Stefanina Moro

Questa è una storia singolare e collettiva, uno di quei racconti che riguarda tutte ma che, all’evidenza dei fatti, ha dato a noi donne del dopo “solo” il privilegio e il peso di doverla conoscere e ricordare.
È una storia orribile e preziosa, una ferita che pare cicatrizzata ma che ancora brucia e batte e respira, portando fuori e dentro il dolore e la memoria, che servono a non guarire mai.
Questa è la storia di Stefanina Moro, staffetta partigiana, morta a diciassette anni. Ma questa è anche la storia di tutte le altre staffette e di tutte le altre partigiane che tanto hanno scritto nel capitolo della Resistenza ma che, già all’alba del 25 aprile, sono state costrette a fare un passo indietro, a spostarsi di lato, a lasciare il passo agli uomini, nonostante questi abbiano combattuto con loro, di fianco a loro, grazie a loro. Perché c’era comunque una morale da rispettare e a cui rendere conto, si diceva. E lo si diceva talmente forte che molte ci hanno creduto.
Ma davvero esiste una morale più alta di quella che ti fa scegliere di caricarti il futuro sulle spalle e provare a trascinarlo fuori dal gorgo nero che lo sta risucchiando via?
Stefanina Moro è una ragazzina. E quale idea lei abbia di morale non è dato sapere. Perché, da ragazzina, Stefanina Moro è morta. E quando muori col mondo intero tra le mani, esso ti scivola via, se ne va lontano. Non ci sono rughe e calli di età a trattenerlo, a far rimanere incastrati pezzi di quello che sei stata, pronti a parlare per te. Funziona così. Quando hai tutto da fare e mangiare e respirare, poco, poi, si può raccontare, perché le pagine bianche sono più numerose di quelle scarabocchiate in un appunto frettoloso. Quando sei una ragazzina, non hai tempo da perdere a scrivere ciò che vorresti pianificare. Lo fai e basta e, nel frattempo, stringi la vita tra le mani e la giri, la sollevi e ci giochi.
A un certo punto, però, capita che devi scegliere. E anche se lo hanno già fatto al posto tuo, tu, che sei una ragazzina, gratti e strappi l’ultima possibilità che hai, perché non ci stai, non ci stai più. Vorresti ballare, ma puoi solo camminare veloce o correre; vorresti sfidare il cielo e riempirti di colori, ma devi invece affidarti al buio e confonderti con le ombre; vorresti crescere e invece, prima, devi combattere.
E, allora, imbracci un fucile, nascondi compagni e compagne, li curi, porti munizioni, medicinali, volantini e notizie, colleghi gruppi. Spari.
Inizi a prendere dimestichezza con il pericolo e con il rischio, anche se, quando sei una ragazzina, non sei forse davvero mai consapevole di ciò che questo significhi. O magari sì, e allora — o comunque — decidi di andare.
Stefanina Moro, a diciassette anni, va.

Nata a Genova il 14 novembre del 1927, originaria del quartiere collinare di Quezzi, lo stesso che, quasi cinquecento anni prima, aveva dato i natali a Susanna Fontanarossa, la madre di Cristoforo Colombo, entra a far parte della Resistenza genovese.
Nel capoluogo ligure, per tutto il 1943, l’attività delle donne non è ancora coordinata. Del resto, l’intera organizzazione femminile partigiana della regione è caratterizzata da un’enorme varietà di sedi all’interno delle quali le donne operano: operaie nelle fabbriche; tranviere, casalinghe, artigiane in città; sfollate e contadine nelle campagne e in montagna; le ragazze più giovani nelle scuole e nei quartieri.
Una Resistenza che le donne hanno guidato fin da subito, fin dal 25 luglio del 1943, quando si mettono alla guida delle principali manifestazioni per la pace.
Un ruolo da protagoniste, dunque, da prima fila, che subito si sono prese e hanno rivendicato, anche in faccia ai tedeschi che, almeno in un primo tempo, non pensano che esse possano essere impegnate direttamente nella lotta. Poi, quando hanno iniziato a capire la loro importanza, è iniziata anche la parità: perché, se c’è una cosa nella quale partigiane e partigiani sono stati uguali durante la guerra, queste sono le torture. E, a Genova, tortura è sinonimo di Casa dello Studente.

