«Mon ami, mi chiamo Victorine e vivo ad Audincourt, un centro nel nord est della Francia.
Mentre ti scrivo, sono seduta sull’argine del fiume Doubs, l’eterno concittadino di questo posto, a prendermi in piena faccia il vento umido e non salato che fa da voce ai corsi d’acqua e che racconta della voglia di andare e della bellezza di rimanere. Vorrei tanto farti sentire questo rimestare, liquido e silenzioso, così da capire se l’abbraccio allo stomaco che sento è la medesima sensazione che proveresti tu o è solo dentro di me che si scatena tutto ciò, come se parte dei flutti e delle onde mi sciabordassero nella cassa toracica. Il percorso del fiume, almeno qui, è lento, ma nasconde momenti di concitazione estrema, nascite nervose e agitate, e declini placidi e preoccupati. Un po’ come dovrebbe essere il naturale andamento della vita di ciascun essere umano, se ci fosse una qualche forma di giustizia. Giustizia però non ce n’è, e spesso si viene già al mondo senza alcun fiato per piangere, e si crepa quando tanto ancora avremmo da scorrere e camminare. E che cosa sia la giustizia, chère amie, l’ho appreso nel paese dove sono nata e dove ho vissuto buona parte della mia giovinezza, Audeloncourt, nella regione dell’Alta Marna, un posto talmente piccolo che le rughe che mi ricamano il viso — e, credimi, sono tante — sono sicuramente più numerose della gente che vive lì. Eppure, in quel collinare pezzo di mondo, che alberi e polvere si litigano e contendono, che nella mia sentimentale mente di vecchia considero ancora come “casa”, ho imparato la lezione più preziosa che potessi apprendere.
Una lezione che in una qualche maniera ha a che fare proprio con il pane, non quello cucinato, lievitato e accudito, ma quello agognato, rubato, preteso e troppo spesso negato. Prima di proseguire nel mio racconto però, voglio rispettare il patto che abbiamo stretto — tu mettendo il tuo annuncio, io rispondendo — e lasciarti la ricetta che, nella regione dove sono nata, ha riempito le giornate, le case e i sensi di tutti e tutte noi. Si tratta del Pain d’épices, il pane speziato, un piatto che in Francia viene preparato in diverse maniere ma che ha nella zona della Champagne-Ardenne la sua origine e la sua autentica tradizione. O, almeno, è così che si dice dalle mie parti.
Comunque sia, ecco come lo cucino io.
In un pentolino, faccio sciogliere 250 grammi di miele in 175 grammi di acqua. In una ciotola a parte, mischio e setaccio 250 grammi di farina di segale, otto grammi di lievito, due grammi di cannella, due grammi di zenzero, due grammi di anice, due di noce moscata e due chiodi di garofano. Poi, verso l’acqua con il miele sopra gli ingredienti secchi e mischio con attenzione e energia fino a formare un impasto omogeneo. Non spaventarti se risulterà un po’ duro da lavorare: è normale. In fondo, anche ai bambini e alle bambine si chiede il rigore della disciplina prima di poter scartare i regali di Natale. Alla fine, metto tutto in una teglia e lascio cuocere in forno per poco meno di un’ora a 150 gradi. Sentirai il profumo invadere ogni cosa. Anche il cuore.
Il mio, di cuore, ma sœur, è invece invaso dal ricordo di una donna straordinaria, conosciuta proprio ad Audeloncourt. E te ne vorrei parlare.
