Per secoli il meridione europeo ha subito la fascinazione del nord, idealizzando questo non-luogo “alto” — perciò stesso superiore — del mondo dove il viaggio di Pitea e gli scritti di Plinio e san Brendano avevano collocato una «regio aprica, felici temperie»: un paradiso in terra. I rapporti concreti di persone italiane con il settentrione hanno inizio nel 1432, dopo il naufragio di un mercantile sulle coste delle isole Lofoten; da allora si sono succeduti contatti commerciali, visite diplomatiche nel regno di Svezia e itinerari di studio, sovente documentati da puntuali resoconti. L’interesse degli ultimi decenni del XIX secolo che, come abbiamo già visto, coinvolge anche alcune viaggiatrici, è determinato dalle esplorazioni artiche e da una rinnovata curiosità per la cultura, le tradizioni, la forma sociale dei Paesi scandinavi.

Alcuni giornalisti e studiosi italiani (uomini) contribuiscono con i loro resoconti a diffondere la percezione del nord tra i lettori e le lettrici della neonata Italia. Un viaggio in Lapponia con l’amico Stephen Sommier è il resoconto del «viaggio fatto in furia» da Paolo Mantegazza nel 1878: «La Scandinavia ha per noi un fascino misterioso, che ci attrae, ci innamora, che ci lascia un lungo ricordo più caro ancora del godimento stesso»; l’autore sottolinea la disponibilità femminile all’incontro con il viaggiatore del sud, che diventerà uno stereotipo degli scritti maschili: «nel calmo lago delle chiome bionde» è possibile «sentirsi rinfrescati per tutta la vita e guariti dagli incendi delle chiome corvine e delle pupille profonde delle nostre donne». Il suo interesse principale è però quello antropologico, che si traduce in osservazioni e misurazioni delle «razze» che incontra. Innanzitutto, per individuare il «tipo più puro della razza [norvegese]» si reca a Rorøs, una cittadina del sud; qui descrive il “tipo” nordico, contraddistinto da una «lentezza» cui si associa «una grande tenacità di sentimento […] lavato e purificato dalle cento e una ipocrisie» e «una semplicità ingenua, un’onestà profonda, una naturalezza seducentissima».
Da qui, Mantegazza si sposta in Lapponia per incontrare il popolo Sami e ri-conoscere gli antenati della specie umana nel presente, ri-trovare l’anello perduto che confermi «scientificamente» la catena evoluzionista che conduce all’umanità «progredita». I Sami sono «fossili viventi, testimoni del comune passato primitivo dell’umanità, minacciati dal diffondersi della civiltà». Alla loro classificazione non hanno provveduto gli studiosi locali, concentrati sulle tradizioni e sul folklore. In quanto antropologo, invece, Mantegazza procede «scientificamente» studiando e catalogando ottanta individui: «[…] guardiamoli in faccia per vedere quanta parte di essi sia in noi e quanta parte di noi si ravvisi in essi. […] L’impressione prima che ci fa un lappone, è quella di una creatura umana povera, modesta, che chiede scusa ai forti di trovarsi in questo mondo». I Sami sono bassi, «con lineamenti proprii di razze inferiori». Per quanto riguarda gli «svaghi», Mantegazza sottolinea che «è fuor di dubbio che l’abuso del caffè e del tabacco contribuisca a dare ai lapponi un nervosismo singolare […] ma quei poveri uomini come potrebbero tollerare la loro vita polare senza quei due alimenti nervosi? [Sono] capricciosi e in tutto simili ai nostri fanciulli. L’ambiente li domina, non essi l’ambiente».
La maggior parte del lavoro fotografico e dei rilevamenti antropometrici durante questo viaggio fu realizzata da Stephen Sommier che, inoltre, descrive il «bagno finno», ovvero la sauna, insistendo sul disagio del contrasto fra caldo e freddo, sull’imbarazzo della propria nudità e della promiscuità di corpi sconosciuti. Sommier torna in Lapponia con un amico nel 1884 per un viaggio invernale, documentato in Un viaggio d’inverno in Lapponia e destinato ai suoi nipotini, in cui lo stile e le descrizioni si adeguano a un pubblico di giovani lettori e lettrici. Oltre agli spostamenti in slitta, Sommier sperimenta «un sistema di locomozione assai più originale e divertente» su «due schegge di legno, sottili e lunghe più di un uomo, larghe quanto un piede e un po’ rialzate alla punta»: gli sci. Infine, per camminare con sicurezza lui e l’amico devono ordinare dei «ferri da ghiaccio come li hanno gli abitanti»: i ramponi.
A gennaio raggiunge il Circolo Polare, quindi le «isole Loffodi» e infine Hammerfest, nota per la «puzza» di pesce essiccato all’aperto. Capo Nord è una «parete rocciosa verticale [che] piomba a picco nel mare, nera e minacciosa»; descrive così l’aurora boreale: «talvolta sono raggi pallidi verticali […] altre volte tenui nubi luminose […] che continuamente si muovono, si dileguano e ricompariscono […] altre volte quei bagliori si dispongono in cielo a forma di cerchio schiacciato […]». Anche la neve lo stupisce: non solo cade dall’alto, ma turbina in ogni direzione a causa del vento. I Sami, finalmente incontrati nell’estremo nord, diventano «i miei Lapponcini», con un affetto misto a senso di superiorità; un popolo «timido e docile», ma con «il sistema nervoso estremamente eccitabile» e «molto superstizioso».
Al ritorno i viaggiatori attraversano la Finlandia, imbottiti di pellicce, bilanciandosi sulle pulk, le piccole slitte lapponi. Donne e uomini finlandesi sono contadini che mangiano un pane «scellerato» di «paglia tritata»; negli anni di carestia, anzi, il «pane della fame» è fatto di scorza di pino. I due amici decidono di provare la sauna, tuttavia non hanno il coraggio di uscire e rotolarsi nella neve senza abiti, comportamento che invece «ai Finlandesi sembra cosa naturalissima». Il viaggio prosegue a cavallo nel fango dello «sgelo»: Sommier teme la rottura delle lastre fotografiche e il ritorno alla ferrovia e alla civiltà il 21 aprile è salutato come «la fine delle nostre tribolazioni».

