Il 1974 è indubbiamente un anno destinato a cambiarne molti altri.
Annus mirabilis e annus horribilis insieme, è stato progresso e tragedia, morte e spinta propulsiva, timore e speranza salvifica.
A una crisi economica che ha fatto percepire il suo sentore fin dal decennio precedente, fa seguito un ribollente impulso sociale.
È l’anno del referendum per l’abrogazione della legge sul divorzio, l’anno del primo convegno nazionale dei gruppi femministi, l’anno della scoperta dei resti fossili di Lucy, l’anno della caduta della Dittatura dei colonnelli in Grecia, l’anno delle dimissioni del presidente degli Stati Uniti Richard Nixon a seguito dello scandalo Watergate, l’anno delle stragi neofasciste del treno Italicus e di Piazza della Loggia a Brescia.
È, il 1974, anche l’anno di pubblicazione di un romanzo, che ha, dentro di sé, tutto questo: la lotta, l’illusione, la morte, l’attaccamento disperato alla vita, la normalità e la straordinarietà umane, la cattiveria e il becerismo della società.
Una vera e propria opera mondo che non solo mostra dall’alto l’andare e il venire della macrostoria, ma che, cosa forse più importante, cammina anche nel basso di quella fanghiglia e di quella polvere che da sempre insozzano la microstoria e chi di essa vive e muore. Il libro esce in brossura fin dal suo esordio: un’edizione economica che è, prima di tutto, una dedica da parte dell’autrice, Elsa Morante, alle donne e agli uomini umili, vittime inesorabili di ciò che lei stessa definisce, già dalla copertina, uno «scandalo che dura da diecimila anni»: por el analfabeto a quien escribo. Perché, nonostante non vi sia alcuna motivazione che giustifichi l’esistenza e l’agire di un tale sadico congegno, i poveri e gli inermi di sempre, le povere e le inermi di sempre, sono sacrificate sull’altare di questo scandalo come olocausti eterni e costanti.
E questo scandalo è il potere, quel meccanismo che muove gli eventi e che schiaccia gli individui costantemente, giocando con i loro destini e schernendo e ghermendo le loro vite.
«Il Potere, spiegava [Davide Segre] a Santina, è degradante per chi lo subisce, per chi lo esercita e per chi lo amministra! Il Potere è la lebbra del mondo! E la faccia umana, che guarda in alto e dovrebbe rispecchiare lo splendore dei cieli, tutte le facce umane invece dalla prima all’ultima sono deturpate da una simile fisionomia lebbrosa! Una pietra, un chilo di merda saranno sempre più rispettabili di un uomo, finché il genere umano sarà impestato dal Potere…»
La Storia, questo il titolo del libro — le cui vicende si dipanano nella Roma degli anni 1941 – 1947 — ha, fin dalla sua prima edizione, un successo di pubblico clamoroso, raggiungendo una tiratura di seicentocinquantamila copie; meno entusiastica è l’accoglienza riservata dall’ambiente intellettuale che accusa l’autrice di aver riportato la letteratura all’ordine e alla semplicità: un sovvertimento di canone che apparentemente — e per la critica più oltranzista — fa fare a questo romanzo in particolare e al mondo letterario in generale un prepotente passo indietro. Il ritorno al romanzo storico, il narratore onnisciente — che pure si alterna a una voce narrante interna — la commozione che i lettori e le lettrici provano inevitabilmente, tutto questo fa sì che La Storia venga vista in senso decisamente negativo.
La cosa strana è che proprio i cosiddetti “addetti ai lavori” abbiano dato al romanzo una chiave interpretativa superficiale, non restituendo al testo il suo profondo senso di complessità. Tanto più che Elsa Morante è autrice sicuramente avulsa dai meccanismi fagocitanti del successo e del mercato, rimanendo, ad esempio, su di un’opera anche diversi anni, ignorando dunque l’idea del consumismo legato alla letteratura.
