L’Ovo di Gubbio ossia il monumento all’adultera lapidata

Bentivoglio. Foto di Alessandro Alimonti

Lo scorso 3 aprile è stato ricollocato a Gubbio, dopo il restauro, il monumento all’adultera lapidata, proprio nel giorno il cui la sua autrice, Mirella Bentivoglio, avrebbe compiuto 100 anni. L’Ovo, come lo chiamano gli eugubini, è considerato la prima scultura pubblica femminista italiana, pertanto può essere interessante ripercorrerne brevemente la storia. Era il 1976 quando Mirella Bentivoglio (Klagenfurt 1922–Roma 2017) partecipò alla biennale di Gubbio con quest’opera che si offre a noi con diversi livelli di lettura. Bentivoglio volle collocarla fuori dalle mura di Gubbio, proprio perché nel medioevo le adultere venivano lapidate pubblicamente in uno spazio non protetto dalla cinta muraria della città. La scultura ha la forma di un uovo alto ben due metri e trenta, la struttura interna è di legno, l’esterno è formato da pietre di origine locale, perciò analoghe a quelle usate un tempo per la pubblica esecuzione delle adultere.

L’Ovo di Gubbio

Il primo livello di senso che ci sbatte di fronte l’artista è l’evidente contrasto tra l’uovo, simbolo di vita, e le pietre strumento di morte. Su una di queste pietre è incisa la dedica «all’adultera lapidata». La scritta è rivolta verso l’interno, perciò resta invisibile. Bentivoglio donò alla comunità la sua opera perché ritenne che quella fosse la sua collocazione naturale, l’uovo non avrebbe potuto essere rimosso dall’unico posto dove esplicitava pienamente il suo significato simbolico. Secondo la leggenda quello era il luogo dell’incontro tra san Francesco e il lupo, identificato, stando a una ricerca iconografica condotta dall’etnologo Giancarlo Gaggiotti, in una lupa, termine con cui in latino si indicava la prostituta, la donna-oggetto per eccellenza. Bentivoglio condivide questa interpretazione perciò la collocazione dell’uovo, simbolo femminile, nel luogo dove Francesco ha incontrato una prostituta, stabilisce secondo l’artista «un accordo di pace tra uomo e donna nel segno dell’uguaglianza». Altro piano di lettura: l’uovo è collocato lungo il percorso che ogni anno a metà maggio compiono i ceri, proprio nel punto in cui prende il via la salita più ripida. La festa ha carattere religioso e celebra il santo patrono della città, il vescovo Ubaldo, ma sia la stagione che la forma fallica dei ceri richiamano antichi riti della fertilità e caratterizzano la natura maschile della festa. Per questo Bentivoglio colloca lì il suo uovo, a evidenziare «il primo inserimento di un segno femminile in luoghi tradizionali di cerimonie della fertilità, finora considerate riti esclusivamente maschili».

Per tutti questi motivi l’opera risultava pienamente integrata al luogo in senso paesaggistico, storico e sociale, ma nel 2004, dopo essere sopravvissuto a ben due terremoti, l’Ovo crollò. L’intelaiatura di legno era collassata, del resto nell’intenzione dell’autrice si trattava di una performance legata all’evento della biennale, non destinata a durare per sempre. Nel paesaggio di Gubbio si era creato un vuoto, una mancanza fortemente sentita dagli eugubini e finalmente si sono trovati i fondi per un progetto di restauro.

Ora qualche parola sull’autrice: Mirella Bentivoglio, artista e critica, si è molto spesa nel corso della sua vita come animatrice e curatrice di esposizioni dedicate all’arte femminile. Ha iniziato il suo percorso artistico come poeta, ma poi ha avvertito il limite della parola scritta finché la parola è diventata concreta, dando a volte esiti di poesia visiva. In un percorso estremo di visualizzazione del linguaggio, l’artista stacca le parole dalla frase, isolando sillabe e lettere per poi ricombinarle in modo sapiente. Secondo Bentivoglio la creatività femminile ha un approccio particolare nei confronti del linguaggio-immagine. È il linguaggio il luogo dove vanno cercati i segni di un’altra creatività, quella femminile. Diverso è il rapporto del mondo maschile con il linguaggio, inteso come logos, come legge, ma la donna, scrive Bentivoglio nel 2001, «aveva una diversa sovranità sulla parola, totalmente privata. Dava il linguaggio ai figli. Conosceva il linguaggio come energia psichica, come spazio, materia; la burocrazia della parola le era estranea e in un certo senso nemica. Ciò rende oggi la donna estremamente idonea a un genere nuovo di comunicazione poetica, fondato sul segno linguistico mescolato all’immagine della materia». Agli anni Sessanta risale il suo lavoro con le lettere O, E ed H. È del 1966 l’opera grafica gabbia (:HO).

Gabbia

Vi si visualizza la prima persona singolare del verbo avere, l’idea del possesso, come una prigione. Le H formano una sorta di gabbia, la O si configura come l’apertura. L’H si presenta come «il segno dell’astrazione, della separazione, della ripetitività e dell’organizzazione», l’O si rivela «sfuggente, fisica, sonora, unica, il segreto della manifestazione universale». Mariella Fasinati ci aiuta a capire il cammino successivo: «Negli anni Settanta, Bentivoglio svilupperà il percorso esplorativo sulle potenzialità comunicative a livello simbolico della O, sempre più forma aperta a significati plurimi, portatrice di altri sensi e concetti: l’idea dell’origine, la rappresentazione dello zero, le coppie oppositive di vuoto/pieno, nulla/tutto. E da qui approderà alla forma ovale, all’immagine dell’uovo, simbolo universale e sacro, da sempre, nella storia dell’arte, una delle strutture originarie che hanno connesso civiltà e culture anche molto distanti fra loro, archetipo che ha dato espressione visiva ai miti cosmogonici sull’origine dell’universo, al concetto simbolico della rigenerazione e della rinascita, all’idea stessa della creazione artistica».

E così siamo arrivati al 1976 e all’Ovo di Gubbio. Noi ci fermiamo qui. Non si fermerà qui la ricerca di Bentivoglio e la sua riflessione continua sul linguaggio, ma da Gubbio in poi l’uovo costituirà una costante della produzione visiva dell’artista.

In copertina: la scultura l’Ovo.

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Articolo di Paola Spinelli

Paola Spinelli. foto.jpg

Ex insegnante, ex magra, ex sindacalista, vive a Perugia alle prese con quattro gatti e i suoi innumerevoli hobby, ma è in grado di stare bene anche senza fare niente.

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