Ester Lombardo, il Nord negli occhi di una giovane giornalista

Quando parte per la Scandinavia Ester Lombardo è una giovane giornalista che sta affermandosi sulle riviste femminili; questo viaggio in Nord Europa rappresenta per lei un’esperienza importante sotto diversi aspetti: innanzitutto, fra le (comunque rare) viaggiatrici italiane in questa zona, percorre l’itinerario più lungo e diversificato, dalla Norvegia all’Islanda fino alle isole Svalbard, per poi toccare, sulla via del ritorno, Capo Nord, l’arcipelago delle Lofoten, i fiordi norvegesi e terminare con le capitali scandinave. Inoltre, in quanto viaggiatrice, descrive quest’area, fino ad allora poco conosciuta il Italia, attraverso uno sguardo femminile; infine, come giornalista, ha l’opportunità di esprimere giudizi e opinioni personali di fronte a un vasto pubblico, poiché il suo giornale, il quotidiano torinese La gazzetta del Popolo, pubblicherà gli articoli fra l’agosto e il novembre 1926.

Il percorso di Lombardo è in parte lo stesso di Stefania Türr, che l’ha preceduta nel 1924: entrambe, infatti, tengono a precisare che viaggiano in una crociera «di lusso» e raggiungono il limite estremo del nord europeo nell’arcipelago delle Svalbard; tutte e due si considerano anche fotografe e non mancano, perciò, di allegare ai resoconti numerose immagini. Le analogie fra loro interessano anche le modalità narrative, attraverso le quali affermano la loro centralità, concedendosi espressioni assertive e ponendosi sempre come protagoniste. Il discorso di entrambe sviluppa spesso toni lirici, sebbene nel caso di Lombardo sia più evidente un eccesso di enfasi, dovuta probabilmente all’entusiasmo giovanile. Vi sono però delle differenze nelle finalità: se Türr sottolineava l’audacia di certe sue escursioni e l’eccezionalità degli spettacoli naturali, Lombardo invece desidera condividere con chi legge l’impressione di un viaggio piacevole, in compagnia di nomi prestigiosi, attraverso un’area affascinante e sconosciuta per quanto riguarda le bellezze naturali, ma assolutamente inferiore, dal punto di vista storico e culturale, all’Italia.

Già all’inizio del suo resoconto l’autrice manifesta con chiarezza sia le sue aspettative sia le sue intenzioni narrative: «Un viaggio che chiamerei di contemplazione. I luoghi che noi visitiamo sono in massima parte disabitati. In alcuni di essi la vita sembra assente. […] La bellezza è tutta visiva. Renderla più chiaramente possibile è il compito dello scrittore, senza ingerirsi in essa con osservazioni soggettive. Forse nemmeno un pittore potrebbe farlo senza sciuparla. Il paesaggio ha un senso inviolabile che impone rispetto: è più bello della fantasia dell’uomo perché la supera nel trionfo del misterioso e nell’effettuazione di una irrealtà di sogno»: ciò che intende riferire in maniera obiettiva, dunque, è un paesaggio irreale e deserto, quasi incomunicabile.

La narrazione si apre in medias res, sul fiordo più famoso della Norvegia del sud, il Sogne, nel villaggio di Odda, una delle località turistiche più rinomate; discendendo il fiordo verso il mare aperto approda a Molde, un luogo ridente dove la flora è oggetto di grande cura e le ricorda quella italiana che «nasce vive e muore spontaneamente»; qui invece le piante sopravvivono grazie agli abitanti: «grande ammirazione e grande commiserazione insieme per questi biondi norvegesi», così accurati verso la natura e insieme penalizzati dal clima ostile. La visita della Norvegia continua senza troppo entusiasmo e, in attesa dell’incontro con l’autentica wilderness,le prime escursioni sono descritte con un linguaggio alquanto riduttivo: la «chiesetta in legno», fotografata nella «rude»valle di Leardal è, in realtà, una delle chiese più importanti e meglio conservate del Paese.

