Carissime lettrici e carissimi lettori,
il futuro è nero! Succede quando i diritti, e dunque la democrazia che serve a tutelarli, vengono aboliti o, peggio, manomessi. La legge 194, le garanzie di un Ministero sulle pari opportunità, le libertà degli affetti sono momenti di una democrazia viva che, se viene toccata con l’abolizione o la netta trasformazione di questi elementi importanti, perde e rischia di esaurirsi.
Camminando di pari passo, i diritti civili e la democrazia, vanno, infatti, a formare insieme una spirale vivace e attiva che porta verso altre conquiste nel segno dell’evoluzione di tutti gli uomini e, soprattutto, di tutte le donne, nonché delle categorie sociali più in pericolo e stereotipate.
Il futuro è nero. Lo si vede buio quando si ha la sensazione di stare in un altro periodo, di aver compiuto un improvviso, e oso dire violento, balzo indietro nel tempo degli accadimenti storici. Mi è capitato per le mani uno scritto, passatomi da un’amica e trovato sulla pagina de La città delle donne, riportato, evidentemente, con lo stesso sentimento che ho provato e mi ha fatto fare parallelismi con insensate proposte attuali. Si parla, nello scritto che mi è arrivato e, potrei dire, mi si è palesato davanti a mo’ di ectoplasma, dell’Onmi, l’Opera nazionale maternità e infanzia, istituita dal regime fascista nel 1925 (dunque praticamente come primo atto), uno degli enti assistenziali con cui il fascismo penetrò nella vita privata delle donne italiane, condizionandone le scelte più intime e personali e imponendo loro un modello di femminilità omologante. «Obiettivo dichiarato dell’Onmi ‒ leggo ‒ era favorire le nascite a sostegno della politica demografica che il regime avrebbe promosso di lì a poco, nella convinzione mussoliniana che il numero fosse potenza e in vista dei suoi progetti imperialisti. Solo a questo scopo, e non come diritto sociale, diveniva necessario ridurre la mortalità infantile e migliorare la salute e le condizioni di vita di gestanti e madri in allattamento. Per questo – continua – l’Onmi doveva occuparsi di fornire alle donne bisognose assistenza medica durante la gravidanza e nei primi mesi dopo il parto, insegnare loro i moderni metodi della puericultura, procurare corredini per neonati e latte in polvere, assistere i bambini in età prescolare. Implicita, in questa argomentazione, era dunque l’idea che la maternità, per le donne, fosse un dovere verso lo Stato e la nazione. In questo contesto, dal 1933, all’Onmi fu affidato anche il compito di organizzare la Giornata della madre e del fanciullo, che veniva celebrata ogni anno il 24 dicembre, durante la quale le madri più prolifiche d’Italia ricevevano pubblicamente l’encomio di Mussolini. Sul piano della crescita demografica o del miglioramento della vita dei bambini abbandonati – conclude – l’Onmi raggiunse deludenti risultati. Tuttavia essa fu un efficacissimo mezzo di propaganda: tramite la sua fitta rete di collaboratrici che frequentavano le case delle italiane e prestavano loro assistenza, il fascismo consolidò la concezione della maternità come compito primario di ogni donna». Davvero una catapulta nel passato. Leggiamo ancora, da un’altra parte, e qui si tratta di un cambiamento radicale, una proposta di riforma: «L’articolo 1 del Codice Civile è sostituito dal seguente Articolo 1. (capacità giuridica) Ogni essere umano ha la capacità giuridica fin dal momento del concepimento. I diritti patrimoniali che la legge riconosce a favore del concepito, sono subordinati all’evento della nascita». Tanti punti di contatto, tanti rimandi. Questa è cosa di oggi (o di domani!) e ha il sapore amarissimo di un chiaro segno di restaurazione. All’aberrante proposta dell’introduzione del reato di maternità surrogata si aggiunge il pericolo e il rischio dell’istituzione della Giornata della vita nascente. Anche qui i collegamenti sono facili.
Il futuro è nero quando si avverte il pericolo di sparizione di un Ministero, ora necessario oltre che fondamentale, delle Pari opportunità che era nato accorpato a quello della Famiglia e proprio per suggerimento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il quale si era reso conto che l’equilibrio sociale passa attraverso la famiglia, qualunque essa sia, ma soprattutto è consolidato dalla messa in pratica di una parità effettiva, sociale ed economica, tra uomo e donna. Ora, stando a quanto attualmente è noto (lo riportavano i quotidiani di mercoledì scorso) le Pari opportunità potrebbero diventare, nel nuovo esecutivo, un’appendice degli Affari giovanili e dello sport.