E La Storia non sfugge a questa idea morantiana del lavoro chirurgico e orefice, dove all’impianto generale del libro vengono spesso cuciti scampoli e frammenti prelevati da altri tessuti scrittòri, da altre esperienze reali che, attraverso la penna e il filo dell’autrice, diventano parte integrante e armoniosa del romanzo.
Le molte note, gli appunti e le correzioni mostrano lo scrupolo scientifico che Morante ha impiantato per sorreggere l’intera struttura narrativa.
Una struttura che si muove, per usare una citazione manzoniana, tra il vero storico e il vero poetico, tra i macro eventi e i piccoli avvenimenti, tra i fatti universali che influenzano le vite dei singoli esseri umani e quelle stesse, misere, vite, che calcano il palcoscenico con le spalle ingobbite dal peso che la Storia pone loro sulla schiena.
«La natura è di tutti i viventi… era nata libera, aperta, e loro l’hanno compressa e anchilosata per farsela entrare nelle loro tasche. Hanno trasformato il lavoro degli altri in titoli di borsa, e i campi della terra in rendite, e tutti i valori reali della vita umana, l’arte, l’amore, l’amicizia, in merci da comprare e intascare. I loro Stati sono delle banche di strozzinaggio, che investono il prezzo del lavoro e della coscienza altrui nei loro sporchi affari: fabbriche d’armi e di immondezza, intrallazzi rapine guerre omicide! Le loro fabbriche di beni sono dei lager maledetti di schiavi, a servizio dei loro profitti… Tutti i loro valori sono falsi, essi campano di surrogati… E gli Altri… Ma si può ancora credere in altri da contrapporre a LORO? Forse le LORO falsificazioni resteranno l’unico materiale della Storia futura. È qui forse il punto cruciale d’inversione senza rimedio, dove i calcolatori scientifici della Storia, anche i migliori, purtroppo, hanno sbagliato il conto (la prognosi infausta del Potere, si capisce, viene rimossa da chi, dentro il pugno chiuso della rivoluzione, nasconde la stessa piaga infetta del Potere, negandone la malignità)! Si diagnosticava il male borghese come sintomatico di una classe (e dunque, soppressa la classe, guarito il male)! mentre invece il male borghese è la degenerazione cruciale, eruttiva, dell’eterna piaga maligna che infetta la Storia… è un’epidemia di pestilenza… E la borghesia segue la tattica della terra bruciata. Prima di cedere il potere, avrà impestato tutta la terra, corrotto la coscienza totale fino al midollo. E così, per la felicità non c’è più speranza. Ogni rivoluzione è già persa!».
Fulcro narrativo è Ida Ramundo, donna estremamente fragile, a volte infantile, con un livello culturale limitato nonostante la sua professione di insegnante, con una grande timidezza e una grande paura del mondo esterno. È la protagonista dalla quale si dipanano negli anni, per legami parentali, incontri, contatti fortuiti e voluti, oppure — addirittura — per sdoppiamento, tutti gli altri personaggi.
Come Vilma, la Cassandra gattara del ghetto, che condivide con Ida la commistione tra miseria e grandezza, tra solitudine e partecipazione, tra l’età anagrafica di «ragazza» e l’età vissuta di «invecchiata».
Come, ancora, Carulina, che ragazzina lo è davvero, ed è anche madre, come Ida, suo malgrado anche lei, come Ida, ma che cerca di recuperare la sua ingenuità e la sua impreparazione dichiarandosi, all’interno della comunità di Pietralata, «in certo modo, la madre di tutti quanti».
E poi Giuseppe, Useppe, figlio di Ida e frutto dello stupro che la donna ha subito da un soldato tedesco di nome Gunther.
Useppe è fanciullo miserrimo e divino, che richiama nel nome la figura del poeta nel romanzo morantiano incompiuto Senza i conforti della religione.
