feste e cene, al di là del futile divertimento, sono l’occasione per ragionare liberamente sulla morale, sui costumi e sulle abitudini di vita.

Nei palazzi che ospitano i salotti c’è un’ala abitata dalla signora del tutto autonoma e separata dall’ala dove soggiorna il marito, sicché l’autorità della padrona di casa nel suo salotto è indiscussa. Più che in altri periodi storici, la cultura femminile del tempo non si concentra su pochi nomi, ma al contrario su molte donne che si incontrano nei salotti e, facendo sentire ciascuna il proprio punto di vista, delineano il modello ideale di vita per una dama e per un gentiluomo. Non solo le donne di cultura parlano e conversano, ma scrivono. E molto. Sono le dame più à la page a vergare con la penna d’oca libri, manuali e vademecum di buone maniere che hanno grande successo e diffusione.

Le salonnières, aristocratiche e signore della ricca borghesia, contando anche su amicizie molto influenti, sono finalmente libere di dimostrare di possedere a sufficienza doti intellettuali tali da potersi confrontare con gli uomini sui focus più disparati. L’argomento che va per la maggiore è l’amore. In un amarcord medievalistico che le riporta con la mente ai tempi dei trovatori, le dame, prendendo a modello il sentimento di devozione e fedeltà del cavaliere verso la sua signora, si dilettano a fantasticare come l’uomo debba seguire tutta una serie di attese e di prove per conquistare il cuore della sua bella.

Nei salotti “illuminati”, impugnando la spada della parola, prodi battistrada con parrucche incipriate e pomposi guardinfanti cavalcano senza bruciarsi lo scottante tema dell’indipendenza femminile, capovolgendo l’atavico cliché della passività mentale e mandando in frantumi il tabù di una cultura esclusivamente maschile. Non manca mai, tra gli ospiti di maggior riguardo del salotto, un filosofo di grido che con le sue idee conferisce agli incontri un lustro ancora più rilevante sottraendoli al rischio della futilità o della noia. Tra lo sventolio dei ventagli e la polvere di cipria che inneva le cime delle acconciature, si beve filosofia a piccoli sorsi in forma di pillole, che siano battute di spirito, semplici osservazioni o argute sentenze. È una filosofia spicciola, certo, che sotto l’apparente futilità rispecchia la mentalità mondana e salottiera dell’epoca.

Nel Settecento la vita sociale presenta alcuni cambiamenti di costume. Secondo un’usanza parigina, le donne del Gotha intellettuale e mondano aprono i salotti ai ritrovi e alle conversazioni. Per questo nuovo ruolo sociale, esse devono ricevere un’istruzione adeguata che consenta loro di discutere di tutto in società. L’istruzione spazia in vari campi, comprende la storia e la filosofia, come la musica e la danza, ma non è certo di livello universitario, si dà alle donne un’infarinatura di cultura, quel tanto che basta per far fare loro una bella figura.

I moralisti continuano a pensare che se si dà troppa istruzione alle donne esse possano diventare delle mine vaganti per gli uomini e attentare, facendolo scricchiolare, al consolidato predominio maschile. Perciò la moda dei salotti divenne oggetto di satira da parte dei letterati. Uno scrittore fustigatore e irriverente come Giuseppe Baretti nella sua Frusta letteraria si prende gioco delle donne smaniose di apparire a tutti i costi persone di studio: «Le donne torinesi, contesse e marchese, mappamondi sol vogliono vedere, e compassi, e barometri, e quadranti, e squadre, e prismi, e microscopi, e sfere; angoli retti, acuti, ottusi, entranti, e triangoli isosceli e scaleni, rombi, romboidi, tangenti e secanti». 

In una seduta dell’Accademia dei Ricoverati di Padova, nel 1723, si discute se sia opportuno ammettere le donne a studiare le scienze e le arti. Uno dei dotti fa presente con preoccupazione che una donna, se eccessivamente colta, potrebbe venir meno ai suoi doveri di sottomissione e ubbidienza al marito. Questi, al ritorno dal lavoro con tutta la stanchezza che si porta addosso, si vedrebbe costretto a sorbirsi pure i discorsi e gli interrogatori della moglie, che «curiosa lo interroga sulle faccende civili, come adeguate alla capacità del suo comprendere». Gli Accademici ne traggono la conclusione che solo una ristretta minoranza di donne, quelle dotate di particolari attitudini, meritano di essere indirizzate agli studi, mentre per la stragrande maggioranza della popolazione femminile alla cultura è preferibile, come nei secoli passati, la cura della casa e della famiglia.

