Dal mese di aprile è stata pubblicata, disponibile solo in forma cartacea, una nuova rivista di geopolitica, Domino, rivista sul mondo che cambia. Ne sono direttore responsabile Enrico Mentana e direttore editoriale Dario Fabbri. Dopo quella che Putin ha definito «operazione militare speciale», su La 7 Enrico Mentana ha quotidianamente avuto come ospite per molto tempo il consigliere scientifico di Limes, riuscendo a catturare l’attenzione di molti spettatori e spettatrici, che hanno finalmente cominciato a interessarsi di geopolitica, questa strana disciplina che è entrata a far parte del curriculum di Economia Aziendale negli Istituti Tecnici senza che se ne accorgesse quasi nessuno e senza alcuna formazione obbligatoria, come spesso accade, dei e delle docenti da parte del Ministero dell’Istruzione. Ne è nata quindi l’idea di realizzare un nuovo strumento di interpretazione «sul mondo che cambia». Rispetto alla rivista Limes, che recensisco mensilmente su Vitamine vaganti, il nuovo prodotto editoriale è sicuramente più contenuto nel prezzo (10 euro a volume) più agile nel formato e nel numero di pagine (circa 100) e vorrebbe raggiungere un target più ampio, senza rinunciare al livello alto dei contributi dei suoi autori e delle sue autrici, alcuni dei quali scrivono anche su Limes. Maggiori sicuramente gli apporti di giornalisti e giornaliste e minore quello dei consiglieri scientifici. Gli editoriali di Fabbri sono sicuramente meno lunghi ed «eruditi» (mi si passi il termine) di quelli cui ci ha abituate/i Lucio Caracciolo, alla rivista manca una presentazione finale degli autori/autrici e le cartine pubblicate sono sicuramente più tradizionali e meno originali di quelle di Laura Canali, anche se molto accurate e di facile lettura. In compenso abbondano le fotografie, almeno nei primi due numeri, anche se non sempre con una buona risoluzione.
In questo articolo recensirò i primi tre volumi della nuova scommessa editoriale della coppia Fabbri-Mentana, essendo il quarto da poco reperibile, oltre che su Amazon, anche in edicola. Il primo numero si intitola Ritorno al futuro e ha un editoriale di presentazione abbastanza breve, intitolato Punto di svolta. La copertina ritrae un Putin vestito da zar e tra gli articoli spiccano quello di Francesca Mannocchi, La mina vagante dei combattenti stranieri nella Sezione Abisso Ucraina e, sempre in questa parte, l’approfondimento di Pietro Figuera, Quello che non abbiamo capito della Russia. L’appoggio della popolazione russa alla guerra (che nella Federazione non si può nominare così) tende a essere interpretato con le nostre lenti occidentali come una narrazione di regime. E in ciò sta l’errore. Riprendendo alcune parole dell’autore: «Il sostegno trasversale alla guerra, da parte dei russi, non è asservimento a un’informazione di regime, né una mera riproposizione in salsa russa del My country, right or wrong, bensì un’adesione largamente condivisa a una versione della storia alternativa a quella occidentale. Che trae le sue origini almeno dal crollo del Muro di Berlino e dalle illusioni del mondo unipolare. La fine della guerra fredda è un’indiscussa vittoria morale (e materiale) per Washington, ma una sconfitta non dichiarata né tantomeno accettata dalle parti di Mosca. L’equivoco è banale ma foriero di disastri per gli anni a venire […] Non abbiamo capito, innanzitutto, che la Russia si stava preparando da tempo, non tanto a questa specifica guerra… ma più in generale al peggio. A essere isolata economicamente e virtualmente, a dover tagliare i ponti con l’Europa per congiungersi all’inevitabile nuovo alleato cinese […] Prima di tornare a parlare alla Russia – prima o poi avverrà, a dispetto dei russofobi più spinti – sarebbe il caso di annotare queste e altre incomprensioni (tra le molte che il testo indica n.d.r.) del nostro rapporto con essa. Al netto di ogni doverosa condanna di quanto è già accaduto […] Capire l’interlocutore non significa assecondarlo. Anzi, può servire pure a contrastarlo meglio, all’occorrenza. Non capirlo, invece, non porta da nessuna parte. Sicuramente impedisce di precedere, tantomeno prevenire, l’avvio di nuovi, disastrosi conflitti».
