Ho assaggiato per la prima volta la birra Menabrea circa 20 anni fa, su suggerimento di un caro amico torinese, durante una vacanza in Val D’Ayas. Confesso che non ne conoscevo l’esistenza ma di quella birra mi catturò, oltre il sapore, la bellissima e raffinata etichetta della bottiglia. Una birra italiana, finalmente, di cui il mio amico, grande intenditore e creatore in proprio di birre artigianali, decantava le qualità. Vent’anni dopo, ricevendo in regalo un libro, La salita dei giganti, di Francesco Casolo, che racconta la saga dei Menabrea, ho scoperto che la birra è donna. La prima cosa che colpisce di questo libro è la bellissima copertina: giocata sui toni del giallo aranciato e del marrone, raffigura un padre e una figlia adolescente che degustano birra in bellissime coppe (un modo elegantissimo di servire la bevanda d’oro). L’illustrazione è di Manuele Fior di Ghirigori Agency e non avrebbe potuto essere più idonea a raffigurare il rapporto padre-figlia che permea di sé tutto il romanzo, un rapporto intenso, tenero e complice, che segnerà per sempre la vita del personaggio il cui sguardo ci accompagnerà tra le pagine del libro.
L’autore, Francesco Casolo, milanese appassionato di montagna, si è trasferito in Valle d’Aosta, a Gressoney La Trinité e ha svolto un’accurata indagine negli Archivi Menabrea e Sella, (oltre a consultare altri testi, per cui ringrazia in modo particolare molte donne),per scrivere questa bella storia, raccontata dal punto di vista di una bambina, Genia Menabrea (un diminutivo che diventa un nome bellissimo, genio al femminile), secondogenita di Carlo ed Eugenia, che nel corso del libro diventerà adolescente, giovinetta e donna. A due donne, Erica e Bianca, è dedicato il libro, che si apre con un bellissimo esergo di Bruce Chatwin, da In Patagonia. La storia si svolge tra Gressoney e Biella, e comincia nel 1882. I Menabrea sono mercanti di tessuti di lana e prodotti dell’artigianato in Svizzera dal 1500ed è da un’idea del nonno Joseph, accolta dal padre di Genia, Carlo, che nascerà il sogno di non lasciare agli stranieri la produzione della birra, ma di produrre una birra italiana, con la buonissima acqua di Biella, che nasce 1500 metri sotto terra, «perché la nostra birra la devono bere in tutto il mondo». Il rapporto, breve ma fondamentale di Genia con il nonno, che le insegnerà a pescare nel torrente (cosa da uomini allora) a vedere il ghiaccio nascosto sotto la neve e la spronerà ad affrontare le difficoltà, insegnandole a riconoscere le impronte del lupo, la inizierà alla curiosità per la bevanda colore dell’oro, chela leggenda vuole sia stata creata da una donna egiziana, quasi per caso.
Apprenderemo nel corso della storia il nome di quella donna e il procedimento che porta alla sua produzione, ma scopriremo molto di più: l’origine dei nomi dei vari tipi di birra, la Pilsner Urquel, la Lager, la Ale e molto altro di questa bevanda dorata. Dopo la morte del nonno, avvenuta quando Genia è molto piccola, l’interesse per la birra comincia a diventare una costante per la bambina, che riserva al padre Carlo, amatissimo, le domande che non ha potuto rivolgere al nonno. Il padre, assente per viaggi di lavoro da casa per molti periodi dell’anno, al suo rientro destina alle tre figlie, Albertina la primogenita, cagionevole di salute, Genia e Maria, la più piccola, attenzione e affetto. È un visionario, come il nonno, ma una malattia grave, scoperta da Genia in una bellissima e impegnativa escursione montana col padre e seguita con apprensione dalle sue figlie in tutte le sue fasi, se lo porterà via all’età di 39 anni. É a questo punto che inizia la fase femminile della storia della birra Menabrea. La madre Eugenia, della famiglia degli Squindo di Pont Saint Martin, che è stata sempre vicina al marito negli ultimi tre anni dell’aggravarsi della sua malattia e lo ha amato di un amore appassionato e dolcissimo, prende in mano le redini della famiglia e dell’industria, in un momento molto critico della sua storia. Assegnerà la conduzione della fabbrica al fratello Pietro, ma con uno stratagemma giuridico, non pienamente compreso all’inizio: gliela darà in locazione per nove anni e non in proprietà.