Lærdal, comune norvegese della contea di Vestland

L’autrice è impaziente di procedere in mare aperto: «Ma dai fiordi vorremmo uscire. Siamo stanchi d’una navigazione uniforme lenta e monotona». Partendo da Trondheim, città cui dedica solo un laconico commento («distrutta e ricostruita dopo vari incendi: questa è presso a poco la storia di tutte le città scandinave»), il piroscafo tocca le isole Farøer, dove sosta a Torshavn: «nulla d’interessante da osservare» taglia corto. Il breve approdo in Islanda consente una frettolosa visita a Reykjavik, «una graziosa città» con edifici «non grandiosi […] bei negozi, belle librerie […] un buon albergo con ristorante, salato nei prezzi»: paragonata alla descrizione di Giulia Kapp Salvini, che l’aveva considerata poco più di un villaggio venti anni prima, lascia immaginare un relativo sviluppo urbanistico. Il gruppo di turisti prosegue in auto, nella pioggia incessante, verso il Thingvellir: «poiché gli islandesi tengono molto alla loro storia e a farci conoscere di aver posseduto il primo Parlamento del mondo ben 930 anni a.C. [sic] andiamo a vederlo come una rarità». Lombardo non nasconde la delusione: «L’interesse è tutto tellurico […] una specie di Lago Maggiore senza case, senza alberi, senza vita. Questo è il luogo storico più importante dell’Islanda, dove il visitatore viene condotto, sia pure inzuppato e stanco e dove ascolta con molta pazienza la disquisizione storica che gli apprende avere avuto l’Islanda il primo Parlamento del mondo, del quale è rimasto, unica traccia, il luogo aperto bello e triste». Anche in questo caso, come in altre situazioni narrative, il tono di Lombardo tradisce l’annoiata condiscendenza di chi si sente parte di una cultura superiore e si adatta appena ad apprezzare ciò che le viene proposto, nemmeno paragonabile ai reperti della propria storia.

Una banchisa artica

Dall’Islanda il piroscafo prosegue verso il Circolo Polare e la banchisa artica. Il tempo è sempre nebbioso, la navigazione difficile e lenta; Lombardo lamenta di non riuscire a vedere il sole di mezzanotte, «considerato che siamo venuti qui per questo. Vedere il sole di mezzanotte equivale, oltretutto, a toglierci l’incubo di doverlo vedere» conclude sbrigativa.

Anche questo genere di affermazioni fa pensare che il suo percorso non sia tanto finalizzato dalla curiosità per la meta, quanto dalla necessità di affermazione di sé e della propria identità di viaggiatrice. Con il procedere della navigazione, l’eccezionalità della natura finisce per suscitarle meraviglia e stupore: i banchi di ghiaccio, «più frequenti, più spessi, più massicci e voluminosi», sono uno «spettacolo mai veduto, talmente strano e bello che non vorremmo dimenticarlo mai più». Il piroscafo sta ormai attraversando il pack, con la stessa finalità dell’Irma dove viaggiava Türr due anni prima: quella di battere il record di una crociera del 1906 e avvicinarsi il più possibile al Polo Nord. La navigazione si fa sempre più complessa; a 80° compaiono le prime foche, a 80°12’ il comandante decide di tornare indietro e dirigersi verso le isole Svalbard perché «proseguire diventa troppo temerario […] eppure tutti, affascinati dal mare di lastre azzurre e di montagne mobili che affiorano sull’acqua […] affascinati dall’infinito bianco che ci avvolge tutt’intorno, dall’aria come dall’acqua, vorremmo proseguire. Comprendiamo come si possa arrischiare la vita per calcare gli inviolati ghiacci del Polo».

Una fotografia dell’Hangar Italia

L’interesse si sposta rapidamente sulle isole Svalbard, dove si potrà visitare l’hangar che ospita il dirigibile Norge, appena rientrato dal primo volo verso il Polo Nord, un’impresa anche italiana. La prima tappa è Magdalene Bay, dal «carattere di fantastico e di irreale».

Sulla baia «creata dal pennello bizzarro di un artista folle […] Non un filo d’erba. Solo, un teschio lucido e candido come l’avorio»; infatti a queste latitudini è facile che i resti umani, mal seppelliti nel terreno ghiacciato, riemergano: Lombardo individua un piccolo cimitero (forse lo stesso citato da Léonie d’Aunet nel suo resoconto di molti anni prima) e nella solitudine artica si pone una serie di domande esistenziali sul destino umano. Quando il piroscafo raggiunge King’s Bay, dove turiste e turisti visitano l’hangar del Norge, è invece il sentimento patriottico italiano a risvegliarsi: «ci troviamo tutti raccolti intorno all’antenna rossa col Fascio littorio in oro. Siamo commossi».