Il secondo numero, Sfida finale, sottotitolo Mai russi e americani così vicini alla guerra nucleare, con l’Ucraina che resiste e l’Europa divisa, ha un bell’editoriale di Dario Fabbri, dal titolo Quanto a mezzanotte? il cui titolo richiama il Doomsday Clock, strumento inventato dalla rivista Bulletin of the Atomic Scientists dell’Università di Chicago per misurare la fine del mondo. Interessante l’articolo dell’analista geopolitico Dario Quintavalle, Fenomenologia di un negoziato (im)possibile e anche quello di George Friedman, che scrive di un suo ricordo familiare che ha riguardato il padre nella seconda guerra mondiale come chiave interpretativa del conflitto russo–ucraino–americano. Molto bello anche il contributo di Francesca Mannocchi sulla caduta di Kherson. Il mondo culturale religioso ortodosso è indagato in un contributo importante di Giorgio Livas. La parte sugli effetti farfalla della guerra contiene contributi notevoli, tra cui segnalo quello di Antonia Colibasanu sulla guerra economica globale. Ricco di spunti anche il contributo dello storico militare Virginio Ilari, Russia e Italia, Geostoria di un destino incrociato. Una parte importante di questo numero è dedicata alla Francia di Macron.
Il terzo numero della rivista si intitola L’Europa stretta, sottotitolo Parigi, con Berlino e Roma, sogna un’Unione indipendente. Ma la guerra russa e l’ipoteca americana la inchiodano alla realtà. L’editoriale di Fabbri offre molti spunti per capire alcuni avvenimenti e dichiarazioni dei vari Capi di Stato e di Governo, con un giudizio assolutamente negativo del piano di pace proposto dal Ministro degli Esteri italiano e si conclude affermando che «Parigi manca della profondità demografica ed economica per coagulare intorno a sé il resto del continente, per imporre le proprie istanze alla Russia, per sfidare gli Stati Uniti, per frenare la Cina. In formula: per difendere quella terza via, confitta nell’alveo onirico. Come il futuro dell’Europa». Gli articoli dei primi tre volumi sono tutti interessanti e, come per Limes, scritti prevalentemente da uomini. Mi chiedo se ciò dipenda dallo scarso numero di donne che si interessano di geopolitica e relazioni internazionali, o da altri motivi. Nel terzo numero, in cui ci sono quattro contributi a firma femminile, segnalo l’articolo dell’analista militare Fortunato Marassi, Ma l’esercito italiano è pronto per la guerra? che si sofferma sulle carenze dell’addestramento dei soldati della nostra Penisola e che, tra le righe, ha il pregio di ricordare, ridimensionando gli improvvisati commentatori che si dilettano a discettare di eventi militari, che «la scienza della guerra è, per l’appunto, una scienza, il cui apprendimento richiede una preparazione molto lunga che non si può improvvisare…». Più avanti nel suo saggio Marassi rammenta che il Governo italiano non ha mai reso pubblica la lista delle armi inviate in Ucraina. Notevole in questo numero anche l’articolo sulla situazione in Irlanda del Nord, mentre Pietro Figuera approfondisce nel suo La guerra russa combattuta da non-russi un tema quasi mai affrontato dai media mainstream scrivendo che «geograficamente le vittime russe del conflitto sembrano appartenere in buona parte ad alcune delle aree più povere del paese, tra il Caucaso e la Siberia orientale, passando per le regioni caspiche e quelle al confine col Kazakistan. Un dato che non stupisce: ai bassi redditi corrisponde la necessità di trovare percorsi di vita alternativi, facilmente sfruttata dallo Stato».