Nel 1884, mentre Sommier attraversa la Lapponia, esce Un lembo della Scandinavia del giornalista Emilio Nunziante. Il testo si concentra soprattutto sulle grandi città nordiche e la narrazione si sviluppa attraverso un classico resoconto informativo, che sottolinea gli aspetti pittoreschi del paesaggio, utilizzando vocaboli e aggettivi che rivelano una visione romantica della Svezia e una profonda fascinazione per tutta la Scandinavia. Stoccolma è «ammaliante» per i suoi palazzi e per l’atmosfera. A Uppsala l’autore ammira l’università, la cattedrale e le tre colline dove la leggenda vuole che dormano le divinità; nella biblioteca, a testimonianza dell’universalità della cultura italiana, si trova un’edizione del Bruto di Alfieri in svedese. Il viaggio conduce Nunziante in Dalecarlia; nella chiesa di Falun assiste alla celebrazione in contemporanea di semplici cerimonie di battesimi, matrimoni e funerali. Il trasferimento verso Cristiania è molto confortevole, poiché «i treni sono fatti per i viaggiatori, e non i viaggiatori per i treni». Il pasto a Ludvika è un’ottima occasione per familiarizzare con gli altri commensali: «lo straniero nel paese è un vero ospite» e l’italiano, in particolare, suscita curiosità.
Proseguendo in treno è testimone della povertà di famiglie contadine, che, tristi ma dignitose, salutano per l’ultima volta il loro Paese; viaggiano in terza classe per imbarcarsi e l’autore prova vergogna per la sua condizione di turista benestante. A Cristiania illustra la storia delle «tre capitali» storiche della Norvegia: Nidaris, l’antica Oslo e l’attuale Kristiania. L’ultima tappa è Trondheim, con la «suggestiva» cattedrale, raggiunta dalla nuova ferrovia, dove i «Norvegiani» lo accolgono sorpresi di incontrare un italiano «così a nord». Il viaggio di ritorno prosegue prima in vapore poi a cavallo, con brevi tappe alle gaard, le fattorie, veri microcosmi autosufficienti immersi in un paesaggio «alla Doré».
Un ultimo cenno storico riguarda un famoso guerriero e re medievale, «Harald dai bei capelli» (Harald I), capostipite di una progenie di pirati che avrebbe toccato la Sicilia, da cui la famosa invocazione «a furore Normannorum libera nos Domine». Nelle sue conclusioni l’autore conferma l’attrazione per questa parte del mondo, insieme selvaggia, ricca di tradizioni e di affascinanti leggende.