Sita a corso Giulio Cesare, oggi corso Aldo Gastaldi, è una costruzione, inaugurata nel 1935, di cui usufruiscono, fino al 25 luglio del 1943, iscritti e iscritte al Gruppo universitario fascista. Al suo interno, sono presenti una biblioteca, una palestra, un convitto e diverse strutture sportive.
Con il crollo del regime, l’edificio viene prima abbandonato e poi, trascorsi un paio di mesi, requisito dai tedeschi, nelle cui mani diventa un Comando delle SS, diretto da Siegfried Engel, e articolato in tre sezioni: spionaggio offensivo, spionaggio industriale e lotta ai nemici, oppositori politici, partigiani ed ebrei. A supporto degli organi investigativi e repressivi germanici opera la IV sezione della Polizia politica, con a capo il commissario Giusto Veneziani.
Qui, le prigioniere e i prigionieri, dopo esser stati prelevati dalle minuscole celle al piano terra e condotti nei sotterranei insonorizzati, sono in balia dei seviziatori. Attorno all’edificio, circondato da rotoli di filo spinato, vigilano sentinelle. All’ingresso si assiepano parenti dei detenuti e delle detenute, che sperano di rivedere i loro cari, o quantomeno di averne notizia.
Non sappiamo se ci fosse qualcuno o qualcuna anche per Stefanina Moro, condotta lì dopo essere stata arresta, alla fine di settembre, con l’accusa di tenere i collegamenti tra diverse formazioni partigiane. Non sappiamo cosa le accade, lì dentro. Sappiamo che pochi giorni dopo è ricoverata all’ospedale di Asti, dove muore il 9 ottobre del 1944.
Possiamo immaginarlo? Forse no, nemmeno quello.

Andrea Gaggero, un altro prigioniero della Casa dello Studente racconta: «Han tentato in tutti i modi possibili di farmi parlare, ma io non ho parlato. La stortura degli arti, appeso a un ferro, batoste all’altalena, praticamente (bisognerebbe fare un disegno) ti passavano i piedi con le mani e con le gambe così; ti legavano le gambe qui, qui e qui, e tu eri appeso a un tronco. Naturalmente dondolava, questo tronco, e offrivi una volta il sedere e una volta la schiena. E c’erano due da una parte e due dall’altra che ti pestavano in cadenza, aspettando che tu offrissi le gambe, il sedere e la schiena. Hanno usato questo, e poi naturalmente l’insonnia, con interrogatori che duravano ore e ore».
Non sappiamo cosa subisce nella Casa dello Studente Stefanina Moro. Non sappiamo cosa ha gridato, quanto ha pianto, cosa ha pensato. Sì è pentita della sua scelta? Ha maledetto i suoi torturati o li ha implorati? Ha maledetto la guerra? La Resistenza? Quante volte è caduta nell’incoscienza per cercare sollievo? Non lo sappiamo, non lo possiamo sapere.
Perché Stefanina Moro è una ragazzina. È una ragazzina quando decide di diventare partigiana, è una ragazzina quando viene arrestata, è una ragazzina quando muore a causa delle torture subite. È una ragazzina quando sceglie, nel dolore atroce, di non parlare.

Questa è una storia singolare e collettiva. Una storia breve e maledetta, dolcissima, brutta e meravigliosa. Una storia che parla di aspettative, desideri, sogni; una storia che sa di corse felici, di balli immaginati, di baci rubati, di vestiti nuovi e libri divorati. Una storia che avrebbe avuto ancora tanto da scrivere, ma la cui pagina è stata strappata dalla follia bestiale e disumana.
È la storia di una ragazzina, uguale a tante altre ragazzine, che ha, però, scelto di andare. Lei non ha potuto raccontarla. A noi il dovere di non dimenticarla.

In copertina: la targa di via Stefanina Moro a Genova, foto di Rossella Sommariva.

***

Articolo di Sara Balzerano

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Laureata in Scienze Umanistiche e laureata in Filologia Moderna, ha collaborato con articoli, racconti e recensioni a diverse pagine web. Ama i romanzi d’amore e i grandi cantautori italiani, la poesia, i gatti e la pizza. Il suo obiettivo principale è quello di continuare a chiedere Shomèr ma mi llailah (“sentinella, quanto [resta] della notte”)? Perché domandare e avere dubbi significa non fermarsi mai. Studia per sfida, legge per sopravvivenza, scrive per essere felice.

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