Mamma Eugenia, figura algida e remota, poco incline a dimostrazioni affettuose con la figlia, ha già visto in Genia una futura imprenditrice, anche se non sarà mai capace di dirglielo esplicitamente. Genia è troppo diversa da lei, meno conformista, «originale», insofferente alle regole delle suore del Collegio di Biella prima e svizzero poi, libera di scegliersi il compagno della vita, un uomo bello e legato al mondo della birra, quella prodotta dagli Zimmermann di Aosta, un visionario che in parte ricorda quel Carlo Menabrea, Cavaliere del Regno, che Genia porterà sempre nel cuore. Genia, curiosa di birra, apprenderà dal birraio Gregor, a cui la madre indirizzerà la figlia, tutto quello che riguarda la storia e la produzione della birra e si troverà a occuparsi dell’impresa di famiglia vicino al marito, Emilio Thedy, conosciuto da piccola, poco simpatico alla madre per la sua esuberanza, ma che da lei sarà scelto per la guida della fabbrica allo scadere della locazione dell’impresa al fratello. La storia d’amore tra Genia ed Emilio è piena di passione e non è sfuggita alla gente di Gressoney, nonostante gli incontri tra i due siano avvenuti, prima del matrimonio, in luoghi sperduti tra le montagne, ma in montagna, si sa, tutti e tutte sanno tutto di tutti/e. Genia è un’atipica donna di fine Ottocento, sensibile alle effusioni amorose sia nel periodo del fidanzamento che nel rapporto coniugale ma non può confrontarsi sulle sue sensazioni ed emozioni né con la madre, né con la sorella Albertina, molto malata, a cui fino all’adolescenza la lega una relazione importante e profonda (indimenticabili le giornate con i piedi nel ruscello a ridere e a parlare) ma che da un certo punto in poi si staccherà da lei, per le ragioni che l’autore ci fa intuire con delicatezza.
La svolta avviene verso la fine del libro, e coglie chi legge con sorpresa. Genia si trasforma, dopo avere dato alla luce quattro figli e portandone in grembo un quinto, vivendo con insofferenza e frustrazione il suo ruolo di moglie e madre trascurata da un marito impegnatissimo nel lavoro e nel sociale. La figlia ribelle dei Menabrea non riesce a uniformarsi al destino delle donne di Gressoney e del biellese della sua epoca: fattrici e mogli devote lasciate sole da mariti impegnatissimi nella vita pubblica; ha bisogno di attenzione o di una propria realizzazione, ma non ne è perfettamente consapevole. Un indizio di questo si intravede nell’incontro che avrà con Eva Sella, figlia di Quintino, donna osteggiata dagli uomini del suo tempo per avere fermamente voluto e ottenuto una Scuola superiore femminile. Un incontro bellissimo tra due donne a disagio in un’epoca che ancora le considera giuridicamente delle incapaci d’agire. Il ritratto che Casolo fa di Eva Sella è uno dei punti più emozionanti del romanzo. Incinta di un maschio perla seconda, poi per la terza, poi per la quarta, poi perla quinta volta, dopo avere già perso un bambino, Genia non riesce a darsi una ragione di tanta frustrazione e solitudine e conosce quella che sua madre chiama la malinconia, finendo per rivolgere la sua insoddisfazione e la sua aggressività verso Emilio, spesso lontano e troppo impegnato in mille associazioni e incarichi.
