Fissata la meta per la penisola del Sinai e sentito un amico che vi era stato in passato, si parte in aereo per Sharm el Sheik. Abbiamo una prenotazione al Bedouin Camp di Santa Caterina, una delle sole due strutture ricettive del luogo. Il responsabile ci manda un driverman all’aeroporto che riconosciamo perché solleva un foglio col mio nome; sono queste le modalità ormai note e diffuse di riconoscimento, ma fanno un certo effetto quando ne sei protagonista. In auto ci mette una musica beduina per farci entrare nell’atmosfera desertica; per due ore e mezza il panorama non cambia: montagne rocciose e aride di color bruno rossastro con sfumature basaltiche e qualche raro ciuffo d’erba secca. Poche le vetture incontrate e molti i posti di blocco a ogni protettorato dove avvengono scambi in arabo tra il conducente e i poliziotti; si comprende una sola parola: «italien, italien» e ci fanno passare con un cenno della mano, dopo aver segnato sui loro registri il numero dei nostri passaporti.

Eccoci arrivati al villaggio di Santa Caterina, dove Mohamed è nato e dove gestisce il Camp che suo padre aveva iniziato a costruire quaranta anni fa, quando in Egitto nasceva il turismo moderno. Lui, ultimo di sette figli, di 32 anni, è l’unico ad aver studiato all’università del Cairo marketing turistico e ora gestisce col fratello il Bedouin Camp. Le abitazioni hanno iniziato a essere in muratura solo sessant’anni fa, prima erano tende beduine adatte alla vita nomade. Nel raccontarmelo, Moamhed fa riferimento alla vita della sua famiglia: suo nonno ha vissuto sempre e solo nelle tende, suo padre si è sposato vivendo i primi anni nella tenda, poi ha costruito in muratura. Da non troppi anni è stata asfaltata l’unica strada che collega Santa Caterina con gli altri centri sulla costa. Da quarant’anni circa le automobili hanno sostituito i cammelli.

Nel suo racconto si avverte il senso di orgoglio per il suo popolo. I beduini non hanno confini, si sentono un unico popolo, benché distribuito in tutto il Sinai e in tutta la penisola arabica; si vestono con una lunga tunica e in testa portano la kefiah, differente da zona a zona, fermata con un cordoncino. In dieci giorni non ho quasi mai visto donne, solo qualche bambina sorridente a volto scoperto e in gonna lunga. Sono solo uomini che lavorano nel Camp: cuoco, camerieri, autista, giardinieri, addetti alle pulizie delle camere e alla lavanderia. Ho chiesto dove fossero le donne e cosa facessero e ho saputo che lavorano in casa, cuciono manufatti, oltre che badare alla casa e ai figli, ma non fanno mai lavori che le possano esporre. Ci affidiamo a Mohamed per l’organizzazione delle visite a Santa Caterina e sul monte Sinai. Il tassista tuttofare, Mustafa, ci accompagna al monastero, distante 3,5 km dal Camp, luogo di culto delle tre religioni monoteiste: ebraica, cristiane e musulmana.