Era originaria di Vroncourt-la-Côte e si chiamava Louise Michel. Forse l’eco del suo spirito sarà giunto anche dalle tue parti. Me lo auguro. Qui il suo nome risuona ancora forte, tra gli uomini e le donne giuste, tra i costruttori e le costruttrici di fratellanza e sorellanza; per le strade di Audeloncourt, per quelle di Parigi, per quelle di Londra; risuona persino al di là del mare e dell’oceano, presso gli indigeni della Nuova Caledonia, che ella volle conoscere, nella vita e nella lingua, e che appoggiò durante la rivolta contro i colonizzatori francesi. Louise Michel è stata una scrittrice, una poeta, un’insegnante; una comunarda, una femminista, un’anarchica; un’anticolonialista, un’animalista, una radicale. Ha difeso prostitute, pazzi e delinquenti. Ha manifestato per le vie della capitale; è salita sopra le barricate; ha arringato la folla. È stata arrestata e deportata. Da accusata, ha rifiutato gli avvocati per difendersi da sola e ha trasformato il tribunale in tribuna e gli accusatori in accusati. Ha cantato la Marsigliese.
L’hanno chiamata La lupa assetata di sangue o anche La buona Louise. Figlia illegittima e, forse, amante di Victor Hugo, è stata per me, sopra qualsiasi altra cosa, la mia maestra.
Era il 1852 quando questa ragazza di ventidue anni decise di fondare ad Audeloncourt, in rue Ham, una scuola. Ancora me la ricordo: così austera, pulita, e affamata di noi e di tutto ciò che avrebbe potuto darci. Le classi erano miste e paritarie perché, come amava sempre ripetere, «se l’uguaglianza tra i due sessi sarà riconosciuta, questo sarà una breccia straordinaria nella stupidità umana». Teneva lezioni di matematica, di teatro, di scienze naturali, di educazione sessuale. Si era resa conto di come la società tentasse da sempre di atrofizzare gli animi e i cervelli di noi donne, così da renderci eleganti marionette rispettose, abili nel cucito, pie, timorate e in grado solo di discorrere del tempo.
E invece lei ha voluto spogliarci da ogni costrizione o zavorra, ha scelto di gettarci in acqua e insegnarci finalmente a nuotare, col rischio forse di farci affogare, ma dandoci la libertà estrema di poter finalmente scegliere noi come muovere gambe e braccia. Una sensazione incredibile.
Ancora mi ricordo con meraviglia gli animali portati in classe, l’erbaio, il museo geologico, l’erboristeria, gli spettacoli, tutto organizzato nella nostra scuola.
Ma, soprattutto, mi ricordo che mai una volta ci ha fatto intonare i canti in onore dell’imperatore Napoleone III. Piuttosto, e per due volte al giorno, erano altri i versi che risuonavano nell’aula: allons enfants de la patrie… Capirai da sola, mon ami, quanto brusio e quante voci e quanto malcontento questi metodi di insegnamento avessero generato. I cittadini e le cittadine di Audeloncourt, i genitori degli e delle studenti della scuola alzarono un vespaio tale che ella dovette recarsi a render conto del proprio operato davanti al rettore, monsieur Fayet. Ma poiché la mia maestra era una donna straordinaria, e soltanto un morto non se ne sarebbe reso conto, non passò molto tempo che lo stesso monsieur Fayet e sua moglie rimasero completamente affascinati da lei e dal suo animo indomito. I tre diventarono intimi amici e lei spesso si fermò ospite da loro, confidando ai due anziani coniugi timori, speranze e, soprattutto, ambizioni.
Più o meno la stessa cosa che avvenne con il prefetto Froidfond. Dopo aver pubblicato su di un giornale locale un breve e mordace scritto satirico contro Napoleone III, fu convocata nella prefettura del distretto. Qui venne duramente rimproverata e minacciata di essere spedita a alla Cayenne. E tu lo sai come reagì? Si inchinò e ringraziò sentitamente monsieur Froidfron della proposta poiché suo sogno era di aprire una scuola lì, ma non aveva i soldi sufficienti per il viaggio. Se ci ripenso, mi viene ancora voglia di battere le mani sulle ginocchia e ridere rivolta al cielo e agli uomini che hanno provato, forse, a piegarla e spaventarla.
Comunque, la cosa più assurda e paradossale di tutto questo episodio avvenne in seguito.
