L’ultimo numero di Limes si intitola La Guerra Grande («le maiuscole per singolarizzarla caso specifico, anzi inedito»)e prende in esame le implicazioni a livello globale dell’«operazione militare speciale per denazificare il territorio e liberare il Donbas» sferrata dalla Federazione Russa all’Ucraina. Un numero corposo, ricco di articoli come sempre stimolanti e che induce a spezzarne l’analisi in due parti, per non sacrificare i temi più caldi. L’editoriale di Lucio Caracciolo, Il Resto del mondo siamo noi, prova a dare una definizione di Guerra Grande. Con questo termine non si intendono solo le battaglie militari sul terreno ucraino, ma tutte le competizioni, comprese quelle economica, psicologica, di propaganda e cibernetica tra le tre superpotenze, guerre atipiche che producono danni non immediatamente visibili ma molto più gravi di quelli provocati dagli armamenti convenzionali. Guerra Grande sia perché interessa direttamente l’Europa, che, non dimentichiamocelo, è stata terreno di scontro nelle due Guerre mondiali, sia perché ripercuote le sue conseguenze su tutto il Pianeta, con crisi energetiche e alimentari e infine perché, inasprendo le tensioni tra Usa, Russia e Cina, fa temere che presto la Cina voglia invadere Taiwan e che quella che stiamo vivendo sia l’anticipazione di una guerra mondiale. Siamo già di fronte alla «terza guerra mondiale a pezzi», come con preveggenza l’ha definita Papa Francesco in tempi non sospetti? In merito è interessante l’intervista al segretario di Stato della Santa Sede Pietro Parolin Così la Chiesa pensa il mondo. Un’altra intervista fondamentale è quella riportata alla fine del volume, a cura di Tijana M. Djerković, scrittrice, traduttrice e giornalista serba, con il generale Biagio Di Grazia, testimone di quella guerra all’interno dell’Europa, rimossa dagli europei della Ue e su cui recentemente la Presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen ha fatto una gaffe non si sa quanto vera o voluta: il conflitto nei Balcani. Un esercizio di confronto fruttuoso con il nemico, in occasione della presentazione del libro del generale Perché la Nato ha bombardato la Serbia nel 1999, tradotto in molte lingue, ma che non ha ancora trovato un editore italiano disposto a pubblicarlo, perché ritenuto “passato”. Grave miopia culturale la nostra, perché quanto successe nella ex Jugoslavia, molto più europea dell’Ucraina, andrebbe ricordato, capito e confrontato con quanto accaduto e con quanto prevede la nostra Costituzione. Anche in quella occasione l’Italia fu alleata fedele “a prescindere” della Nato, che, dopo il 1991, con l’implosione dell’Urss, in teoria non avrebbe avuto più ragion d’essere. Ma queste osservazioni, si sa, in geopolitica contano veramente poco. Vi imperano i rapporti di forza tra le potenze, molto più del diritto, purtroppo.

Il volume che ci tiene compagnia nel mese di agosto è composto da quattro parti. Nella prima, America e associati contro Cina, si approfondiscono le mosse dei rivali della Cina, in particolare gli Stati del Quad, il dialogo quadrilaterale di sicurezza composto da Usa, Giappone, Australia e India, «pensato per arginare l’ascesa di Pechino». Come ho avuto modo di scrivere in un articolo pubblicato la scorsa settimana (https://vitaminevaganti.com/2022/08/27/che-cosa-ci-insegna-jacinda-ardern-sulla-guerra-grande/), cui rinvio, il saggio più interessante di questa sezione è, a mio parere, quello sulla Nuova Zelanda di Jacinda Ardern, per la peculiarità dell’approccio e dello sguardo al femminile su questa guerra. Phillip Orchard e Elbridge A. Colby dagli Stati Uniti discutono di Quad, rivelando di ritenere la Cina il pericolo più grande e lasciando all’Europa la risoluzione della guerra in Ucraina. Gli articoli dei due esperti confermano che la politica di Biden nell’Indo-pacifico è in sostanziale continuità con quella di Trump. Orchard ricorda l’Ipef, Indo-Pacific Framework for Prosperity, mentre Colby contesta e rintuzza le proposte mediatrici di Kissinger (recentemente ricordate e auspicate anche da Romano Prodi nell’articolo L’obbligo per gli Usa di dialogare con la Cina, pubblicato il 14 agosto scorso su Il Messaggero) illustrate negli scorsi numeri della rivista di geopolitica, invocando un riarmo a 360 gradi sia dei Paesi europei che degli alleati americani nell’Indo-Pacifico. In questa parte l’approfondimento di Fabrizio Maronta, Il primato del dollaro non finirà domani, mette in evidenza le manovre russe, le ambiguità cinesi, i paradossi dell’euro, per contrastare «l’unico simbolo per cui l’uomo moderno sembra nutrire una vera fede», secondo la definizione che del dollaro diede la giornalista e umorista americana Helen Rowland. «Figlia della definitiva affermazione dell’America quale principale potenza economica, industriale, commerciale, finanziaria, militare, culturale, diplomatica e dunque normativa dopo la seconda guerra mondiale, la preminenza mondiale del dollaro nella finanza e nell’interscambio globali è da allora indiscussa». Gli Usa hanno goduto per decenni della possibilità di stampare moneta creando debito ma non inflazione, essendo il dollaro «valuta di riserva» mondiale, anche grazie all’ascesa economica dell’Asia, che, moltiplicando i commerci mondiali, ha fatto crescere in modo esponenziale il meccanismo della «dollarizzazione». L’articolo di Maronta va letto e racconta che Cina e Russia stanno creando sistemi di pagamento alternativi a Swift per «scrollarsi di dosso il fardello del dollaro» (così Putin), riducendo la propria esposizione in moneta statunitense, diminuendo la quota di commercio estero in valuta Usa, con un effetto insperato per l’euro, che ha rimpiazzato la moneta americana come principale valuta commerciale tra Cina e Russia. «Gli swap (scambi) valutari tra le banche centrali russa e cinese hanno notevolmente aiutato Mosca ad aggirare le sanzioni statunitensi del 2014, facilitando commercio e investimenti bilaterali». Inoltre «Il governo russo ha condotto negoziati e concluso accordi, simili a quelli conclusi con la Cina, con altri Paesi, in particolare India, Turchia e gli altri membri dell’Unione economica eurasiatica (Armenia, Bielorussia, Kazakistan e Kirghizistan) per dare priorità all’uso delle rispettive valute nazionali, o in alternativa all’euro, nei commerci bilaterali. Ciò ha visibilmente alterato il sostrato valutario del commercio estero di Mosca: a fine 2020 appena il 10% del suo export verso i cosiddetti Brics (Brasile, India, Cina e Sudafrica) era condotto in dollari, contro il 95% del 2013».

