Nelle città norvegesi

Grazie al turismo inglese, all’inizio del XX secolo la Norvegia è la parte più nota e frequentata di tutta la penisola scandinava; l’interesse di visitatori e visitatrici è però rivolto quasi esclusivamente alla natura incontaminata, mentre le città rappresentano solo i punti di partenza delle esplorazioni. Nel 1905, quando Giulia Kapp Salvini sbarca a Oslo, la città si chiama ancora Kristiania e non è neppure una capitale, ma solo un centro del regno di Svezia; come abbiamo visto nell’articolo dedicato al suo itinerario, proprio negli stessi giorni si sta tenendo il plebiscito che il 13 agosto sancirà la nascita del regno di Norvegia. Lo sguardo di questa viaggiatrice coglie l’eccitazione della città: «Ognuno, donne, uomini e bambini portavano sventolanti sul petto i nastri dei tre colori nazionali» e le bandiere norvegesi sventolano ovunque, sugli edifici come sui tram e sulle barche, anche se l’entusiasmo è «nordico, tranquillo e ordinato, senza canti, senza grida e senza chiasso; pareva che il popolo fosse compreso della gravità del fatto che stava per compiere». A sera la popolazione festeggia in strada, ma già il giorno seguente tutto è tornato alla normalità.

Le altre viaggiatrici troveranno invece Kristiania poco interessante; nel 1924 Luisa Santandrea lascia l’ambiente urbano sullo sfondo delle sue riflessioni sulla natura di un giugno «ancora immerso nel tragico squallore degli inverni dell’estremo nord». Questa cornice deprimente incoraggia l’autrice a sviluppare una teoria originale sul significato del viaggio, un’esperienza sofferta che richiede un animo di «poeta, esploratore, missionario che […] trasforma a poco a poco la sua curiosità in un largo senso d’universale abbraccio, in un reale bisogno di comunicare se stesso all’ambiente». Del tutto incurante della città intorno a lei, Santandrea si immerge nelle proprie emozioni, negli «echi» di «vita randagia» che definiscono chi viaggia in termini idealistici, senza alcun nesso con il suo percorso reale. Mentre è assorta nelle sue riflessioni uno sconosciuto prende a osservarla: si tratta di un tipico norvegese, minuziosamente descritto; un incontro casuale dunque, che ricorda quelli dei flâneurs, sui quali un grande come Baudelaire ha costruito la famosa poesia A une passante, o un’autrice come Woolf ha immaginato vicende personali in Street Haunting. Santandrea invece descrive un breve dialogo in cui, richiesta dal suo interlocutore, elenca i siti visitati in città: la collina di Holmenkollen, il Museo, il teatro, i parchi e il cimitero. Quest’ultimo diventa il vero oggetto della conversazione, il trait d’union fra i due parlanti: infatti quell’uomo norvegese è necroforo in un villaggio del Telemark ed esprime il suo disappunto per la trascurata manutenzione del cimitero di Kristiania, dove pure riposano grandi scrittori. Sarà proprio per visitare il “suo” cimitero che l’autrice proseguirà il viaggio, abbandonando senza rimpianti la capitale.

Oslo, 1900

Solo qualche mese dopo è Stefania Türr a raggiungere Kristiania, alla fine del suo itinerario avventuroso nell’estremo Nord; per lei l’arrivo in città rappresenta la fine dell’avventura e il ritorno alla civiltà, espresso in un’unica frase prima di proseguire alla volta di Stoccolma: «Cristiania. Siamo arrivate: il bel sogno è finito». Due anni dopo Ester Lombardo percorre lo stesso itinerario di Türr, ma si ferma nella capitale norvegese: la «piccola Kristiania borghese e pettegola dell’Ibsen» ha appena ripreso la precedente denominazione di Oslo, in onore alle proprie origini. La percezione di questa giovane giornalista propone a chi legge un’immagine alquanto riduttiva della città: ha una «linea belloccia e un po’ provinciale […] Risente dell’improvvisazione della capitale, del desiderio del grande movimento, del viavai della metropoli»; perciò gli edifici pubblici «sono raggruppati al centro nella Hanskaslgade […] per dare alla giovane Oslo un aspetto solenne».

Lombardo è interessata piuttosto alla variabilità del tempo: « Non dimenticare l’ombrello-dovrebbe essere l’avvertimento scritto nelle camere d’albergo quale consiglio prezioso al forestiere», dichiara ironicamente; mostra però di apprezzare il cibo: «In compenso si mangia benissimo […] la cucina è ottima […] il pesce abbondantissimo», ma purtroppo « il vino è cattivo e caro». Trova alquanto primitivo il Museo d’Arte Popolare, costituito da «casette di legno» del «popolo d’altri tempi», arredate con «veri esempi di un’arte popolare da noi sconosciuta perché aderente ad alcune necessità di vita da noi ignorate»; non la impressiona lo studio di Henrik Ibsen, così banale che «non ha nessun interesse nemmeno quello del cattivo gusto». Neppure il panorama dalla collina di Holmenkollen la soddisfa: Oslo «è meno bella di Bergen, ma costituisce sempre una dolce visione del Nord».