Dopo la terza e ultima tappa presso le miniere il piroscafo, sempre avvolto da una fitta nebbia, inverte la rotta verso sud e, dopo una tempesta, raggiunge Capo Nord. Lo sbarco avviene intorno alle quattro del pomeriggio, con mare calmo, sole e cielo azzurro che inducono a un paragone esotico: «la terra brulla sembra dorata e il paesaggio ha un carattere nuovo, meno nordico, direi quasi africano». Purtroppo la comitiva deve abbandonare subito «questa piana meravigliosa» poiché «il bivacco sul monte in attesa di tramonti e aurore, non è nel programma del turismo di lusso» qual è quello del Neptunia. Passeggeri e passeggere possono comunque ammirare la luce «Wagneriana», tipica della zona polare, che l’autrice descrive ricorrendo nuovamente a iperboli e metafore, per stimolare la percezione visiva di chi legge.

Finalmente nei pressi delle isole Lofoten assiste allo spettacolo del sole di mezzanotte, ancora descritto con toni lirici e termini desueti: «Il tramonto e l’alba stanno ora l’uno di fronte all’altra quasi immobili e non saprei dire quale dei due sia più bello, quale dei due abbia al suo seguito un corteggio di tinte più strane. Lo sa forse il mare che viene tingendosi di viola e di rosa sino a sembrare un immenso lago colorato. Il mare si dichiara apertamente per l’alba vittoriosa». Anche in questo caso la meraviglia si trasforma in breve in un commento riduttivo, che sottolinea «la statica e inanimata bellezza» di luoghi privi di vitalità.

Al ritorno sulla terraferma si ripresentano le caratteristiche contraddittorie di fascino e repulsione della Norvegia «inabitata e inabitabile […] selvaggia come un paesaggio dantesco, su cui l’inverno infierisce, atroce, con la sua coltre bianca, dura e spessa come la pietra ed il suo cielo implacabilmente buio per lunghi mesi». Il ritorno nella “civiltà” avviene sullo stesso percorso di altre viaggiatrici: la linea ferroviaria da Bergen a Oslo, in un vagone confortevole, ma sempre fra «paesaggi senza vita, in dominio della natura [dove] i fiordi si insinuano con la consueta dolcezza triste, velati di malinconia». Finché «ad un tratto, usciti da una gora il miracolo appare. Non più rocce, laghi, ghiacciai, torrenti, precipizi, ma pinete e prati, fertili torrenti incanalati dalla mano dell’uomo. […] Si entra nella zona di civiltà» e al malinconico sublime si sostituisce il pittoresco. La prospettiva più originale di tutto il viaggio appare dal moderno idrovolante con il quale Lombardo approda a Helsinki.

La prima immagine della capitale finlandese è quindi una panoramica dall’alto: «L’arcipelago delle isole e dei laghi ha, nella luce del mattino, qualche cosa di diafano e di irreale come se stesse sospeso nel vuoto fra cielo e mare»; una visione «unica, imparagonabile, irraggiungibile». Una volta a terra, la città si presenta ricca di musei, «modernissima nella sontuosità degli edifici e nel movimento», anche se l’architettura manca di originalità, è «germanizzata»; l’autrice apprezza invece la vitalità dei quartieri nuovi, «modernissimi, spaziosi […] movimentati dal viavai dei trams»: questa «velocità» è giustificata dal bisogno di cambiamento dei finlandesi, stanchi sia del dominio svedese sia di quello russo e finalmente nazione indipendente, con la quale l’ltalia fascista potrà trovare numerosi punti di contatto.

In copertina: una delle numerose miniere presente sulle isole Svalbard.

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Articolo di Rossella Perugi

Laureata in lingue a Genova e in studi umanistici a Turku (FI), è stata docente di inglese in Italia e di italiano in Iran, Finlandia, Egitto, dove ha curato mostre e attività culturali. Collabora con diverse riviste e ha contribuito al volume Gender, Companionship, and Travel-Discourses in Pre-Modern and Modern Travel Literature. Fa parte di DARIAH-Women Writers in History. Ama leggere, scrivere, camminare, ballare, coltivare amicizie e piante.

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