È ai piedi del monte Sinai, circondato da un’imponente muraglia, color della roccia, che fu fatta costruire da Giustiniano nel sesto secolo a protezione dei monaci che si trovano all’interno; l’impero romano, dopo averla perseguitata, si è messo alla difesa della cristianità dagli attacchi beduini che terminarono dopo che Maometto, rifugiatosi nel monastero perché ferito, lasciò scritto che mai si sarebbe dovuto attaccare quel luogo sacro. Nel Natale del 373 c’era stata, infatti, una distruzione del monastero con l’uccisione di tutti i monaci; andò distrutta anche la prima cappella costruita attorno al roveto ardente e dedicata a Maria, voluta da Elena, la madre di Costantino, recatasi in questo luogo d’origine del mondo ebraico-cristiano nel 324, all’indomani dell’Editto. Giustiniano fece costruire l’attuale chiesa che dedicò alla Trasfigurazione, fino alla sua successiva dedicazione a santa Caterina nel nono secolo.
Caterina, della cui vita si hanno poche notizie, nacque ad Alessandria nel 287 e morì, pare, nel 305; era figlia del re Costa che morendo la lasciò in tenera età. Si fece cristiana, ma alla festa, che il tetrarca Massimino diede, si rifiutò di rinnegare la sua fede, anzi chiese che il Cristianesimo venisse diffuso argomentando filosoficamente la sua tesi. Il tetrarca, colpito dalla bellezza e dalla sapienza della ragazza, la chiese in sposa e le mandò dei retori a persuaderla. Costoro non riuscirono a dissuaderla, anzi furono a loro volta convertiti e di conseguenza condannati a morte. Caterina fu anch’essa condannata, prima alla ruota e poi fu decapitata. I suoi resti furono ritrovati dai monaci presso il monastero nel nono secolo e da allora fu cambiata la dedicazione in suo onore. Il monastero di Santa Caterina è un luogo rimasto immutato nei secoli, isolato e difficile da raggiungere; un tempo, per raggiungerlo da Suez ci volevano dieci giornate di traversata nel deserto a dorso di cammello, erano quindi in pochi a visitarlo. Tra il settimo e il decimo secolo si sa molto poco del monastero, ma oggi è dichiarato patrimonio mondiale dell’Unesco. Ogni alba dalle differenti costruzioni di diversa epoca si emanano trentatré rintocchi, simbolo degli anni di vita di Gesù. Il monastero è luogo di rifugio, trovandosi al centro di una zona desertica, e di sostentamento, anche per le famiglie beduine che vivono nei dintorni, avendo orti e giardini al suo interno; attualmente conta la presenza di una trentina di monaci di rito bizantino del patriarcato di Gerusalemme. I visitatori sono in maggioranza russi e ucraini, ma in questo periodo sono diminuiti moltissimo per le note ragioni. Entrando ci si trova in spazi piuttosto ridotti, con edifici costruiti nel corso dei secoli l’uno a ridosso dell’altro.
Sulla sinistra vi è subito il pozzo ora protetto, ma ancora funzionante, con acqua che viene dal profondo. In Esodo 2,15 si parla di Mosè che sta accanto al pozzo, dove incontra le sette sorelle che difende dai predoni, sposando poi la prima di esse. Il pozzo ha un grande significato simbolico, quello della riscoperta di sé proprio per l’acqua da cercare nel profondo. Poco lontano da esso si incontra il roveto, un grosso cespuglio di rovi ancora vitale, che si rinnova ogni anno, dove Mosè, dopo aver trovato sé stesso accolse la voce di Dio. Sulla parete che sorregge il roveto vi è un bel mosaico raffigurante Mosè che si toglie i calzari come Dio gli ha ordinato in segno di dipendenza da lui; senza calzari non può fuggire, ciò significa morire a sè stessi, abbandonare il controllo, accettando di non essere Dio.

Togliere i calzari significa sintonizzarsi con la voce di Dio, con umiltà. Ho notato che nelle fenditure del muricciolo che sostiene il roveto ci sono dei biglietti ripiegati lasciati dai fedeli, come si trovano nel muro del pianto a Gerusalemme. Sono preghiere scritte da chi giunge qui da tre fedi differenti e che trovano in Mosè la propria origine: ebrei, cristiani, ma anche islamici che venerano Mosè come un profeta. I monaci fanno molto, ogni giorno, per la protezione dell’immenso patrimonio da essi custodito. Vi è una preziosissima Biblioteca, non aperta al pubblico, che racchiude 3300 manoscritti, tra cui alcune pagine del Codex Sinaiticus, 8000 libri antichi in 13 lingue diverse; i manoscritti non sono solo religiosi, sono d’astronomia, di storia, di filosofia; è la biblioteca più importante al mondo dopo quella Vaticana, ma è prima per i testi siriaci e arabi. Si entra poi nel museo che esiste dal sesto secolo ed è stato recentemente riorganizzato con l’aiuto del Metropolitan Museum. Ci sono circa 200 icone di diverse epoche, con i vari stili bizantini, tra cui quella di San Giovanni Climaco, e per questo è considerato il primo al mondo. Le icone, a partite dal quarto secolo, raffigurano Cristo, Maria, i Santi, sono prima dell’iconoclastia che non è mai arrivata nel Sinai, motivo per cui si sono potute salvare