Il punto di vista taiwanese sulla situazione attuale è espresso da Alan Hao Yang, Professore all’Institute of East Asian Studies della National Chengchi University di Taiwan, che evidenzia forte preoccupazione per l’atteggiamento della Cina nell’Indo-Pacifico e per gli appetiti della superpotenza verso i semiconduttori. Taiwan ha assicurato al mondo la fornitura globale di oltre il 90% dei semiconduttori più sofisticati, svolgendo un ruolo chiave nella protezione dei settori tecnologici all’avanguardia e nel complesso dei mercati. Al destino di Taiwan quindi è interessato l’intero pianeta. Per questo sono molto importanti le alleanze con Giappone, Usa e Australia. Sarà Delhi a vincere la guerra? Lorenzo di Muro nel suo saggio dà un interessante spaccato della nazione che, entro il 2023, supererà la Cina dal punto di vista demografico e che sta approfittando degli sconvolgimenti nell’ordine internazionale per costruirsi come potenza mondiale, guidata dal pragmatismo di Narendra Modi, abituato da sempre a giocare su più tavoli e a essere corteggiato dall’Occidente, dalla Russia e dalla Cina. Modi sta lentamente compattando le nazioni indiane per costruire un sentimento identitario che faccia dell’India una superpotenza, ma ha un coltello piantato nel fianco: il Pakistan, oltre a molte altre vulnerabilità. In ogni consesso e da sempre Modi ribadisce che Delhi parteggia solo per sé stessa. Da un lato compra greggio dalla Russia scontato del 30%, dall’altro fa parte del Quad insieme agli Usa in funzione anticinese. E il Capo della diplomazia indiana Jaishankar non perde occasione per dichiarare che il Vecchio Continente deve smettere di considerare i propri problemi come globali mentre si disinteressa di quelli del resto del mondo, ricordando che «come Krishna» l’India ha fatto di tutto per prevenire la guerra e favorire il dialogo. L’analisi di De Muro è approfondita e abbraccia molti altri aspetti della politica del Paese che, secondo l’Agenzia internazionale dell’energia, trainerà l’aumento della domanda energetica globale da qui al 2040. Anche Manoj Joshj, Distinguished Fellow all’Observer Research Foundation di Delhi condivide la visione di De Muro, con un approfondimento sulla storia del Quad e sulla posizione dell’India al suo interno.

Un articolo di Nagy illustra l’atteggiamento del Giappone nei confronti dell’Ucraina ma soprattutto della Cina, di cui teme un’azione nell’Indo-Pacifico simile a quella della Federazione Russa, mentre Giulio Sapelli, commentando e criticando l’esito del vertice Nato a Madrid, secondo cui per gli Stati Uniti esiste un unico fronte che va dall’Indo-Pacifico all’Europa, con la Cina al centro, approfondisce la lezione australiana e sottolinea l’inefficacia delle sanzioni contro la Russia, proponendo la ricetta del contenimento militare da un lato e della collaborazione economica dall’altro.