Useppe è bimbo che scopre il mondo con un entusiasmo trascinante, che par, anche a chi legge, di riuscire finalmente a respirare nonostante la polvere asfissiante della guerra. «Non s’era mai vista una creatura più allegra di lui. Tutto ciò che vedeva intorno a lui lo interessava e lo animava gioiosamente. Mirava esilarato i fili della pioggia fuori della finestra, come fossero coriandoli e stelle filanti multicolori. E se, come accade, la luce solare, arrivando indiretta al soffitto, riportava, riflesso in ombre, il movimento mattiniero della strada, lui ci si appassionava senza stancarsene: come assistesse a uno spettacolo straordinario di giocolieri cinesi che si dava apposta per lui. […] Si sarebbe detto invero, alle sue risa, al continuo illuminarsi della sua faccetta, che lui non vedeva le cose ristrette dentro i loro aspetti usuali; ma quali immagini multiple di altre cose varianti all’infinito. Altrimenti non si spiegava come mai la scena miserabile, monotona, che la casa gli offriva ogni giorno, potesse rendergli un divertimento così cangiante, e inesauribile. […] Una delle prime parole che imparò fu ttelle (stelle). Però chiamava ttelle anche le lampadine di casa, i derelitti fiori che Ida portava da scuola, i mazzi di cipolla appesi, perfino le maniglie delle porte, e in seguito anche rondini. […] le forme stesse che provocano, generalmente, avversione o ripugnanza, in lui suscitavano solo attenzione e una trasparente meraviglia, al pari delle altre».
Ma Ida è, soprattutto, donna che rappresenta tutte le donne, quelle vittime del potere, quelle vittime della guerra, quelle vittime della violenza, quelle vittime della vita. Ida è la donna che ha dentro di sé un mondo intero di visioni, di forza estrema, di sogni inespressi, spaventevoli e rassicuranti, che riesce, perché spesso è l’unica cosa che resta da fare, a tirarsi dietro la propria esistenza. Ida soffre il dolore più agghiacciante che si possa provare, quel ferro arroventato che ti buca il cuore e ti brucia le interiora. E non ha colpa alcuna, di quel dolore, come mai hanno colpa le donne che possono solo subire, perché altro non è permesso loro.
E allora, al riscatto ci pensa l’autrice.
La Storia, infatti, è un libro con obiettivi non solo letterari, ma anche e soprattutto politi e sociali. In anni in cui si pensava che per cambiare il mondo servisse un attivismo politico concreto e militante, possibilmente all’interno di un partito o di un’organizzazione, Elsa Morante pare alzare la mano e dire che per pareggiare le cose, per raddrizzare storture inumane, per combattere contro gli scandali del potere, può andare bene in qualche maniera anche la letteratura. Perché raccontare vuol dire mostrare e mostrare significa anche riscattare. E perché spesso è l’unica cosa che si può fare.
Dunque, se è vero, come il romanzo dimostra, che l’innocenza è destinata a soccombere, è altrettanto vero che mettere al centro le vittime di ieri e di oggi, alle quali è stata potentemente rivelata la bellezza del mondo in virtù della loro semplicità, ma che nulla possono contro il male apportato dall’essere umano nella Storia, significa in una qualche maniera rende loro giustizia.
Perché, come scriverà Morante nella nota introduttiva all’edizione americana del romanzo, «la vita, nella sua realtà, sta tutta e soltanto dall’altra parte: con le vittime dello scandalo».

Elsa Morante
La Storia
Gli Struzzi, Einaudi, Torino, 1974
pp. 672
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Articolo di Sara Balzerano

Laureata in Scienze Umanistiche e laureata in Filologia Moderna, ha collaborato con articoli, racconti e recensioni a diverse pagine web. Ama i romanzi d’amore e i grandi cantautori italiani, la poesia, i gatti e la pizza. Il suo obiettivo principale è quello di continuare a chiedere Shomèr ma mi llailah (“sentinella, quanto [resta] della notte”)? Perché domandare e avere dubbi significa non fermarsi mai. Studia per sfida, legge per sopravvivenza, scrive per essere felice.