Il pane russo

«Mia gentile amica, moja dobraja podruga, il mio nome è Arina e questa lettera ti giunge, se mai ti giungerà, dalla lontana terra americana, un Paese non mio che la vita mi sta insegnando a chiamare “casa”, nonostante ci sia ancora chi si ostini a ricordarmi che questo posto non mi appartiene.
Sono nata in Russia, nei pressi del delta del fiume Neva, alle porte di una città che prima si chiamava San Pietroburgo, poi Pietrogrado e adesso, mi fa sapere la mia famiglia rimasta lì, Leningrado. Tanti nomi per uno stesso tramonto, per la medesima luce riflessa nel fiume, per lo stesso chiacchiericcio nelle strade.
Tanti nomi per la stessa medesima ingiustizia che ha voluto che fossi costretta a dare le spalle alle mura che mi hanno vista crescere. Non ho scelto io di andarmene. Non ho scelto io di guardare il nulla dell’orizzonte per provare a immaginare una qualche possibile speranza.
Partite significa dover nascere di nuovo: si perde il nome, si perde la parola, si perde lo sguardo netto e la giusta misura delle cose. Tutto è più buio, più rumoroso, più grande. Soprattutto la solitudine.
Alle occhiate sospettose e accusatorie, vorrei rispondere con mille parole e mille racconti.
E invece sono come una bimba incapace di parlare, obbligata a fissare l’alone del suo fiato sulla vetrina, mentre dentro la vita si scioglie calda e placida. Sono solo un respirare muto che, nonostante gli occhi bassi e le mani immobili, dà sempre e comunque fastidio.
A me non è permesso entrare.
Faccio troppo o faccio troppo poco. Eppure, credo che basterebbe conoscere la mia storia, così simile a tante altre storie, per strapparmi di dosso l’etichetta di “indesiderata” e di “straniera”. E non perché il mio vissuto sia speciale.
Sono convinta che l’essere umano sia buono e accogliente per natura e che tutti e tutte noi, almeno una volta nella vita, abbiamo avuto bisogno di qualcuno e abbiamo sperato che, dall’altra parte, ci fosse una mano pronta a stringere la nostra. Non voglio pensare che non ci si riconosca in chi chiede protezione, supporto o anche soltanto un po’ di conforto.
Sono piuttosto i governi, i padroni, i poteri che urlano e sbracciano talmente tanto da far apparire le grida di aiuto e le dita aperte come una minaccia e un pericolo. Essi preferiscono spaventare piuttosto che spiegare; imbavagliare piuttosto che far raccontare. E così, noi, uomini e donne che veniamo da oltre il confine, mettiamo paura e inquietudine, come se la nostra povertà potesse essere contagiosa. Ma ti assicuro, mia cara amica, che non vogliamo derubare nessuno, né tantomeno prendere un posto che non ci compete. Quello che vogliamo è avere il diritto di tornare ad avere una qualche fiducia nel domani.  Vogliamo scrollarci di dosso il terrore nero che congela, immobilizza e risucchia, esattamente come l’acqua dell’oceano che ho attraversato, e tornare a sentirci parte di un qualcosa di grande e di condiviso. 
La mia casa mi manca molto. Mi manca molto la mia famiglia e tutto ciò che ero. Però, non avevo alternative. Non le ho mai avute.
Spesso mi chiedono se, potendo, tornerei indietro. Il fatto è che non posso: tornei da affamata a fare la fame.
E quindi tengo duro e vado avanti, stringendo forte pugni, stomaco e cuore per tenere il bello dei ricordi e della speranza dentro di me e impedire al freddo che c’è fuori di entrare.
Questa tua lettera è stata per me un dono prezioso, perché mi ha permesso di ricordare senza il magone solito che fa inciampare il respiro.
E allora, tra le tante ricette di pane della mia terra, ne ho scelta una che deve le sue origini a una storia d’amore, per farti un regalo, per mostrare, a te come a me stessa, che qualcosa di buono può sempre nascere.
Secondo una leggenda, quando il generale Aleksandr Tuchkov nel 1812 morì nella battaglia di Borodino, la vedova, straziata dal dolore, e impossibilitata ad avere indietro il corpo del suo amato, fece costruire sul presunto luogo della morte un monastero. Sarebbero state proprio le suore di questo monastero a inventare la ricetta del Borodinsky. Il colore scuro del pane rappresenterebbe il lutto e il dolore, mentre i semi di coriandolo simboleggerebbero i proiettili che tolsero la vita al generale.
Questo pane, il pane Borodinsky appunto, si prepara con 150 grammi di farina di grano, cento grammi di farina di segale, 220 millilitri di acqua, sette grammi di lievito, venti grammi di malto di segale, un cucchiaio di olio di semi, un cucchiaio di miele, un cucchiaino di sale, un cucchiaino di coriandolo in polvere e semi di coriandolo per decorare.