Già, lo sport. Anche il mondo dello sport in questo Paese (ma non solo, a rifletterci bene) non è un affare per donne, a parte qualche disciplina che da sempre è stata dedicata, percepita da donna, come nel destino di alcune professioni, uniche declinate al femminile. Le donne sono penalizzate da un forte gap, poco visibile, soprattutto giudicate come non professioniste, e mal retribuite rispetto ai colleghi della stessa disciplina.
Si è sentita dunque l’urgenza di un incontro come quello che si è svolto mercoledì scorso al Campidoglio, a Roma, su Donne sport e parità di genere, promosso dall’università di Cassino con la partecipazione delle associazioni e dei club legati all’Unesco e con la Società italiana di Storia dello sport. Si è parlato di tante cose, della storia delle donne nello sport, del ruolo femminile oggi in Italia e non solo, delle ingiustizie verso le donne che praticano sport, dei ruoli e delle questioni legate al vestirsi rispetto alle diverse culture, alle proibizioni. Così sono venuti fuori argomenti di attualità, brucianti. «Necessario e importante – ha detto la professoressa Alessia Lirosi, che ha moderato l’incontro – è parlare degli sport negati o comunque ostacolati alle donne, quelli che sono stati e sono ancora tipicamente maschili. Non solo il calcio, ma per esempio il pugilato in cui le donne si sono dovute far strada a fatica». Storia, ma anche attualità. Come l’amara vicenda della pallavolista Paola Egonu, insultata dal solito vigliacco popolo dei leoni da tastiera. Nonostante i premi fatti vincere alla sua squadra nazionale italiana, nonostante l’amore spassionato per la sua maglia azzurra (sembra che Paola se la sia tatuata), nonostante tutto questo, è stata messa in dubbio la sua italianità. Solo perché ha la pelle scura ed è figlia di due persone straniere, si è addossata esclusivamente a lei la colpa di qualsiasi sconfitta sul campo: «Fatevene una ragione. – risponde per Egonu il deputato Jean Léonard Touadi dalla sua pagina social – Da decenni l’Italia sta cambiando con la presenza di cittadini nati e cresciuti qui, che studiano e lavorano e che in tanti faticano a riconoscere come con-cittadini. Essere italiani è condividere lingua, valori e senso di appartenenza».
Tristissima, seppure molto interessante, la storia raccontata dalla giornalista sportiva Francesca Monzone, della squadra di ciclismo femminile afghana, da pochissimi giorni in Italia, composta da donne pronte ad essere felici dopo che nel loro Paese erano pensate come poco degne perché l’uso della bicicletta secondo il patriarcato dei talebani fa perdere alle donne la verginità!
A questo episodio di integralismo si lega l’orribile vicenda di Elnaz Rekabi, l’atleta iraniana che ha gareggiato senza velo ai campionati di arrampicata di Seul. Rekabi ora sembra sparita nel nulla. Si pensa sia nel carcere di Evin dove è ancora imprigionata la nostra Alessia Piperno. La trentatreenne in un post su Instagram, che alcuni ritengono scritto sotto costrizione, aveva affermato che l’hijab le era caduto accidentalmente. Probabilmente, per intimorirla, il governo degli Ayatollah ha fatto arrestare anche il fratello Davood Rekabi. «Arrestata non appena rimesso piede a Teheran – scrive un giornale – e trasferita a Evin, il famigerato carcere dei prigionieri politici. Secondo il portale dei dissidenti IranWire, sarebbe la punizione decisa dal regime per Elnaz Rekabi. Dell’atleta si erano perse le tracce mentre le immagini di lei in gara con i capelli che coprono la scritta Iran sull’uniforme della nazionale facevano il giro del mondo […] Rekabi si è scusata per aver fatto preoccupare tutti e ha annunciato che stava tornando a Teheran, come da programma, con le sue compagne di squadra. Prima che riapparisse con il post, IranWire aveva riportato fonti anonime secondo cui, dopo la gara, la sportiva sarebbe stata ingannata dal capo della Federazione di arrampicata iraniana che l’avrebbe condotta nell’ambasciata di Teheran a Seul, su istruzioni del presidente del Comitato olimpico iraniano Mohammad Khosravivafa, che a sua volta avrebbe ricevuto l’ordine dalle Guardie della Rivoluzione. Al contrario di ciò che è stato postato in seguito su Instagram, l’atleta avrebbe scelto consapevolmente di gareggiare senza il velo».
L’ultima vittima della repressione del regime degli ayatollah è Asra Panahi, studentessa di 16 anni che, secondo il sindacato degli insegnanti, ha perso la vita dopo un pestaggio da parte delle forze di sicurezza perché, assieme ad altre compagne di classe in una scuola di Ardabil, si era rifiutata di cantare un inno dedicato alla Guida suprema dell’Iran, Ali Khamenei. Tristissima questa morte, una morte violenta che interrompe la vita appena all’inizio.