Pietro Longhi, La lezione di danza, 1741, Venezia, Gallerie dell’Accademia
Pietro Longhi, La lezione di geografia, 1752

Nel Settecento le donne godono di una libertà maggiore rispetto alle epoche precedenti. Pur restando fortemente soggette alle leggi paterne, una volta sposate sono libere di svolgere un ruolo dominante all’interno delle pareti domestiche.

Nel corso del Settecento maggiore è la differenza fra la condizione della donna in campagna e quella della donna in città. Nei campi le donne aiutano i mariti e i figli a lavorare la terra, e a causa della scarsa circolazione monetaria, svolgono attività, come la vendita e la lavorazione dei prodotti agricoli, che in città sono riservate agli uomini. In ambito urbano, le donne fanno lavori umili: portatrici d’acqua, venditrici di cibo, facchine, sarte, lavandaie. In numero crescente vanno a lavorare al di fuori della casa e, per questo motivo, aumentano spaventosamente, come mai nel passato, anche i neonati abbandonati. Mentre vi sono donne del ceto medio che svolgono attività prima riservate agli uomini (ad esempio il giornalismo), nei ceti più bassi il lavoro femminile rientra nei tradizionali settori della tessitura e della confezione degli abiti. Il lavoro porta le donne nelle strade e nelle piazze, sicché la loro presenza negli spazi pubblici è sempre più massiccia.

Jean-Baptiste-Siméon Chardin, La cuoca (circa 1740), Alte Pinakothek, Monaco di Baviera
Jean-Baptiste-Siméon Chardin, La lavandaia (circa 1735), San Pietroburgo, Ermitage
Jean-Baptiste-Siméon Chardin, La Serinette, conosciuta anche come Una signora che varia i suoi divertimenti (1750-1751), Parigi, Louvre
Jean-Baptiste-Siméon Chardin, La ragazza col volano, 1741, Firenze, Uffizi
Pietro Longhi, La venditrice di frittelle, 1755
Jean-Baptiste-Siméon Chardin, La preghiera prima del pasto (1740), Parigi, Louvre

Le ragazze di buona famiglia escono di casa molto più che nel passato. Se nel Medioevo e nel Rinascimento le donne potevano essere intraviste, quasi esclusivamente, durante le funzioni religiose, nel Settecento le dame hanno la possibilità di incontrare il loro futuro marito ai ricevimenti, ai concerti o addirittura, se sono state recluse in convento, durante le commedie messe in scena nei parlatoi dei monasteri.

Jean-Baptiste Greuze, Il fidanzamento di paese, 1761

Una figura nuova, caratteristica del secolo galante, compare al fianco delle signore nobili: il cicisbeo, o cavalier servente. L’etimologia della parola non è chiara, potrebbe essere di origine onomatopeica che riflette il bisbiglio, dato che il cicisbeo si siede dietro la sua signora e le sussurra spesso qualcosa all’orecchio, una frase gentile o qualche regola di comportamento in società.

Luigi Ponelato, Il cicisbeo, illustrazione tratta da un’edizione delle opere teatrali di Carlo Goldoni, 1790

