Dalla parte di lei

Aprire questo libro è come entrare in una stanza degli specchi: luci e ombre che si alternano, riflessi sfuggenti e deformati che si inseguono e, in primo piano, una figura che detta il tempo di questo movimento di scena.
È femminile, questa figura, e procede, decisa e titubante, a vivere e raccontarci di sé; così facendo, ella narra la storia del suo tempo, filtrando tutto dal suo personale punto di vista che è, nel senso più universale possibile, il punto di vista di una donna che sente forte la sorellanza e la comunione di destino con le altre donne.
«Tuttavia esse solevano tirare avanti la gravosa vita quotidiana senza neppure lamentarsi. Né più rammentavano al marito le ragazze che erano state, e le promesse che avevano ricevuto di una vita armoniosa e felice. Avevano tentato, sul principio: avevano trascorso molte notti piangendo, mentre i mariti dormivano al loro fianco. Avevano usato civetterie, malizie, finto svenimenti. Le più evolute avevano tentato di appassionare i loro compagni alla musica, ai romanzi, li avevano condotti nei giardini dove usavano andare a passeggiare al tempo dell’amore, sperando che potessero comprendere e ravvedersi. Ma altro non avevano fatto che distruggere quei cari luoghi nel ricordo poiché lì, dove erano state dette le prime trepidanti parole e scambiati i primi baci ancor tutti pervasi di desiderio insoddisfatto e curiosità, altro i coniugi non avevano trovato da dirsi che cose indifferenti e trite».

Questa donna si chiama Alessandra Corteggiani, nata nella Roma degli anni Venti del ‘900, in una famiglia come tante, da un matrimonio come tanti, in un condominio come tanti. Ciò che di speciale Alessandra ha, però, sono lo sguardo e la sensibilità, doti che le permettono di osservare il generale e vederlo particolare e, ancora, di partire dal particolare per allargarlo al generale. Le vicende che la riguardano si mescolano alla storia che le è contemporanea e, soprattutto, diventano le vicende di ciascuna, altra, donna.
Alessandra, chiamata così in ricordo del fratellino morto prima che lei venisse al mondo, ha un rapporto strettissimo con la madre, ma uno freddo e stentato con il padre. Entrambi, anche se in maniera diversa, vedono in lei un riflesso del loro precedente figlio. Ed è qui, fin da subito, che prende corpo e materia la denuncia che percorrerà tutto il romanzo: quella di una società che relega le donne a ruoli prestabiliti dagli uomini, che cuce loro addosso l’ombra delle esistenze maschili, obbligandole ad accettare a capo chino tale stato di cose. Accanto a ciò, altro fondante tema è quello dell’amore, il sentimento universale dal quale le donne potrebbero — e vorrebbero — trarre la forza e il coraggio che servono loro per affrontare quanto sono costrette a subire. Eppure, anche questo diviene una gabbia che ben poco ha di dorato:
«Mi sembrava inverosimile che gli stessi uomini, i quali non avevano mai, durante tutto il giorno, una parola d’amore per le proprie compagne, d’improvviso, la notte, pretendessero di trovarle pronte a quegli amplessi tremendi. Era una offesa, un affronto addirittura, come sputare in viso. Mi pareva di vedere al mattino le donne riprendere il loro lavoro quotidiano portando negli occhi il ricordo di una logorante umiliazione».
E l’amore circonda l’intera esistenza di Alessandra: quello per la madre, quello per le nonne, quello della madre per il giovane Hervey, quello per l’amica Fulvia, quello per il marito Francesco. Un amore in cui Alessandra spera, al quale si aggrappa ma che la vede, alla fine, arresa alle leggi — scritte e non — con cui la società patriarcale lo comanda.