Il resoconto di Guglielmo Ferrero si concentra su osservazioni di tipo sociologico. Nel suo L’Europa giovane, pubblicato nel 1897 dopo aver visitato Londra, la Scandinavia, Mosca e la Germania, sostiene la realtà, «scientificamente provata», della differenza fra razze latine e germaniche. Il capitolo dedicato alla Scandinavia ha un titolo significativo: Il Paradiso Terrestre alla fine del secolo XIX: secondo l’autore la «razza» nordica avrebbe creato «un piccolo paradiso sociale in mezzo alle più maligne condizioni della natura […] pare proprio che la felicità sociale si sia rifugiata nelle ultime terre abitabili dell’Europa conquistate dalla razza germanica. L’indimenticabile impressione di quelle graziose e tranquille città!
Non sono in esse questioni sociali né atroci contrasti di classe; la ricchezza è bene distribuita nella massa, l’istruzione è così diffusa che anche i contadini si concedono il lusso di una istruzione superiore. La terra resta ancora divisa in un gran numero di proprietà non troppo grandi ma non troppo piccole […] l’industria si sviluppa, nelle città, ma senza quell’odiosa intensità di sfruttamento […] il benessere è generale, molti comforts […] sono comuni tra il popolo; la dignità umana è sentita e rispettata anche negli uomini appartenenti ai mestieri più umili; nei rapporti tra le diverse classi, tra il governo e i governanti, interviene un certo spirito di dovere, non la forza brutale […] ebbi per la prima volta una solenne visione del mondo morale;
la visione di una società fondata sulla ragione non sulla forza, morale e prospera, progrediente senza far vittime, laboriosa e non affamata di oro; libera di ogni oppressione intellettuale, politica, economica». Un risultato, conclude l’autore, ottenuto attraverso l’abnegazione di secoli.

Nel 1899 il resoconto del giornalista Mario Borsa viene pubblicato con il titolo Verso il sole di Mezzanotte. Tra le pagine più interessanti le interviste a due grandi autori norvegesi: Henrik Ibsen e Bjørnstjerne Björnson. Ibsen è definito «il Vichingo moderno del pensiero», da affiancare a Wagner e a Tolstoj, in quanto permette di «conoscere e penetrare la vita, il pensiero, l’idealità degli altri popoli». Un tempo conservatore, l’anziano autore norvegese è ormai «fuori d’ogni partito […] fa da sé: è un anarchico». Crea i suoi drammi quando i personaggi compaiono «dalla nebbia […] vengono a me e diventano i miei amici». Sulle sue eroine Ibsen afferma di trattare «il problema psicologico-sociale della donna; non la donna qual è, ma quale vorrebbe che fosse».
Il secondo incontro importante è quello con Björnson, che vive isolato nel remoto villaggio di Aulestad. L’ospite è «messo alla campagniuola ma colla freschezza e la distinzione di un figurino, alto e tarchiato […] è pieno di vigoria e di fuoco; sa di avere una magnifica testa e la conserva bene, coi capelli bianchi […] che gli salgono maestosi sulla fronte superba […] i suoi occhi scintillano: la bocca è tagliata dal sarcasmo: le mani affilate, classiche». L’autore è impegnato in politica, nella «sinistra radicale, che domanda, fra l’altro, il suffragio universale […] e si crede l’incarnazione di tutto il suo popolo»; rispetto alla Svezia, egli sostiene «non la separazione, ma l’indipendenza […] perché noi abbiamo i nostri affari […] e intendiamo seguire una politica pacifica».
Sull’argomento della religione proporrà «una chiesa norvegiana protestante: che abbia uno spirito nazionale». Alla domanda diretta sul voto alle donne non ha dubbi: «Certamente! […] le nostre donne sono educate alla vita pubblica». Quanto agli autori italiani, il norvegese apprezza Carducci e Fogazzaro, mentre considera D’Annunzio «uno stilista, non un uomo». Borsa sa che Björnson non è amato da tutti, a differenza di Ibsen o dell’esploratore Nansen, perché «ha un posto di battaglia […] è popolare e democratico […] un tribuno […] quasi un socialistoide»; poiché invece Ibsen «è filosofo» i rapporti tra i due, nonostante siano parenti stretti [Ibsen è il suocero di Björnson], sono a volte molto tesi. Entrambi comunque sono innamorati dell’Italia, dove tornano regolarmente a svernare.
I giornalisti italiani continueranno a visitare la Scandinavia durante il primo Novecento, nello stesso periodo delle viaggiatrici che stiamo incontrando in questa serie di articoli. Nel 1908 esce Attraverso la Svezia, una raccolta di novelle tradotte da Astrid Ahnfelt; l’Introduzione di Antonio Beltramelli è il suo diario di un viaggio in un’affascinante Svezia estiva dove incontra, tra gli altri, il famoso pittore Carl Larsson. Nel 1921 è Luigi Barzini jr. a visitare il nord e ritrarlo in Impressioni Boreali, dove tuttavia appare evidente come quest’area stia perdendo il fascino esotico del passato per rappresentare, invece, una zona progredita dalla quale l’Italia può trarre esempio di modernità.
In copertina: la casa di Bjørnstjerne Björnson, villaggio di Aulestad.
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Articolo di Rossella Perugi

Laureata in lingue a Genova e in studi umanistici a Turku (FI), è stata docente di inglese in Italia e di italiano in Iran, Finlandia, Egitto, dove ha curato mostre e attività culturali. Collabora con diverse riviste e ha contribuito al volume Gender, Companionship, and Travel-Discourses in Pre-Modern and Modern Travel Literature. Fa parte di DARIAH-Women Writers in History. Ama leggere, scrivere, camminare, ballare, coltivare amicizie e piante.