Lo storico militare Virginio Ilari, in Aspettando la controffensiva Ucraina fa un’affermazione su cui dovremmo riflettere: «Ammettere che la distruzione dell’Ucraina – il raddoppio del territorio occupato dai russi, almeno 30 mila morti, 12 milioni di profughi e sfollati, la crisi alimentare e i costi socioeconomici globali delle sanzioni – avrebbe potuto essere evitata con una reale disponibilità a negoziare l’accordo di sicurezza chiesto dalla Russia, sarebbe un’umiliazione devastante per l’Occidente, infinitamente peggiore della fuga dall’Afghanistan». Tutta da leggere, anche se solo in parte condivisibile, la posizione di George Friedman antagonista a quella di Kissinger nei rapporti degli Usa con Russia e Cina.
In questo terzo numero le firme femminili sono aumentate e i loro contributi sono tutti estremamente interessanti. Mi soffermerò sul saggio della giornalista Rebecca Pecori Cosa resta del battaglione d’Azov, segnalando però alla lettura tutti gli altri, in particolare quello di Fiorenza Mannocchi, Il Libano rischia di scomparire e quello di Costanza Spocci, Alba di una nuova rivoluzione egiziana? nella sezione della rivista Il Mediorente in fiamme. Che le guerre si facciano con le armi è indubbio, ma si fanno ancor più con i simboli. L’articolo che si occupa di ciò che resta del Battaglione d’Azov ha il pregio di sottolinearne l’impasto di ideologie ultranazionaliste di destra con nostalgie di superiorità slava fortemente antieuropeiste. All’atto della sua fondazione questo battaglione nasce russo. «Russa è la lingua che parlano i suoi soldati. Russa l’ideologia panslavista che c’è alla base. Lo stesso Andriy Biletsky, fondatore e primo comandante di questa formazione paramilitare, è originario di Kharkiv o Kharkhov, città che dista appena 40 chilometri dalla Federazione […] Nel novembre 2014 (il Ministro Avakov) incorpora il battaglione nella Guardia Nazionale Ucraina trasformandolo in una unità militare regolare e permanente […]Una volta incorporata nella compagine militare governativa e con il suo leader Biletskj entrato in Parlamento, la formazione Azov inizia però a mutare i suoi connotati». Sceglie di comunicare in ucraino e cambia lo stemma del reggimento. L’articolo procede con una serie di interviste a membri del battaglione, che però non sono autorizzati a raccontare quanto è accaduto nell’acciaieria Azovstal. Una moglie, però, riferisce alcuni particolari, che vale la pena leggere.
Ogni numero della rivista che ho recensito contiene una sezione introduttiva Perché Domino? che ci ricorda che gli autori e le autrici proveranno a calarsi «nello sguardo dell’altro, senza imporre le occidentali categorie interpretative a comunità lontane, senza applicare modelli prêt-à-porter a ogni luogo della terra. Per immaginare cosa sarà dell’Europa, quale destino coglierà la Russia, come l’America vorrà stare in cima al mondo, come la Cina proverà a sfidarla. Obiettivo ultimo sarà descrivere la connessione tra gli eventi, capace di produrre conseguenze in teatri insospettabili, di innescare quell’effetto domino che sconvolge l’esistenza». Una lettura interessante, da leggere senza mai dimenticare che, come ha sempre sostenuto Gino Strada, «la guerra non è mai la soluzione, ma sempre il problema».
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Articolo di Sara Marsico

Ama definirsi un’escursionista con la e minuscola e una Camminatrice con la c maiuscola. Docente per passione da poco in pensione, è stata presidente dell’Osservatorio contro le mafie nel sud Milano e referente di Toponomastica femminile nella sua scuola. Scrive di donne, Costituzione e cammini.