Ha diciassette anni, Gabriella, quando in sella alla sua bicicletta, per le strade della Castellana, decide di stare dalla parte giusta.
E non è mica facile tirar fuori questa scelta. Perché l’Italia è buia, in quel periodo, nera, che a viverci ti manca il respiro.
Sa, però, che non può fare altrimenti. Non ci sono alternative possibili.
Quei quarantaquattro ragazzi, impiccati lungo il viale alberato di Bassano del Grappa, pur nel mutismo plastico della morte assurda, sono un urlo che non può incontrare indifferenza.
È così che Gabriella sceglie. È così che Gabriella nasce.
È il settembre del 1944.
Gabriella la staffetta, la partigiana, si chiama in realtà Tina Anselmi, figlia di Ferruccio, aiuto farmacista di idee socialiste, perseguitato per questo dal regime, e di Norma Ongarato, gestora di un’osteria.
Tra quei quarantaquattro giovani, Tina riconosce Lino Canonica, fratello della sua compagna di banco all’Istituto Magistrale. Ma le pare in realtà di conoscerli tutti, ragazzi, come ragazza è lei, che avrebbero dovuto mangiarsi la vita, e che invece sono stati, loro, divorati e masticati dal rabbioso cane fascista.

E quindi Gabriella sceglie. Di fare la cosa giusta. Di fare ciò che la impegnerà per tutta la vita: combattere e lavorare affinché questo Paese diventi un luogo dove l’esistenza di ciascuna e ciascuno sia orgoglio e non sofferenza.
E non si ferma mai, nemmeno a guerra finita, nemmeno a Costituzione scritta, a voto espresso, a istituzione create.
Tra il 1945 e il 1948 diventa dirigente del sindacato dei tessili e, dal 1948 al 1955, di quello degli insegnanti elementari – è insegnante lei stessa – operando prima nella CGIL e poi, a partire dalla sua fondazione, nella CISL.
La Democrazia Cristiana è la sua casa politica, ma più importante di qualsiasi appartenenza è per lei la morale, i personali principi che sempre le faranno mantenere la schiena dritta, mettendo il bene comune avanti, in qualsiasi sua scelta o decisione.
Nel partito, questa indipendenza le porta il soprannome di Tina vagante: un appellativo che pare essere quello di una figura mitologica, inaspettata, da guardare con un po’ di timore e un qualche imbarazzo.
E forse è proprio così che i dirigenti si sentono di fronte a questa donna tanto caparbia da non aver bisogno di idee precostituite per poter esprimere le proprie.
Fin dagli esordi della Repubblica, lavora per avviare l’organizzazione femminile nella DC, raggiungendo i vertici del Mf, il Movimento femminile democristiano. E la questione di genere è uno dei punti saldi della visione politica di Tina Anselmi. Convinta com’è che le battaglie vinte dalle donne, alla fine, rappresentino una vittoria per tutti e tutte, proverà a condurre queste lotte dal particolare all’universale, trasformandole in obiettivi di una comune giustizia sociale.
Nel 1968 entra nel Parlamento italiano, eletta deputata nel collegio di Venezia e di Treviso, e confermata fino al 1992. Ma è soprattutto come ministra, la prima donna a ricoprire questa carica nella storia d’Italia, che Tina Anselmi contribuisce a trascinare questo Paese nella modernità.
Nel 1976 è ministra del Lavoro e della Previdenza sociale e, in quanto tale, tra le prime firme della legge sull’uguaglianza salariale e di trattamento nei luoghi di lavoro, nell’ottica di quel principio che la Costituzione, in particolare con l’articolo 3, ha posto come sua base fondante. Nel 1978 passa a dirigere il dicastero della Sanità: è anche a lei che si deve la riforma del Sistema Sanitario Nazionale, un modello assistenziale tuttora ammirato e imitato, in cui per la prima volta la salute è intesa come diritto fondamentale dell’individuo, principio di uguaglianza universale e interesse della collettività.
In questi anni, proprio in qualità di ministra della sanità, subisce un attentato a seguito della decisione di ritirare dal mercato una partita di farmaci dichiarati pericolosi. La bomba, piazzata nelle vicinanze della sua casa a Castelfranco Veneto, per fortuna non esplode.

Donna intimamente e sentitamente credente, ha una fede forse ancora maggiore nella laicità, tanto da mettere la sua firma come sigillo di approvazione alla legge 194 del 22 maggio 1978 per l’interruzione volontaria di gravidanza.
Non lo farà a cuor leggero, ma comunque con la consapevolezza che la propria veste istituzionale è ben più importante del suo intimo sentimento di cattolica, nonostante le pressioni ricevute da più parti. Ed è proprio da cattolica, invece, che recepisce forte e fa proprio il messaggio innovativo uscito dal papato di Giovanni XXIII e dal Concilio Vaticano II, un messaggio che auspica la piena legittimazione della libertà politica e del pluralismo ideologico e religioso. E infatti il dialogo è ciò che sempre cerca, in ogni ruolo che ricopre, preoccupandosi di lavorare affinché chiunque, da questi suoi sforzi, abbia benefici, perché, per lei, nessuna persona è inutile.
Ma bisogna esserci, per cambiare le cose.
E lei c’è, sempre, anche quando a chiamarla è la presidente della Camera, Nilde Iotti, comunista e avversaria politica. Iotti chiede ad Anselmi di presiedere, prima volta per una donna, la commissione parlamentare di inchiesta sulla loggia P2. La risposta arriverà in quindici minuti: «Presidente, accetto». Le due non si sono mai date del “tu”. Una formalità linguistica che per quanto possa apparire affettata, nasconde tutto il rispetto vicendevole che queste due donne hanno ciascuna per l’operato e la storia politica dell’altra.
L’incarico dura quattro anni e porta a Tina Anselmi insulti e delegittimazione, nonché un crescente isolamento politico, che aumenterà con il tempo, anche da parte del suo stesso partito che finirà, infatti, per estrometterla dalla scena politica.
«Ho fatto quello che ho potuto, solo che le complicità erano tali da rendere impossibile andare oltre, completare il lavoro. E c’era inoltre una certezza, che ormai stavo restando sola, sola con pochi a denunciare ogni volta che emergevano segnali di una riorganizzazione della loggia segreta, di attività di Gelli, di iniziative che sembravano ricalcare i programmi del progetto politico della P2».
Il suo nome rimbalza più e più volte durante le elezioni per la presidenza della repubblica nel 1992. E chissà come sarebbe andata, in questo Paese, se fosse riuscita a salire al Quirinale.
È stata una donna della prima linea, sempre, che ha combattuto personalmente le battaglie in cui credeva senza delegare o rimandare il proprio impegno.
Si è esposta e, esponendosi, ha contribuito a costruire un’Italia, libera, giusta e laica. Dalle strade della Castellana ai palazzi di Roma. Perché Gabriella ha continuato a inforcare la sua bicicletta, a procedere in avanti e a portare con sé nel futuro anche ciascuno e ciascuna di noi.
***
Articolo di Sara Balzerano

Laureata in Scienze Umanistiche e laureata in Filologia Moderna, ha collaborato con articoli, racconti e recensioni a diverse pagine web. Ama i romanzi d’amore e i grandi cantautori italiani, la poesia, i gatti e la pizza. Il suo obiettivo principale è quello di continuare a chiedere Shomèr ma mi llailah (“sentinella, quanto [resta] della notte”)? Perché domandare e avere dubbi significa non fermarsi mai. Studia per sfida, legge per sopravvivenza, scrive per essere felice.