La gente del villaggio, infatti, aveva interpretato la convocazione in prefettura come un merito e un onore, tanto che un tizio le si presentò davanti per chiederle una raccomandazione con quello stesso funzionario che l’aveva minacciata di deportazione. Louise cercò a lungo e invano di spiegare come stessero in realtà le cose. Poi, sfinita dalle insistenze, fu costretta a scrivere una lettera: «Signor Prefetto, la persona a cui lei ha gentilmente promesso un viaggio alla Cayenne, è stata costretta ad inviarvi una lettera di raccomandazioni in favore di M.X. È testone come un mulo. Non riesco a fargli capire che una mia lettera è il miglior modo per farlo sbattere fuori dal vostro ufficio. Fate in modo che impari sulla sua pelle che io avevo ragione di rifiutare. Vi imploro, signor prefetto, di non dimenticarvi la piccola questione del viaggio che mi avete promesso durante la nostra discussione».
Ti sembrerà strano, ma pare che la raccomandazione così poco ortodossa di Louise andò a buon fine, tanto che il tizio tornò in seguito per ringraziarla.
Colpita forse più di chiunque altro da questa vicenda, lei stessa decise a un certo punto di scrivere al prefetto e di proporgli di aprire un ufficio di beneficenza che potesse, in una qualche maniera, arginare la miseria che dilagava nella regione, perché, come diceva sempre, senza lavoro la gente non ha il pane, e quando manca il pane spesso trova la polvere da sparo. Come immaginerai, monsieur Froidfond la aiutò davvero, facendosi promotore di una pubblica sottoscrizione di fondi per raggiungere gli obiettivi indicati. E la stessa Louise contribuì, stanziando per il progetto cento franchi. Nel frattempo, però, la scuola aveva chiuso da circa un anno. Dopo un nuovo tentativo, e con l’aiuto del rettore Fayet, per Louise Michel si aprirono definitivamente le porte, le strade, le battaglie di Parigi.
Nel momento in cui si trasferì nella capitale, le sue personali vicende divennero parte della storia nazionale e internazionale. Di lei si leggeva sui giornali e nei proclami pubblici. Per me, però, è rimasta, prima di qualsiasi altra cosa, la mia amata insegnate. E se ho scelto anche io di fare questo lavoro è proprio per continuare ciò che lei, nel lontano 1852, aveva iniziato con me.
Ho fondato e aperto scuole in molte zone della regione, istituti dove ragazzi e ragazze potevano studiare insieme e, soprattutto, dove alle donne veniva spiegato che avrebbero potuto fare qualunque cosa avessero voluto. Anche cambiare il mondo. Il mio peregrinare mi ha infine portata qui, ad Audincourt, in questo paese dal nome così simile al mio villaggio di origine, con il fiume che mi ricorda sereno quanto la vita di ciascuna e ciascuno di noi sia un percorso costante, segnante, e che il segreto sta nel lavorare sodo, così da poter guardare con orgoglio ciò che ci lasciamo alle spalle, e attendere con speranza ciò che ci riserva la camminata verso il mare.
Ora ti saluto, mon chèr ami. Il sole sta tramontando e io me ne torno a casa, a riposare un poco le mie vecchie ossa dopo una giornata passata al sole e al vento. Lo spirito, no, non si riposa mai. Non può né deve farlo, se vogliamo continuare a dirci vive e cariche, pronte a esplodere come una straordinaria barricata anarchica.
Adieu, adieu ma sœur. Ti auguro di poter mantenere sempre alta e indomita la bandiera della tua rivoluzione. Vive la liberté. Vive le féminisme».
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Articolo di Sara Balzerano

Laureata in Scienze Umanistiche e laureata in Filologia Moderna, ha collaborato con articoli, racconti e recensioni a diverse pagine web. Ama i romanzi d’amore e i grandi cantautori italiani, la poesia, i gatti e la pizza. Il suo obiettivo principale è quello di continuare a chiedere Shomèr ma mi llailah (“sentinella, quanto [resta] della notte”)? Perché domandare e avere dubbi significa non fermarsi mai. Studia per sfida, legge per sopravvivenza, scrive per essere felice.