In origine, il cicisbeo è un giovane uomo, per lo più single e aristocratico, che viene scelto dalla famiglia tra i parenti o tra gli amici più cari e fidati della dama come una sorta di guardiano e custode per proteggere la donna sposata dalle insidie dei malintenzionati. Non c’è donna maritata, nell’alta società italiana del XVIII secolo, che insieme al coniuge non abbia il suo cicisbeo, che è come l’alter ego del marito, ovvero da considerare il suo secondo marito. Poi, con la decadenza dei costumi, propria delle classi più alte, questa figura diventa molto più frivola, e il cicibeismo finisce per diventare una forma di adulterio socialmente legittimato. A volte è lo stesso marito che sceglie il partner giusto per la propria moglie, sempre che ci sia anche il di lei consenso e la facoltà per lei di cambiarlo una volta che non dovesse più essere di suo gradimento. Il gigolò ha libero accesso, senza nessuna restrizione e senza nessun preavviso, alle stanze private della signora, può assistere alla di lei toeletta mattutina, quando le cameriere la pettinano e la vestono. Di qui a diventare l’amante di colei che dovrebbe custodire il passo è facile, e ancora più facile è l’instaurare con lei un rapporto anche fisico, e non solo sentimentale, il tutto con la complicità e il beneplacito del marito, liberissimo a sua volta di flirtare con un’altra dama e di intrecciare una liaison a suo piacimento. In pubblico, però, il damerino non si lascia mai andare a nessuna manifestazione di affetto: vietato al cicisbeo baciare o abbracciare la sua dama davanti agli altri. Tutti sanno, ma fanno finta di non sapere.

Il cicisbeo, elegantemente vestito, incipriato e profumatissimo, conoscitore delle lingue, esperto di bon ton e amante della conversazione, segue la sua dama come un’ombra, le è vicino ogni ora e minuto della giornata, dovunque, la segue passo passo, l’accompagna a passeggio, a teatro, siede con lei in carrozza, le è vicino quando esce per far visita alle amiche o si reca in chiesa, è al suo fianco in tutte le occasioni mondane, nelle riunioni della nobiltà, durante le quali gioca o danza con lei, siede accanto a lei a tavola, nei pranzi e nelle cene eleganti, dove le taglia la carne, le serve da bere e le sceglie le pietanze, ma di solito non passa con lei la notte. Nessuna donna della società bene può mostrarsi da sola in pubblico, peggio ancora farsi vedere in compagnia del marito. È inconcepibile pensare a una gentildonna del Settecento senza il suo accompagnatore ufficiale.

Uno scrittore russo dell’epoca, Denis Ivanovich Fonvizin, annota: «La corruzione dei costumi in Italia è incomparabilmente maggiore della stessa Francia. Qui il giorno delle nozze è il giorno del divorzio. Appena la ragazza si sposa, deve subito scegliere il suo cavalier servente, che dalla mattina alla sera non la lascia per un minuto. Viaggia con lei ovunque, la conduce ovunque, le si siede sempre accanto, distribuisce e mescola le carte per lei, in una parola, è come il suo servitore e, dopo averla portata da sola in carrozza a casa di suo marito, lascia la casa solo quando va a letto con il marito. Qualsiasi donna che non avesse un cicisbeo sarebbe disprezzata da tutti. Da ciò ne consegue che qui non ci sono né padri né figli. Nessun padre considera suoi i figli di sua moglie, nessun figlio si considera figlio del marito di sua madre. Un giovane, una volta diventato cicisbeo, non ha più un minuto di tempo per studiare, perché, a parte il sonno, vive senza sosta di fronte alla sua signora e barcolla dietro di lei come un’ombra… È necessario sapere che la moglie, dal momento che si sveglia, non vede più il marito finché non viene l’ora la sera di andare a letto. A Genova questa consuetudine è giunta a una tale follia che se il pubblico vede marito e moglie insieme, urlerà, fischierà, riderà e scaccerà il povero marito».
Vittorio Alfieri in un diario scritto in francese ricorda il “servizio” da lui prestato per due anni alla marchesa Gabriella Falletti, le lunghe mattinate passate in sua dolce compagnia e le loro passeggiate pomeridiane.
Montesquieu, in viaggio in Italia nel 1728, così scrive: «Non vi ho parlato dei cicisbei. È la cosa più ridicola che un popolo stupido abbia potuto inventare: sono degli innamorati senza speranza, delle vittime che sacrificano la loro libertà alla dama che hanno scelto».