Nelle bacheche sono visibili molti oggetti a uso ecclesiastico di diversi paesi, arrivate al Monastero da imperatori e credenti come doni di fede, vi sono copie di Vangeli in lingua greca, siriaca o aramaica. Vi è anche una curiosa brocca in metallo a forma di gallina, dono di Maometto al monastero. Si passa poi a visitare la chiesa che ha portoni del decimo secolo abilmente intagliati e la classica impostazione bizantina dove l’altare è separato dalla navata dal transetto iconografico, dal soffitto scendono molte lampade dorate e argentate; si celebra con rito greco-ortodosso in modalità immutate nei secoli. L’opera di maggior rilievo è il magnifico mosaico del sesto secolo della Trasfigurazione che occupa l’abside, in parte visibile dal transetto. Terremoti, intemperie, nonché i fumi delle candele lo hanno rovinato e, nei secoli, ha subito molti restauri. L’ultimo, imponente, conclusosi nel 2016, finanziato da un arabo, a cura del Centro di Conservazione Archeologica di Roma, con la collaborazione di Venezia per la produzione dei tasselli vitrei per la sostituzione di quelli mancanti, ha ridato all’opera l’antico splendore.
Accanto alla basilica sorge la bianca moschea dei Fatimidi, sovrastata da un piccolo minareto, costruita nel 1107. Nel corso del settimo secolo il monastero divenne un luogo di culto anche per l’islam. Durante il settimo secolo i monaci furono però fatti allontanare, tuttavia il monastero sopravvisse perché ben protetto dalle possenti mura, in cui l’unico accesso era un piccolo varco posto a diversi metri di altezza e raggiungibile soltanto tramite una carrucola. Intorno al IX secolo il monastero tornò a essere accessibile alla comunità di monaci che, in seguito al presunto ritrovamento dei resti della protomartire cristiana Caterina d’Alessandria, lo rinominarono intitolandolo a lei e le sue reliquie custodite all’interno divennero presto oggetto di venerazione per i numerosi pellegrini. Significativo nella storia è il pellegrinaggio di Egeria, facoltosa donna cristiana spagnola, in Terrasanta, che si è svolto tra il 381 e il 383 con la visita anche al monte Sinai datata verso la fine del 383, come lei ha lasciato scritto. La visione del monte di Dio – quasi al termine del suo fantastico viaggio – suscitò in Egeria una profonda commozione, certa com’era di essere giunta in presenza della meta forse più importante da quando era partita dalla lontana Galizia.
Anch’io, come l’antica viaggiatrice, desidero salire sul monte Sinai e per questo mi accordo con Moamhed del Bedouin Camp. Nessuno degli ospiti si era prenotato per quel giorno, andrò quindi sola, sul cammello fino a un certo punto del monte e con una guida che starà con me per tutto il percorso di andata e ritorno. Pattuita la cifra, scopro che dovrò partire all’una di notte, avendo io scelto di assistere all’alba. Il tassista Mustafa mi accompagnerà al monastero da dove partono tutti coloro che fanno il pellegrinaggio; dovrò portare il passaporto per la polizia locale che registra il nome di tutte le persone che salgono. Non so altro, mi affido a sconosciute guide beduine e, dopo qualche ora di riposo, mi faccio trovare all’appuntamento con Mustafa che, dopo poca strada, fa salire sul cassone del Pickup un giovane beduino: la mia guida!