Emilio ha incrementato moltissimo le vendite della birra, ha fatto della Menabrea anche un centro in cui si svolgono concerti all’aperto, all’inizio curati da Genia, è nel Direttivo del Cai di Biella, nella Confesercenti, nel Comitato per il Carnevale di Biella e in molte altre associazioni. Ma forse non è di lui che Genia avrebbe bisogno a un certo punto della sua esistenza, quanto di una sua personale realizzazione, nonostante, nei periodi in cui la gravidanza non glielo impedisce, Genia sappia benissimo sovrintendere alla produzione della birra e all’amministrazione. Sentendosi sola anche negli eventi organizzati dalla famiglia si chiederà: «Cos’era, un destino delle donne Menabrea? O delle donne di Biella? O delle donne in definitiva? Giusto delle cose piccole e poco preziose che dovevano rimanere a casa sperando di sentire il rumore di una chiave che entrava nella serratura per correre a vedere se erano i mariti?». L’uscita dal tunnel e da un’ossessione in cui Genia è precipitata è ben raccontata dall’autore nell’ultima parte del libro. Purtroppo questa rinascita e questo riavvicinamento a Emiliosi accompagneranno a un grande dolore, il più grande dopo la perdita della sorella Albertina. Elaborando il lutto per la perdita del marito, che la lascerà per una malattia fulminante a soli 38 anni, forse Genia per la prima volta riuscirà a capire il gelo e la freddezza della madre, rimasta vedova troppo presto di un uomo con cui formava una coppia solida e spiritualmente feconda. Sullo sfondo della storia della birra Menabrea e della famiglia che le ha dato il nome si svolge la storia d’Italia, si racconta dell’amore per Gressoney e le sue montagne della Regina Margherita, delle tante storie di emigrazione dei giovani uomini che passano dal Colle di Ranzola per andare in Svizzera o in Germania, della difficoltà di raggiungere Gressoney durante gli inverni freddi e nevosi, che oggi rimpiangiamo, della costruzione di Castel Savoia e della Capanna Margherita.
La saga dei Menabrea, pur arrivando a noi attraverso gli occhi di una donna, è la storia di uomini visionari, Joseph, Carlo ed Emilio, vicino ai quali donne lungimiranti, coraggiose e a loro modo visionarie hanno saputo reagire a circostanze avverse e dolorose, intravvedendo i modi attraverso i quali mantenere vivi e realizzare quei sogni, troppo presto interrotti. Casolo si rivela profondo conoscitore dell’animo femminile e ci presenta figure di donne che, pur non potendo condurre a proprio nome l’impresa di famiglia a causa della loro condizione di minorità giuridica e dei pregiudizi nei confronti delle donne, sanno scegliersi gli uomini giusti a cui affidare e con cui condividere la continuazione del sogno. Come recita il titolo dell’ultimo capitolo del libro, Genia è La birraia del Monte Rosa e a lei e alla sua forza e fragilità non possiamo fare a meno di affezionarci, come a quegli uomini dalla salute tanto cagionevole che sono vissuti ai piedi dei Giganti, le grandi montagne della Valle di Gressoney, le hanno più volte attraversate, hanno speso la loro esistenza nei commerci e negli affari in Paesi lontani e, come ricorderà Genia ai suoi cinque figli maschi, quando li conduce in montagna e sulla montagna fa loro assaggiare la birra, come a ripetere quel rito iniziatico a lei rivolto dal nonno e dal padre molti anni prima, forse sono stati i veri giganti «Perché hanno avuto voglia di vedere cosa c’era dall’altra parte. Non hanno avuto paura di quello che non conoscevano», accompagnati da quello che Chatwin chiama «il Dio dei viandanti». E ci hanno regalato una delle migliori birre italiane, fondata nel 1846 e premiata con la Medaglia d’oro nel 1909.

Francesco Casolo
La salita dei giganti. La saga dei Menabrea
Feltrinelli Editore, Milano, 2022
pp. 320
***
Articolo di Sara Marsico

Ama definirsi un’escursionista con la e minuscola e una Camminatrice con la c maiuscola. Docente per passione da poco in pensione, è stata presidente dell’Osservatorio contro le mafie nel sud Milano e referente di Toponomastica femminile nella sua scuola. Scrive di donne, Costituzione e cammini.