Nel quadro di una tale libertà di costumi, che non può non incorrere nella censura del tutto inascoltata della Chiesa, si fa strada anche in letteratura un nuovo tipo di personaggio femminile: non più la ragazza fragile, tranquilla, docile e sottomessa all’uomo, ma la donna spregiudicata e intraprendente, che sa dissimulare i propri sentimenti, e mentre finge di essere stupida o distratta, in realtà, è furba e astuta, non si fa dominare dai maschi, anzi mette in atto tutte le trappole e le insidie di cui è capace per far cadere l’uomo nella sua rete. Ne è un esempio, tra i più famosi, la marchesa di Merteuil, una giovane vedova parigina che vive alla vigilia della Rivoluzione francese, protagonista del romanzo Le relazioni pericolose di Choderlos de Laclos (1782). Affascinantissima maestra di libertinaggio e al tempo stesso donna dal cuore di pietra e senza scrupoli, si serve del suo charme magnetico per umiliare il suo vecchio amante, il conte di Gercourt, e per imbastire trame erotiche come meglio le aggrada. 

Nel Settecento, epoca passata alla storia come l’età del razionalismo e delle enciclopedie, delle donne salottiere e del lezioso rococò, della raffinatezza fatta donna e dell’eleganza che sconfina nella frivolezza, non mancano, tuttavia, donne, sia pure un’esigua minoranza, che contraddicono l’immagine stereotipata del secolo e ne mostrano una faccia assolutamente inedita e sconvolgente.

Un grande impulso all’affrancamento delle donne dalla soggezione maschile viene, al di là dell’oceano, dalla guerra d’indipendenza americana che si combatte dal 1776 al 1783. A migliaia, sia pure anonime, le cosiddette “madri dell’America”, hanno un ruolo attivo sia negli eserciti locali che in quelli britannici. In assenza dei mariti, partiti per la guerra, anticipando ciò che in Europa accadrà quasi un secolo e mezzo dopo con il primo conflitto mondiale, molte provvedono da sole alla loro sussistenza, in parte svolgendo i lavori degli uomini, in parte contribuendo ad aiutare le truppe, trasformando spesso le loro case in alloggi per i feriti.

Qualcuna di esse esce dall’anonimato, come la giovane Deborah Sampson, che dimostra grande astuzia e combatte strenuamente. Volendo evitare il duro lavoro nella fattoria di famiglia, si arruola nell’esercito fingendosi uomo col nome Timothy Thayer; in seguito, dopo che la sua vera identità viene scoperta, si arruola di nuovo, stavolta come capitano del quarto Reggimento del Massachusetts, sotto il nome di Robert Shurtleff, prima di essere nuovamente scoperta.

A differenza di Deborah Sampson, Margaret Cochran Corbin, ricordata come Capitan Molly, moglie dell’artigliere John Corbin, è una “seguace di campo”. Prende parte alla battaglia di Fort Washington, nei pressi di New York, il 16 novembre 1776, in prima linea con il marito, che nel corso della battaglia viene colpito a morte. Lei ne prende il posto, combattendo con grande coraggio finché è ferita anche lei. Assegnata al Corpo degli Invalidi a West Point, vi rimane fino alla morte: è sepolta nel terreno dell’Accademia Militare degli Stati Uniti.

Un’altra “seguace di campo”, Maria Ludwig Hays, segue il marito John nella battaglia di Monmouth del 1778, nella campagna del New Jersey, durante la quale si dà da fare per procurare acqua alle truppe. Come ha fatto Margaret Corbin prima di lei, quando il marito viene ferito assume le sue funzioni e aiuta gli altri artiglieri ma, a differenza della sua collega, non riceve nessuna pensione di guerra.

Le donne contribuiscono molto all’esito felice della Rivoluzione oltreoceano. Certamente l’America non sarebbe la potente nazione che è oggi senza il grande contributo delle sue donne alla vittoriosa guerra d’indipendenza. Non è, però, tutto oro quel che luccica, e sarebbe errato considerare il secolo dei lumi come un’oasi idilliaca per il gentil sesso. Le donne possono sì partecipare alla vita pubblica ma continuano a essere escluse dagli incarichi politici e di governo come dalle mansioni amministrative. Si assiste, indubbiamente, a una vigorosa riscossa del genere femminile. Le donne del popolo sono in prima fila nelle sommosse: difendono i loro diritti e protestano con quanta forza hanno in corpo e quanto fiato hanno in gola contro le ingiustizie e i soprusi di una società che va assolutamente cambiata.