In queste ultime settimane abbiamo lasciato indietro tante notizie e tanti anniversari che hanno valore per essere ricordati. Eravamo sopraffatte e atterrite dall’incalzare terribile degli avvenimenti, che ci parlavano, come purtroppo ci parlano ancora, di donne e uomini uccisi in nome di un oltraggio alla morale e della repressione feroce seguita alle proteste. Eravamo abbattute, e anche in questo caso lo siamo ancora, dai tristi presagi dell’abbrutimento di una guerra, ingiusta in quanto tale, ma ora carica delle minacce di possibili esplosioni atomiche su un territorio, quello europeo, piccolo fin troppo per comprendere e colpire tutti e tutte. Abbiamo dovuto lasciare indietro, non certo dimenticandone la gravità, l’anniversario dell’uccisione, davanti all’ascensore del suo condominio, della giornalista russa Anna Politkovskaja che Putin, nel giorno del suo sessantanovesimo compleanno, si è fatto servire metaforicamente su un vassoio.
Abbiamo lasciato indietro la tragedia del Vajont con i suoi quasi 2000 morti (487 tra loro avevano meno di 15 anni) travolti e uccisi dal fango in una serata di inizio autunno. Era il 9 ottobre del 1963.
Non abbiamo parlato di Samantha Cristoforetti, classe 1977, prima donna europea a dirigere una stazione spaziale: dopo sei mesi di permanenza in orbita è tornata, come si dice, «con i piedi sulla terra», dove ha ritrovato i suoi figli, dopo la valanga di critiche contro una donna che si è comportata come qualsiasi persona che lavora e che, per tale impegno, ha lasciato i figli al padre, come da sempre i padri hanno fatto lasciandoli alle loro madri in occasione di viaggi di lavoro, e non solo.
Abbiamo lasciato indietro le notizie di altre donne morte ammazzate, per gelosia, interessi economici, possesso. Uccise da uomini che non le hanno mai amate, ma solo tenute in ostaggio della loro proprietà personale. Un orrore che sembra non finire mai.
Non abbiamo parlato di una bella notizia al femminile e lo facciamo subito. Per la prima volta nella sua storia, che dura da 54 anni, è stata una donna a vincere la Barcolana, la manifestazione velistica che mette Trieste, nella prima parte del mese di ottobre, sotto i riflettori mondiali. A vincere la barca americana Deep Blu, con al timone Wendy Schmidt: «È stata la regata più eccitante della mia vita – ha commentato la vincitrice – in 15 anni di vela questo è il mio momento più eccitante, assolutamente pazzesco, e c’è così tanta energia a Trieste».
In ultimo un augurio. Lo dedico, a nome di tutte e tutti noi, alla scrittrice Dacia Maraini che ha ricevuto la laurea honoris causa alla Chapman University, in California. Da qui parte il tour americano (che durerà fino al 3 novembre) della scrittrice che è stata sempre dalla parte delle donne e delle loro lotte. Grazie Dacia, Piera, la tua grande amica-sorella ne sarà fiera, ovunque lei sia!
Collegandomi all’editoriale della scorsa settimana e ricordando commosse/i, ancora con un pensiero, Bayia, reputata dai e dalle credenti divina, per alleggerire il tono grave delle notizie riportate, vi propongo una canzone intitolata Il dio delle piccole cose, «splendida poesia laica cantata da Max Gazzè, che la cofirma con l’autore Gae Capitano, vincitore del Premio Lunezia 2012. Il titolo del brano è solo casualmente, forse, lo stesso di un romanzo della scrittrice Arundhati Roy che racconta un amore non convenzionale nell’India degli anni ’60. Qui l’atmosfera è delicata e rarefatta, e le immagini sono evocative e commoventi». Fa parte dell’album, scritto insieme a Niccolò Fabi e Daniele Silvestri, Il padrone della festa, dove il padrone è la natura, la nostra terra.
Di Sara ricordi soltanto il vestito bianco e trasparente
Hai perso per strada il rossore e il sorriso, di chi fa finta di niente
Chissà se qualcuno ha raccolto quei baci mai dati
I gesti invisibili come bottoni smarriti
Di Sara ricordi soltanto il vestito bianco e trasparente
Hai perso per strada il rossore e il sorriso, di chi fa finta di niente
Chissà se qualcuno ha raccolto quell’attimo in cui le impazziva il cuore
Ci vuole fortuna, magia, un prestigiatore
Io spero che esista anche un Dio delle piccole cose
Che sappia i silenzi mai diventati parole
Che sappia i gradini di pietra, l’estati scoscese
Quel nome che hai proprio lì sulla lingua e non viene
Dio mostrale passi di danza che aveva sbagliato
Conserva le foto in cui s’era trovata per caso
Raccogli le briciole perse di ogni esistenza
I respiri sui vetri, di treni in partenza
Chissà se qualcuno sa dire i cognomi dei suoi compagni di scuola
Poesie che non è mai riuscita a imparare a memoria
Se ha letto i romanzi che poi non abbiamo finito
Le voglie che non sono più diventate peccato
Se sa le preghiere fantasmi di noi da bambini
O dov’è che finiscono chiavi e orecchini
Il Dio delle piccole cose aspetta la fine del cammino
Con un sacco sgualcito dal tempo ed un piccolo inchino
Chissà se ci ridà indietro le vite che abbiamo in sospeso
Io credo sia questo l’inferno e il paradiso
Buona lettura a tutte e a tutti.