Nel racconto collettivo che si intreccia con quello personale, le pagine dedicate alla Resistenza risultano essere le più lucide, nette e dense. Anche di aspettative e speranze.
La lotta per la liberazione, infatti, fa credere a tutte — anche ad Alessandra — che le cose possano cambiare, che le donne, con il protagonismo e l’attivismo con il quale hanno affrontato la guerra, possano vedere riscritto e rivalutato il proprio ruolo nella società.
Non sarà così:
«I compagni venivano a trovarci spesso, di sera. […] Poi illustravano le ormai famose avventure di marito. Io ero contenta che non accennassero alle modeste missioni che avevo compiuto […]. Tuttavia mi veniva fatto di sospettare che le bombe che avevo portato io fossero false: se solamente quelle che gli uomini avevano rappresentato un pericolo; dubitato del contenuto dei manifesti; ricordavo che i messaggi erano per lo più frasi insulse, simili a quelle che si trovano nelle grammatiche di lingua straniera. Non significavano nulla, forse; incominciavo a credere che fossero stati preparati al solo scopo di beffarmi. Ma, se anche fossero stati falsi, ciò non avrebbe avuto importanza; io li avrei portati con la stessa paura, avevo ugualmente accettato di correre quel rischio. […] Così intimidita spesso rimanevo in un canto, tacendo. Francesco, preso nei suoi discorsi e nel circolo di simpatia che si formava intorno a lui, talvolta, durante tutte la serata mi si rivolgeva soltanto per chiedere “Vuoi darci un po’ di limonata cara, per piacere?”. Poi tornavo a sedermi, zitta».

Zitta, però, Alessandra non sta più. E il gesto finale e tragico che ella compirà nei confronti del marito Francesco è la colpa, e insieme la pena, che l’intera società commette e sconta in quanto tale.
Perché a essere messo sotto accusa dall’autrice, Alda de Céspedes, è il sistema sociale che trasforma di fatto gli uomini in carcerieri – indipendentemente che essi siano buoni o cattivi – e le donne in carcerate.
Uomini che non sono in apparenza violenti, carnefici o prevaricatori, che appaiono anche degni di stima e ammirazione, ma che, comunque, sono complici dello status quo che impone alle donne, che non le lascia libere di respirare e camminare per ciò che esse sentono e vogliono.
La scrittura di de Céspedes è icastica. Stuzzica e ferma i sensi in una costante e attiva contemplazione di ciò che si descrive. Un’esperienza diretta che passa dalla penna dell’autrice alle percezioni dei lettori e delle lettrici senza, però, il filtro ultimo delle pagine e dell’inchiostro. È un mantice, che si allunga e si restringe tra il reale e l’onirico, tra la perfezione quasi matematica e ingegneristica di una descrizione e il baluginare inafferrabile della nebbia che quelle stesse descrizioni hanno e trasmettono.
Protagoniste assolute del romanzo sono le donne, mentre gli uomini sono condannati a sparire dalla prima scena, a rimanere all’ombra del coro e della scenografia: è il femminile ad avere voce nel monologo dell’intera vicenda.
Dalla parte di lei è, dunque, un romanzo epico che, pur non avendo i toni esaltanti delle grandi imprese compiute, parla di condivisione, di universalità, di antiche sfide per tentare di portare giustizia.
E il processo che si svolge nelle ultime pagine sembra voler chiamare ogni donna alle proprie responsabilità, facendola assistere per far prendere — qualora ce ne fosse ancora bisogno — la consapevolezza piena di come stanno le cose. Un processo attraverso il quale l’autrice ci parla e ci incalza: «Vedete? Vedete quell’angolo eterno dove siamo state rinchiuse? Vedete quanto dolore esso porta e comporta? Basta! Basta. In nome di tutte noi, basta. Dobbiamo stare dalla nostra parte perché, se non lo facciamo noi, non lo farà nessuno».

In copertina: Claudia Berardinelli, Ritratto di Alba de Céspedes.

Alba de Céspedes
Dalla parte di lei
Mondadori, Milano, 1949
pp. 552

***

Articolo di Sara Balzerano

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Laureata in Scienze Umanistiche e laureata in Filologia Moderna, ha collaborato con articoli, racconti e recensioni a diverse pagine web. Ama i romanzi d’amore e i grandi cantautori italiani, la poesia, i gatti e la pizza. Il suo obiettivo principale è quello di continuare a chiedere Shomèr ma mi llailah (“sentinella, quanto [resta] della notte”)? Perché domandare e avere dubbi significa non fermarsi mai. Studia per sfida, legge per sopravvivenza, scrive per essere felice.

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