Con la contemporanea rivoluzione industriale la donna comincia a prendere coscienza di sé stessa, ma non c’è niente di nuovo sotto il sole fino alla grande rivoluzione del 1789. Solo allora comincia a germogliare il seme del pensiero femminista, e la donna comincia a rivendicare la parità di condizione con l’uomo soprattutto sul piano dell’educazione e dei diritti civili.

Sul finire del secolo galante, con le prime vere e proprie dichiarazioni pubbliche dell’uguaglianza di genere e dei sessi, prende quota da parte delle donne la querelle per la parità giuridica. In Francia, con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, emanata il 26 agosto 1789, viene riconosciuta alla donna la capacità civile, ovvero la possibilità di comprare, alienare, comparire davanti alla giustizia come parte o testimone, e anche difendersi nei processi. Al concetto dell’uomo “tiranno” e della schiavitù millenaria a cui ha sottoposto la donna fanno eco i testi scritti da due donne coraggiosissime a un anno di distanza l’uno dall’altro, nel 1791 e nel 1792. La prima è francese e paga con la vita il suo coraggio, la seconda, inglese, muore di morte naturale qualche anno dopo, a trentotto anni.

La Dichiarazione dei Diritti della Donna e della Cittadina

Olympe de Gouges (1748-1793) parte all’attacco lancia in resta e il 5 settembre del 1791, in piena tempesta rivoluzionaria, pubblica la sua Dichiarazione dei Diritti della Donna e della Cittadina. Due anni dopo sarà ghigliottinata perché, da moderata e filomonarchica quale è, denuncia gli eccessi della rivoluzione ed è contraria all’esecuzione capitale dei due sovrani. Non a caso sale il patibolo nemmeno venti giorni dopo Maria Antonietta, il 3 novembre 1793. Con l’arma della sua penna cerca di scuotere le coscienze: i princìpi che espone sono le fondamenta di tutte le giuste rivendicazioni e conquiste delle donne negli ultimi due secoli. Olympe scrive la sua Dichiarazione in sintonia con quella elaborata nel 1791 per i cittadini maschi. Lei propone di rendere davvero universali i diritti proclamati all’Assemblea nazionale estendendoli anche alle donne. Nei diciassette articoli, con un preambolo, come quelli della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, si afferma a caratteri cubitali l’uguaglianza assoluta dei diritti dell’uomo e della donna.

Olympe de Gouges sul patibolo

Olympe de Gouges, ghigliottinata insieme a molte altre donne, è una delle prime a sostenere la libertà di espressione, l’uguaglianza di genere, il divorzio, sussidi statali in favore della maternità e dell’infanzia, la costruzione di ricoveri per i senzatetto: insomma, un bagaglio di proposte che oggi risultano modernissime, a quel tempo rivoluzionarie, e fanno di Olympe una donna straordinariamente attuale, una dei nostri tempi.

Il suo testo giuridico è stato a lungo ignorato, infatti la prima versione completa esce in Francia addirittura dopo due secoli, solo nel 1986. «Uomo, sei tu capace di essere giusto? Chi ti pone questa domanda è una donna: questo diritto, almeno, non glielo toglierai. Dimmi. Chi ti ha dato il potere sovrano di opprimere il mio sesso? la tua forza? le tue capacità?… La Donna nasce libera e rimane uguale all’uomo nei diritti. L’esercizio dei diritti naturali della donna non ha altri limiti se non la perpetua tirannide che le oppone l’uomo. Le distinzioni sociali possono essere fondate solo sull’utilità comune (art. I)».