Come prima cosa, si uniscono in una terrina tutti gli ingredienti secchi; si aggiunge poi il malto di segale e si mescola con cura. A questo punto, si diluisce il miele con l’acqua tiepida e si versa nel composto. Si aggiunge ancora il cucchiaio di olio e si impasta con attenzione, ungendosi le mani se il panetto dovesse risultare troppo appiccicoso. Dopo averlo lasciato riposare per circa un’ora, si prende nuovamente l’impasto, gli si dà forma di pagnotta e lo si lascia crescere per altri trenta minuti. Trascorso il tempo utile, si spennella la superficie con una soluzione di acqua e farina e si lasciano cadere abbondanti semi di coriandolo. Pronto per essere cotto, lo si inforna a 210 gradi per trenta minuti, passati i quali, si abbassa la temperatura a 180, per un’altra mezz’ora.
Spero davvero tu possa provarlo, così da sentire il sapore e l’odore della mia casa.
Ora forse dovrei lasciarti, moja dobraja podruga.
Eppure sento che ancora tanto vorrei dirti. Vorrei poter scrivere questa lettera all’infinito, così da non dover spezzare il legame che si è creato tra noi e che, per il tempo di questa lettera, mi permette di non sentirmi sola. E allora, con questa egoistica scusa, continuo a parlarti, raccontandoti di una donna straordinaria, conosciuta qui a New York, che ha compiuto il miracolo di darmi uno scopo che non sia solo quello di sopravvivere.
Il suo nome era Emma Goldman, era una russa, come me, e parlava con così trasporto e convinzione della libertà e della bellezza di vivere, che, ascoltandola, ti pareva di sentire il calore del sole anche sotto una tormenta di neve.
La prima volta che l’ho incrociata, stava distribuendo anticoncezionali per le strade; poi, uscita dalla fabbrica di tessuti dove lavoravo, mi sono imbattuta in un suo comizio, qui, al porto.
Si definiva anarchica e credeva che l’amore dovesse spettare a tutti e tutte, per diritto. Era per la pace, contro ogni tipo di sfruttamento o restrizione, sia essa lavorativa o matrimoniale.
Viaggiava in lungo e in largo per questo Paese sterminato, e non la smetteva mai di gridare di uguaglianza di ribellione e di felicità.
Basta oppressione, diceva. Basta guerra. Basta donne considerate solo con il metro della maternità.
«La storia ci ha insegnato che ogni classe oppressa ha ottenuto la sua liberazione dagli sfruttatori solo grazie alle sue stesse forze. È dunque necessario che la donna apprenda questa lezione, comprendendo che la sua libertà si realizzerà nella misura in cui avrà la forza di realizzarla. Perciò sarà molto più importante per lei cominciare con la sua rigenerazione interna, facendola finita con il fardello di pregiudizi, tradizioni ed abitudini. La richiesta di uguali diritti in tutti i campi è indubbiamente giusta, ma, tutto sommato, il diritto più importante è quello di amare e di essere amata. Se dalla parziale emancipazione si passerà alla totale emancipazione della donna, bisognerà farla finita con la ridicola concezione secondo cui la donna per essere amata, moglie e madre, debba comunque essere schiava o subordinata. Bisognerà farla finita con l’assurda concezione del dualismo dei sessi, secondo cui l’uomo e la donna rappresentano due mondi agnostici».
Sono parole che conosco a memoria. Non credo ne esistano di più belle. Per me, almeno, sta tutto qui, nel diritto di amare e di essere amata. Ovunque, da chiunque e nonostante tutto.
Nonostante la diversità data da una lingua che non si conosce, da una pelle più chiara o più scura, da una possibilità concessa o negata.
Emma Goldman fu cacciata via da New York e imbarcata con la forza alla fine dell’anno 1919, insieme ad altri duecentocinquanta stranieri indesiderati, con l’accusa di essere la donna più pericolosa degli Stati Uniti.
Che il cielo, la terra, gli uomini e le donne benedicano questa minaccia, ovunque essa sia giunta con le sue parole e il suo pensiero.
A me, Arina Ivanova, ha insegnato la potenza di una testa alta e fiera, che sa e vuole cogliere ogni brandello di cielo.
Grazie a lei, alla lotta per non morire di fame ho unito la lotta per una società più giusta e pulita, dove ciascuno, e ciascuna, può costruire, oltre il proprio futuro, anche la propria felicità.
La chiudo qui, moja dobraja podruga, con la speranza che tu possa amare la mia ricetta e con la certezza che amerai Emma Goldman almeno quanto abbia fatto io. Udachi tebe. Buona fortuna.
«Il fine ultimo di tutti i cambiamenti sociali rivoluzionari è lo stabilire la santità della vita umana, la dignità dell’uomo, il diritto di ogni essere umano alla libertà e al benessere».

***

Articolo di Sara Balzerano

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Laureata in Scienze Umanistiche e laureata in Filologia Moderna, ha collaborato con articoli, racconti e recensioni a diverse pagine web. Ama i romanzi d’amore e i grandi cantautori italiani, la poesia, i gatti e la pizza. Il suo obiettivo principale è quello di continuare a chiedere Shomèr ma mi llailah (“sentinella, quanto [resta] della notte”)? Perché domandare e avere dubbi significa non fermarsi mai. Studia per sfida, legge per sopravvivenza, scrive per essere felice.

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