Sulla strada che conduce al controllo cerco di scambiare qualche parola col giovane ragazzo, Jamaal, a cui chiedo l’età: mi risponde mostrandomi il cellulare su cui ha digitato 22, pensavo meno. Mi accorgo che al punto di controllo vi è molta gente giunta coi pullman dal Cairo o da luoghi di mare. La polizia che registra i pellegrini mi fa passare: italien. Jamaal mi fa avvicinare a un altro ragazzo nel punto di ritrovo dei cammelli, salgo e lui lo conduce con una corda, così ci avviamo piano piano sul sentiero di montagna in piena notte. Sono accompagnata da Jamaal, in abiti occidentali, jeans e giacca a vento, mentre il ragazzo del cammello è in abiti beduini tradizionali; entrambi hanno il cellulare acceso e parlano, chissà con chi all’una e mezza di notte. Il sentiero è facilmente percorribile dal cammello; era stato tracciato dai monaci del monastero per consentire un accesso al monte Sinai più agevole per i pellegrini. Io che non sono mai salita su un cammello dondolo avanti e indietro sistemandomi tra il pignone anteriore e quello posteriore, nel più totale silenzio. Mi sento calma, serena, sveglia e attenta più che mai, per vivere questa esperienza unica, eppure così fortemente connessa a quella vissuta migliaia di volte da altri sconosciuti che ora, al di là del tempo, percepisco simili a me. Si sale lentamente e sembra che il cielo stellato sopra di me mi venga incontro, mi chiedo se quello di Kant fosse così bello.
La via lattea, qui al ventisettesimo grado di latitudine nord, nel mese di maggio, è un immenso striscione stellato che si estende dall’alto al basso della volta celeste; in essa splendono Orione, Vega e Sirius. Più scostato c’è il Piccolo Carro e molte altre stelle e costellazioni di cui non conosco il nome; è la nostra galassia. Non ho mai amato molto il mondo astronomico, ma in questo momento il mio pensiero va alla nostra Samantha e a tutto ciò che di incredibile i suoi occhi possono vedere. Il silenzio di questi cieli mi sgomenta e affascina nello stesso tempo, arricchisce il desiderio di conoscenza, lo stesso che avevano Giordano Bruno, che guardando il cielo vedeva infiniti mondi, e di Galileo Galilei che trascorreva le fredde notti di gennaio al cannocchiale, scrivendo poi le sue scoperte. I lenti passi del cammello mi riportano a terra, sul sentiero a zig zag, mi accorgo che non siamo soli, sia davanti a noi che dietro ci sono altri pellegrini con cammello o a piedi che si fanno strada con le torce. Ben illuminati vi sono punti di ristoro, bivacchi beduini che vendono bevande fredde o calde a chi desidera un momento di riposo nella salita. Le mie due guide proseguono senza sostare, ma salutano quelli che come loro fanno il turno di notte; non posso comprendere il loro linguaggio, mi avvalgo del piacere di poter stare in silenzio, seguo il dondolio del mio cammello mentre… le stelle stanno a guardare.
Eccoci, dopo più di due ore circa, nel punto in cui i cammelli non possono più salire e devono tornare indietro; da lì si va solo a piedi. Rimango con solo una guida, Jamaal, ad affrontare l’ultimo tratto, quello dei 750 gradoni che portano alla cima. Mi affatico molto, ma dando il braccio al giovane beduino, passo dopo passo riesco ad avanzare. Mi fermo spesso a prendere fiato, lui mi chiede: «sit down?» Yes, è sempre la mia risposta. Lui calza dei semplici sandali senza calze e saltella con gran facilità. In questo ultimo tratto le persone sono più ravvicinate; sento in prevalenza parlare arabo, sono giovani provenienti dal Cairo, ma non mancano persone di età matura che fanno fatica come me. Dopo circa un’ora, proprio mentre credo di scoppiare, Jamaal mi dice che è finita, che vi è un ultimo bivacco dove è possibile riposare; mi trovo all’interno dove panche in muratura, ricoperte da coperte beduine dai colori sgargianti, offrono un gradito punto di riposo. È notte fonda, sono quasi le quattro e si usa così, riposare prima dello spuntare del sole. Mi corico pensando che mi sarà impossibile dormire e invece dormo per più di mezz’ora. Vengo svegliata da una voce, quella del beduino che gestisce il bivacco: «madame, sunshine!» stupendo risveglio, è mattino, sono quasi le cinque. Mi precipito fuori e seguo altri che cercano di salire sugli ultimi pietroni verso la cima, a 2600 metri. Le luci dell’alba perforano l’orizzonte, la visione delle montagne aride a trecentosessanta gradi è maestosa e meravigliosa, da qui il panorama abbraccia dal golfo di Aqaba alle montagne dell’Africa e dell’Arabia Saudita
Anche la viaggiatrice Egeria descrive la straordinaria vista che si gode dalla sommità del monte: «…benché i monti che si trovano intorno siano tanto alti quanto penso di non averne mai veduti, tuttavia quello al centro, sul quale discese la maestà di Dio, è tanto più elevato di tutti che, una volta salitici sopra, allora tutte le altre montagne, che avevamo viste tanto alte, si trovavano così al di sotto di noi, come se fossero state collinette piccolissime».
In cima ci sono due piccoli luoghi di culto, una moschea aperta, nella quale vedo musulmani entrare per la preghiera e una cristiana che però è chiusa. Tira un’aria molto fresca, ma sopportabile; tutti fanno foto. Sento due italiani che si parlano e posso esprimere a loro qualche parola di entusiasmo e di gioia che mi prorompono dal petto. Col passare dei minuti l’alba si fa sempre più chiara: è come una nascita data al mondo per reinventare ogni giorno un futuro migliore, una speranza per abitare la terra. Io, con le lacrime agli occhi, penso a Mosè, al suo salire e al suo ascoltare le dieci parole che scolpisce nel suo cuore, oltre che sulle tavole (Esodo 19). Esse ci sono donate perché, seguendo quelle parole, possiamo pronunciare «Io ci sono».

Scendendo a piedi Jamaal stava dietro di me, fermandosi sui muretti lungo il sentiero, e saltellava raggiungendomi quando era distante. Prima delle otto eravamo al monastero e lì ho notato un cimitero beduino senza fasti né nomi sui piccoli cippi; è il cimitero di Aronne con la sua tomba. Era fratello di Mosè, quello che lo accompagnò sul monte e che parlava al suo posto, avendo una maggior fluidità linguistica.
Il mio pellegrinaggio era terminato, era giunto il momento di ringraziare e salutare la mia giovane guida: di questo viaggio oltre alle meraviglie del paesaggio porterò nel cuore le risposte ricevute alle mie domande.
Foto di Ettore Magistrani.
In copertina. Monte Sinai. Foto di Maria Grazia Borla.
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Articolo di Maria Grazia Borla

Laureata in Filosofia, è stata insegnante di scuola dell’infanzia e primaria, e dal 2002 di Scienze Umane e Filosofia. Ha avviato una rassegna di teatro filosofico Con voce di donna, rappresentando diverse figure di donne che hanno operato nei vari campi della cultura, dalla filosofia alla mistica, dalle scienze all’impegno sociale. Realizza attività volte a coniugare natura e cultura, presso l’associazione Il labirinto del dragoncello di Merlino, di cui è vicepresidente.