Frontespizio della prima edizione americana A Vindication of the rights of woman (1792)

Scritta nel 1792, la Rivendicazione dei diritti della donna, uno dei primi documenti di filosofia femminista, è opera della scrittrice e intellettuale londinese Mary Wollstonecraft (1759-1797), donna che ha una vita intensa e breve, madre di Mary Shelley, l’autrice del romanzo Frankenstein. Nella sua Rivendicazione, che si richiama ai princìpi esposti da Olympe de Gouges, la pensatrice affronta la questione del degrado morale e dell’istruzione negata alle donne, unica causa della loro presunta inferiorità, non certo dovuta alla carenza di intelligenza, che è pari a quella degli uomini. Sono le strutture sociali a predeterminare un diverso destino per i due sessi e a condannare le donne fin dalla nascita a un oscuro avvenire di inferiorità e di sottomissione. Le osservazioni di Wollstonecraft sono di una modernità che spazza via la coppia di secoli che ci separano da lei. «Istruite fin dall’infanzia che la bellezza è lo scettro della donna, il loro spirito prende la forma del loro corpo e viene chiuso in questo scrigno dorato, ed essa non fa che decorare la sua prigione… Si permetta alla donna di condividere i diritti degli uomini ed ella ne emulerà le virtù».

La marcia delle donne su Versailles il 5 ottobre 1789 (illustrazione dell’epoca)

Con la Rivoluzione francese le donne, dopo secoli di domestica reclusione, ritrovano il coraggio di prendere le armi in mano. La marcia su Versailles del 5 ottobre 1789, venti chilometri di strada percorsi in sei ore, è una chiara dimostrazione di forza e di coraggio delle attiviste militanti femministe, ma soprattutto delle donne dei mercati di Parigi e delle masse femminili che ingrossano le loro file lungo il percorso: sei donne sono ammesse a parlare col re e a esporre le loro richieste (Maestà, stiamo morendo di fame e non abbiamo più pane) e costringono il re Luigi XVI a tornare a Parigi.

Il nome di Charlotte Corday è l’unico riportato in tutti i manuali di storia come la rivoluzionaria girondina che il 13 luglio 1793 pugnala a sangue freddo il leader giacobino Jean-Paul Marat mentre è nella vasca da bagno, considerandolo il principale responsabile della guerra civile che insanguina la Francia.

L’assassinio di Marat da parte di Charlotte Corday in una stampa del 1793
Charlotte Corday condotta alla ghigliottina

Condannata a morte dal tribunale rivoluzionario, viene ghigliottinata quattro giorni dopo, il 17 luglio. Avrebbe compiuto venticinque anni di lì a dieci giorni. Entrata nella stanza riservata dov’è Marat, prende il coltello che tiene nascosto nel petto e lo affonda fino al manico, con una forza insospettata, sotto la clavicola destra, squarciandogli la carotide. Poi lo estrae grondante di sangue dal corpo della vittima e lo lascia cadere ai suoi piedi. E lo fa con lo stesso coraggio con cui più di duemila anni prima la biblica eroina Giuditta aveva tagliato la testa al nemico Oloferne.

Donne soldato, di solito travestite da uomo, ovviamente un’esigua minoranza, sono presenti sia nell’esercito repubblicano che nelle armate controrivoluzionarie. Le soldate repubblicane sono forse un centinaio, donne del popolo, partite per il fronte per raggiungere il marito o i fratelli o spinte da un sincero amor di patria. Sono vivandiere, cannoniere, granatiere, fanno carriera, diventano caporale, sergente, sottotenente, tenente, quattro addirittura aiutanti di campo dei generali, e restano in servizio per mesi o per anni. Alcune restano ferite in guerra e fanno domanda di pensione.

Gli echi della rivoluzione arrivano a Napoli dove troviamo le due protagoniste della Repubblica Napoletana del 1799, giustamente menzionate in tutti i libri di storia: Eleonora de Fonseca Pimentel e Luisa Sanfelice. Il ’99 napoletano è soprattutto opera loro.

In copertina: Il salotto di Madame Geoffrin, dipinto di Charles Gabriel Lemonnier.

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Articolo di Florindo Di Monaco

Florindo foto 200x200

Docente di Lettere nei licei, poeta, storico, conferenziere, incentra tutta la sua opera sulla Donna, esplorando l’universo femminile nei suoi molteplici aspetti con saggi e raccolte di poesie. Tra i suoi ultimi lavori, il libro La storia è donna e le collane audiovisive di Storia universale dell’arte al femminile e di Storia universale della musica al femminile.

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