Eccoci a sfogliare il numero odierno della rivista e a fermarci sugli articoli qui pubblicati. Cominciamo con un racconto sulla Scuola. Ce ne parla Al di là del bosco, una testimonianza coraggiosa che ci ricorda che compito prioritario della scuola è dare ai giovani la fiducia in sé stessi. Se non ci si riesce, sarà un fallimento. Sicuramente un bellissimo evento, legato proprio alla scuola e «al valore di una didattica progettuale, laboratoriale, che insegni a fare ricerca» è stata la premiazione, avvenuta a Roma la settimana scorsa, del Concorso di Toponomastica femminile Sulle vie della parità, arrivato quest’anno alla sua decima edizione. Ce lo racconta Una festa di progetti, idee e gioventù.
In questi giorni la politica politicante fa da padrona, ma, come sempre, in Italia, tra liti, riappacificazioni ed episodi che sfiorano il senso del ridicolo. Per fortuna si fa politica anche col portafoglio per contrastare l’aumento delle disuguaglianze, che rappresentano, a detta anche degli economisti più allineati al pensiero unico dominante, un “fallimento del mercato”. Ce ne parla, allargando lo sguardo, l’articolo Eat the rich. Quanto sono potenti le multinazionali.
Tratteremo poi di tre splendide figure femminili: la donna di Calendaria, Marguerite Massart, la prima ingegnera belga che, oltre alla grande attenzione per l’ambito tecnologico si dedicò all’impegno sociale rivolto alle donne per promuovere e diffondere al loro interno la cultura scientifica; Marie Bashkirtseff. La breve vita di un’artista poliedrica, che ci farà scoprire una donna di quella Ucraina che in questi tempi, purtroppo, abbiamo imparato a conoscere solo attraverso le armi. Una studiosa recentemente scomparsa a cui dedichiamo un approfondimento ricco di spunti sul Medioevo e non solo è ricordata in La scomparsa di Chiara Frugoni, medievista e divulgatrice straordinaria.
Proseguono le nostre serie: per Viaggiatrici del Grande Nord in Mediterraneo o Baltico? Anna Maria Speckel al nord ci illustra il viaggio della giornalista entusiasta del fascismo nei Paesi del Nord, dalla Lettonia alla Norvegia, che si conclude con un forte apprezzamento per il Sud; Le Terme di Diocleziano. Percorso di genere. Parte seconda è una nuova tappa tra fontane, chiese e figure femminili; Una storia olimpica. Tra le due guerre mondiali è il racconto della presenza delle donne alle Olimpiadi in quello scorcio di pace. Continuiamo ad approfondire il corso di eco-teologia delle donne che ci avvicina alle Scritture con uno sguardo nuovo in I racconti delle origini. Questa settimana recensiamo una mostra fotografica, Santafrika, che riesce solo in parte negli intenti che si propone e un libro, Dalla parte di lei di Alba De Cespedes, una scrittrice che amo molto, in un testo che ha sullo sfondo la guerra e la Resistenza descritte dal «punto di vista di una donna che sente forte la sorellanza e la comunione di destino con le altre donne».
La sorellanza e la comunione di destino unisce anche le coraggiose donne iraniane che continuano a protestare, insieme a molti ragazzi. Capo d’Orlando ha organizzato una serie di eventi, per far sentire loro la solidarietà delle sorelle italiane, ben raccontati in Zhen, Zhian, Azadi! Donna, vita, libertà!
Chiudiamo il nostro numero, come sempre, con la ricetta della settimana: Cappuccino di piselli, un gustosissimo piatto, che si presta a tante varianti e che mette allegria in tavola.
SM
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Articolo di Giusi Sammartino

Laureata in Lingua e letteratura russa, ha insegnato nei licei romani. Collabora con Synergasia onlus, per interpretariato e mediazione linguistica. Come giornalista ha scritto su La Repubblica e su Il Messaggero. Ha scritto L’interpretazione del dolore. Storie di rifugiati e di interpreti; Siamo qui. Storie e successi di donne migranti e curato il numero monografico di “Affari Sociali Internazionali” su I nuovi scenari socio-linguistici in Italia.