Guardo la gente dell’Ucraina intervistata dopo i bombardamenti, dopo più di cento giorni di guerra. I volti delle donne anziane, quelli degli uomini anziani e quelli delle donne giovani con figli. Guardo i volti di chi non può scappare dai bombardamenti perché non sa dove andare o non ha i soldi per andarsene o non ce la fa per l’età. Il male sulle loro facce e la rassegnazione disperata che esprimono. Vedo le rughe del viso, i fazzoletti annodati sotto il mento, i vestiti sporchi e sovrapposti, le pentole annerite sul fuoco tra due mattoni sullo sfondo di tetti scoperchiati, l’acqua nei bidoncini, le buche enormi sul terreno, i sottoscala e le cantine umide e fredde, il girovagare nei cortili tra erba e macerie a misurare come stare in quel che gli resta: uno spazio tra ostile e quotidiano da ammansire se viene fuori un po’ di forza, le macerie in cui si aggirano, la ricerca di piccole cose che ci ricordano il nostro mondo degli affetti. Una foto: basta una sciocchezza, ha il valore di una vita.
Sono volti che hanno tutti la stessa espressione in qualsiasi luogo dell’Ucraina in cui si bombarda e si uccide e si fa questa guerra: stravolti, annichiliti e stupiti. Sono volti che già da un po’ di tempo esprimono queste espressioni. Noi li vediamo ma non li sentiamo dentro, presi come siamo da tante sirene. Non si indaga pubblicamente e politicamente il dolore. Si può vederlo, ma senza aggiungere parole, altrimenti partono accuse su tutto. E sono volti molto differenti da quelli dell’inizio della guerra. Allora sembrava che una qualche onnipotenza li sostenesse e insieme a loro sostenesse tutte le ideologie possibili contro la sconfitta e il dolore. Ma il dolore incredulo è arrivato a livellare ogni ideologia. Il dolore è solo. Individuale. E se vuoi puoi non indagarlo, non è il tuo. E spesso non vuoi. Credi non serva. O se serve, va bene per aumentare il conflitto. In questo caso è ammesso. Per il resto no. Ma il dolore non è ideologico. Strappa dalla vita e la annulla con un click del potere che ti invade. Questi volti sembra non capiscano perché. Aspettano impotenti non si sa cosa e sanno che non dipende da loro.
Tra queste persone non senti parlare di vittoria. Raccontano in modi scarni quello che succede e a volte, quando osano, chiedono la pace. È gente che sembra non sapere di confini, libertà, democrazia, diritti personali o internazionali, conflitti di potere, oligarchie, cordate e nazioni più o meno geografiche, ma è lei che patisce la guerra. Giusta? Vede un quotidiano distrutto e lì ci viveva e ci deve vivere se non muore. Ci mette del suo per parole che sembra non conoscano o riconoscano più. A che servono se gli distrugge la vita? La libertà al posto della vita. Sono così facilmente interscambiabili? E me lo chiedo anch’io, forse insieme a loro. Non mi bastano i paragoni, non sono mai le stesse cose, e lo sanno quando dicono che sono le stesse. A questa gente credo non serva la storia dei poteri, ma quella del poter vivere. A me questa geografia non piace più. Fa male a tutto il mondo. E credo non sia più possibile un mondo così misero. Loro e io e tanti e tante altre vogliamo altro. La fatica della pace. Il silenzio dei poteri. Le parole della vita e non delle armi. Quelle deflagrano e non conoscono confini. Una geografia materna? Sì, sarebbe meglio.
Questa guerra e tutte le altre rispondono come sempre a una visione maschile del mondo. Le donne della politica sembrano lì per ingentilirla. Non si sentono voci femminili fuori dal coro. Così non si fa strada la ricerca indispensabile di un altro modo di proteggere la vita. Senza armi. Visto che distruggono sempre. Sembra che questi uomini abbiano un’arma in mano anche quando non la impugnano davvero. C’è un’incapacità e una indisponibilità di molti maschi a uscire dal recinto della forza. Un narcisismo della forza che obnubila qualsiasi altro modello del vivere. Ne abbiamo solo due: quello maschile e quello femminile. I limiti di questa loro visone sono sotto i nostri occhi nella guerra in Ucraina: ogni volta che vediamo quelle facce e quelle terre unite dall’essere stravolte.
È un conflitto — come tutti i conflitti — costruito da un’economia “avida” che ha come perno del suo orizzonte la guerra. La forza muscolare ancora come unica “igiene del mondo”. Purtroppo il tempo maschile è fermo. Da sempre? Ricostruiremo promette Ursula von der Leyen. Come no?!
C’è un’altra idea di forza. Le donne lo sanno. È quella di chi sa mettere al mondo, aspettare che cresca e nell’attesa che avvenga educa, con molta fatica perché non la si vuole vedere, a cercare di uscire dal recinto muscolare. Sa che non sta in quel recinto la vita, ma nella relazione che inizia già nel grembo materno e continua nel corso di tutte le vite: sono sempre in relazione tra loro. Che la si riconosca o meno è così. È un altro sguardo sul mondo quello femminile e le sue immense capacità sulla vita. Misconoscerlo ancora ci danneggia forse per sempre e insieme ai corpi delle donne, danneggia quello di tutti e della “madre” terra. Se non leghiamo insieme la sovranità della madre di carne e quella della madre di terra non capiremo neppure la terra. Citarne solo una scarnifica il corpo dell’altra e aggiunge ritardo.
Sembrerebbe tutta da inventare una geografia materna. Invece molto è già fatto da noi che mettiamo al mondo la vita, anche se sappiamo che non basta metterla al mondo perché per farla stare bene dobbiamo avere cura anche di lui. Non possiamo delegare come cercano di farci credere, il mondo ha bisogno del nostro sguardo differente. Ma dire mondo al posto di terra non autorizza ad astrarre dai corpi di carne e di terra che lo compongono. “Curiamo” da sempre perché è la nostra sapienza corporea e non finiamo mai e non è un obbligo patriarcale. È una nostra scelta che non vogliamo venga imposta, ma rispettata perché è l’unico metro per vivere, anche per quegli uomini che scelgono l’aggressività. È più facile far morire. Il lavoro materno non finisce con l’età adulta, come pensano tanti uomini e anche donne. Sì, facciamo crescere, ma non per essere a disposizione dell’aggressività. Non è più il tempo e non c’è più tempo e molti maschi a partire da quelli di potere devono capire che l’hanno consumato, in malo modo, quasi tutto. E i maschi che l’hanno capito non possono continuare a tacere sui loro fratelli. Il loro silenzio fa perdere vita.
Noi siamo le depositarie del mistero della vita e del suo tempo, dopo il concepimento, e accettare dolori mortiferi da chi abbiamo partorito lo sentiamo disumano. Non servono alla vita che creiamo e la guerra serve meno che mai. Da sempre! Molti uomini ci giocano ancora.
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Articolo di Clelia Mori

È stata insegnante d’arte, bibliotecaria, operatrice culturale, ispettrice archeologica onoraria. È Maestra d’Arte al Toschi di Parma. Ha fatto a lungo politica nella sinistra istituzionale. Ha cresciuto un figlio, oggi fotografo d’arte e scultore. Ora ha riunito le varie parti di sé, prima tenute divise: dipingere e fare politica, come donna e madre che cura e ama la vita, anche dipingendo.