Dell’Australia trattano due articoli, Il Quad visto dall’Australia e Canberra non è pronta a una guerra con la Cina. Federico Petroni ripercorre la storia del Quad ricordando che il suo primo padre è stato Abe Shinzō, «con la sua proposta di un «diamante della sicurezza» fra India, Giappone, Usa e Australia per stabilizzare l’Indo-Pacifico, un concetto più ampio del prevalente Asia-Pacifico che si fermava alla confluenza fra i due oceani. L’allora leader giapponese era stato apparentemente ispirato dalla cooperazione dei quattro Paesi in occasione dello tsunami del 2004. Concepiva l’iniziativa come un raduno di quattro fra le più potenti e attive nazioni della regione per lavorare per il bene comune, come avevano fatto dopo la catastrofe naturale fornendo assistenza umanitaria». Il Quad da allora è molto cambiato, incentrando la sua mission sulla sicurezza nell’Indo-Pacifico e ha il suo secondo padre in Joe Biden. Ha intensificato la collaborazione nelle filiere produttive spinto dalla necessità «di ridurre la dipendenza dalla Cina come fornitore nei settori cruciali della competizione tecnologica, vista la tendenza di Pechino a usare l’economia come arma». Tutti i paesi del Quad vogliono un Indo-Pacifico «libero e aperto», che non sia dominato da una Cina «aggressiva e centrale dal punto di vista economico e tecnologico». Insieme ad Aukus ha dimostrato di essere più efficace di organizzazioni internazionali elefantiache come l’Onu, la Wto e l’Oms o di accordi come l’Asean.
Patricia O’Brien, storica, autrice e analista, autrice del secondo saggio sull’Australia, si sofferma anche sull’importanza della questione del cambiamento climatico in Australia, finalmente presa a cuore dal partito vincitore delle ultime elezioni. Ma questa non è l’unica sfida dell’Australia, che ha patito danni enormi a causa del riscaldamento globale, qui elencati con dovizia di dati. Anche il rapporto con le isole del Pacifico, corteggiate dalla Cina che intendeva fare un blocco unico dei nove Stati insulari del Pacifico che riconoscono la Repubblica Popolare (Papua Nuova Guinea, Figi, Isole Salomone, Micronesia, Vanuatu, Niue, Samoa, Kiribati, Tonga) concludendo un accordo che li avrebbe fatti diventare Stati insulari del Sino-Pacifico, è per l’Australia una sfida globale. Le isole hanno respinto la proposta cinese invitando il Governo di Xi Jinping, principale produttore al mondo di gas serra, a ridurre le emissioni e a impegnarsi per il contrasto al cambiamento climatico. Le Isole Salomone, però, hanno stretto un accordo militare con la Cina, che potrebbe comportare la costruzione di una base militare sul loro territorio, a quattro ore di volo dalle coste australiane. Il contrasto alle operazioni cinesi nell’Indo-Pacifico resta quindi una priorità australiana, il cui Governo non è tuttavia pronto in alcun modo a contrastare militarmente la Cina, che è il suo principale partner commerciale.


La seconda parte della rivista riguarda la Repubblica Popolare Cinese.
In particolare, questa sezione si concentra sui problemi, interni alla società e al partito, che il presidente Xi Jinping deve affrontare prima del XX Congresso nazionale del Pcc, evidenziando l’esistenza di alcuni suoi oppositori, nessuno dei quali, però, tanto carismatico da poterlo scalzare. Sottolinea le difficoltà economiche della Cina dovute alla politica di contrasto alla pandemia, alle mutate relazioni internazionali e alle forti tensioni sociali e approfondisce i difficili rapporti con Taiwan.
Per capire il punto di vista cinese e dei molti Paesi che non fanno parte del blocco occidentale sulla guerra europea è prezioso l’articolo, che ragiona sulle cause e sulle narrazioni di questo conflitto, di Hu Chunchun, Pechino, il mondo “altro” è un conflitto tutto occidentale. L’Autore ha il pregio di farci riflettere sia sulle ragioni a giustificazione dell’aggressione russa, sia su quelle della difesa e della controffensiva ucraine, viste però da un angolo visuale completamente diverso dal nostro. Noi occidentali siamo indotti a vedere la Guerra Grande come un conflitto tra democrazie e autocrazie, tra democrazie e dittature, e come un attacco ai valori della libertà e della dignità delle persone. Lo studioso ricorda la dichiarazione della studiosa kenyota Martha Bakwesegha-Osula sulla rivista tedesca Internationale Politik und Gesellschaft, che si conclude con questa indicazione: «European solutions to European problems!». La narrazione occidentale della guerra ucraina viene recepita in modo ambivalente, in particolare nel Sud del mondo. E l’astensione o il voto contrario di molti Stati africani, asiatici e latino-americani sulle sanzioni contro la Russia emanate dai Paesi occidentali è lì a dimostrarlo. Su questo occorrerebbe riflettere (continua).
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Articolo di Sara Marsico

Ama definirsi un’escursionista con la e minuscola e una Camminatrice con la c maiuscola. Docente per passione da poco in pensione, è stata presidente dell’Osservatorio contro le mafie nel sud Milano e referente di Toponomastica femminile nella sua scuola. Scrive di donne, Costituzione e cammini.