Nel cuore di Trastevere, dietro la vibrante piazza di San Cosimato, Radio Trastevere Gallery ha ospitato dal 30 settembre al 4 ottobre Santafrika, una mostra fotografica «dedicata alla moda e all’amicizia». È l’ultimo appuntamento di “Fuori catalogo. Wandering Pop Up Art Exhibition”, ciclo di mostre curato da Sant’era.

L’esposizione consiste di venti fotografie scattate nelle bianche spiagge di Watamu, in Kenya.
Il progetto nasce dall’idea di Sant’era di porre al centro dell’attenzione «il dialogo tra il nord e il sud del pianeta e l’interconnessione delle due culture espresso tramite l’unione di moda e ambiente» (Culturalia). Per farlo unisce «gli opposti di due grandi passioni ovvero il rigore concettuale di stilisti nordici di fine secolo come Martin Margiela e l’amore per l’anima autentica del Kenya» (ibidem). A scattare c’è Sabrina Poli, non una fotografa professionista ma direttora creativa, visual designer e grande amica di Sant’era. Santafrika è un lavoro estremamente personale per l’organizzatrice di Fuori catalogo: collabora con due grandi amici (oltre a Sabrina c’è Paolo Baroncelli allo styling), gli scatti hanno come protagonisti abiti di proprietà di Sant’era stessa e la location è stata casa sua per un anno.


La scelta di vestire le modelle con Margiela ha radici di senso profonde. Quello che lo stilista ha fatto negli anni Novanta è stato rivoluzionare l’idea di alta moda proponendo una visione in cui lusso e ostentazione lasciano il loro privilegiato posto alla creatività e al recupero. Questo elemento è evidente nelle fotografie di Sabrina Poli: la prevalenza di primi piani e mezze figure mette in risalto, oltre ai volti e ai corpi delle modelle, anche i dettagli degli abiti. Protagoniste, spesso, sono le spille da balia. Dietro l’idea dello stilista c’è proprio la volontà di accostare qualità e semplicità. Tessuti pregiati (come la seta rossa che si vede in alcuni scatti) vengono fermati con spille; le cerniere perdono la loro utilità ma rimangono come elemento decorativo.
Un visitatore della mostra è stato particolarmente colpito dalla scelta di mettere in primo piano il dettaglio di un vestito che aveva una zip apparentemente rotta a cui sembrava si fosse rimediato tramite l’uso di una spilla da balia. Ha chiesto alla fotografa se ci fosse stato un “recupero in extremis”, convinto che quel “difetto” fosse capitato al centro della foto per errore.
In realtà, ha spiegato Sabrina, l’abito è stato disegnato proprio così e nessun errore aveva contribuito alla creazione della foto.

Oggi la moda keniota sembra seguire quest’idea di riuso: Suave Studios di Mohamed Awale prende ispirazione dal grande mercato di Nairobi Gikomba e usa vecchi indumenti provenienti dall’Europa e dagli Stati Uniti per farne utili zaini e borse. D’altra parte Kepha Maina si ispira ai design di Alexander McQueen e, tra gli altri, di Comme des Garçons (protagonista secondario di Santafrika) per creare abiti spesso nati dal riuso. Grande impatto sullo stilista sono stati gli skinny jeans anni Novanta resi celebri da band come gli Strokes e i Libertines. Riprodurli in Kenya non fu cosa facile: lo stile desiderato non era disponibile, quindi prese degli abiti di seconda mano e li trasformò nei jeans da lui pensati. Stilisti nord-europei e stilisti kenioti non sono poi così diversi, alla fine.
L’obiettivo della mostra, abbiamo visto, è quello di far incontrare due culture diverse attraverso la moda e l’ambiente, ma questo negli scatti non si vede. Le particolarità del luogo sono state sottratte per far posto a un gusto estetico chiaramente occidentale. In questo incontro, o scontro, tra nord e sud della terra a prevalere è il nord, coerentemente con quella tradizione coloniale di cui il nostro sguardo ancora non si è liberato. I corpi di queste modelle non hanno agency, non raccontano nulla della loro storia particolare. Diventano manichini di una boutique, modellati a piacimento di chi, invece, ha la possibilità di raccontare chi è.

Si distingue subito l’occhio allenato di due donne che a lungo hanno lavorato nel settore della moda. Più che incontro tra nord e sud del mondo, la mostra risulta essere uno spot pubblicitario a grande impatto visivo. Le forme e i colori si sposano perfettamente tra loro e lasciano un piacevole effetto su chi guarda, ma il luogo, che potrebbe raccontare tanto, rimane un non-luogo. I corpi rimangono corpi e non diventano persone.

Ancora una volta la cultura di un popolo viene ridotta a poche caratteristiche stereotipate: il colore della pelle e l’ambientazione esotica fungono da scusa per raccontare una storia che non ci appartiene. La ricerca, l’attenzione per un’altra cultura se c’è stata non si vede. Le spiagge di Watamu sono la meta preferita dal turismo, ma non c’è niente che ricordi anche solo lontanamente la tradizione delle protagoniste di questi scatti. Il loro corpo, così, rimanda a tutta una serie di idee preconfezionate che riguardano la visione eurocentrica di quella che potrebbe essere la cultura “africana”. Il dialogo tra culture diventa un monologo. Niente viene messo in discussione, tutto viene seppellito sotto l’idea occidentale dominante. Quando racconta di moda la mostra comunica chiaramente i suoi intenti.
Il tentativo meno riuscito è stato quello di unire due culture diverse, per il semplice fatto che ad essere rappresentata, di cultura, ce n’è solo una.
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Articolo di Alice Marcacci

Studente di DAMS presso l’università degli studi Roma Tre. Studia per diventare costumista cinematografica ma nel tempo libero le piace approfondire il suo interesse per la letteratura e la moda. Quando ne ha la possibilità lavora presso set cinematografici come comparsa per imparare la vita del set.