Sono passati circa dieci anni quando Anna Maria Speckel è accolta nella capitale norvegese dalla neve primaverile, che le ricorda l’infanzia; anche lei raggiunge in auto Holmenkollen, ma invece del panorama mostra a chi legge una curiosità: i Norvegesi che «ski in spalla, se ne vanno […] verso i campi aperti […] Fanno pensare di avere sempre gli ski a portata di mano, come è il bastone o l’ombrello nei nostri Paesi. […] Tutta una città si muove verso quei campi di neve». La sua fantasia le permette infine di immaginare i marinai, intenti a veleggiare sulle acque ostili e gelide, durante la visita a due navi vichinghe che conclude il breve soggiorno a Oslo.

Nei primi anni del Novecento Bergen è un importante approdo per le crociere turistiche, oltreché il centro dell’industria ittica norvegese. Proprio in questa luce Kapp la presenta a chi legge: grazie alle attività commerciali la popolazione è benestante, tutti sembrano sani e gentili, nessuno chiede mance, come invece avviene in Italia; inoltre i prezzi sono moderati ma, a causa dell’afflusso turistico, molti negozi sono privi di merci. Come d’abitudine l’autrice e il marito visitano la città in carrozza fino al punto panoramico di Blaamand; il Museo della città ha «una collezione ricchissima di orsi, bianchi e quelli neri d’ogni razza […] pesci imbalsamati, balene immense, foche, cavalli marini, e altri mostri di questi mari» che entusiasma l’autrice.

Bergen, 1900

Anche Türr raggiunge Bergen sulla via del ritorno, quando ha già sperimentato le emozioni della navigazione nell’Artico. La città le pare «assai pittoresca» e visita innanzitutto le istituzioni culturali: il Teatro nazionale, i due Musei e la residenza del musicista Edvard Grieg; quindi raggiunge la zona commerciale di piazza Torv, con «i più bei negozi di gioie, pellicce, fiori e pasticcerie» dove i compagni di viaggio «stanno contrattando la pelle di un altro orso». Un giro in auto sulle alture la fa riflettere: «È proprio vero che la terra di Norvegia non è fatta per servire di dimora all’uomo, essa non è abitabile che in facciata»; infatti «Bergen ha due volti: quello ammirato poc’anzi, tutto vita, sorriso, movimento; questo dall’altra parte […] solitudine, tristezza, silenzio […] tutto è così desolato qui».

Lombardo invece ammira talmente il panorama dal colle di Flöien, dove sale con la funicolare, da definire Bergen «la più bella città di Norvegia». Durante la passeggiata in centro osserva l’abbigliamento delle altre donne, abituate a difendersi dalla pioggia continua: «portano sempre l’impermeabile e certi piccoli cappelli che sul più bello coprono con una piccola cuffia di incerata la quale riposa eternamente nella larga borsetta insieme con le galoches sottili e pieghevoli munite di lunghi gambali. Non oserei dire che la tenuta sia molto elegante ma, infine, ognuno trova il rimedio contro il male da cui è afflitto […] esteticamente è preferibile la tela cerata sapientemente distribuita, e non le migliaia di parapioggia gocciolanti sulle spalle proprie e del prossimo e ingombranti i marciapiedi».
All’Hotel Norge si esprime con un tono quasi astioso a proposito della ricezione della musica italiana nel mondo: «Gli italiani restano in tal modo sempre il popolo dei mandolinisti, creatori della musichetta leggera sentimentale e orecchiabile». Tuttavia, è proprio la musica a risvegliare in lei una sincera nostalgia per l’Italia, che esprime con enfasi: «Oh patria, tu ci struggi il cuore quando sei lontana e solo la certezza di rivederti ci sorregge lungo il cammino per vie straniere e diverse dalle tue. Anche se son belle e il percorrerle è piacevole, noi le gustiamo solo perché in fondo ad esse ci appari tu, o infinitamente dolce, o amante che sai bruciare il nostro sangue dal desiderio di te che nessun mare, nessuna terra e nessuna bellezza saprebbero estinguere».

L’ultima italiana a visitare Bergen è Speckel, che vi rimane un solo giorno. Il suo sguardo esperto si concentra sullo stile architettonico della città che definisce «’novecento’ razionalista (architettura Funkis, come si dice qui)», adatto al paesaggio «immobile – quasi lo scorrer della linfa avesse qui un ritmo più lento». La sua sintetica descrizione (poco più di mezza pagina) si sviluppa con frasi brevi e sincopate e si chiude con un’efficace sinestesia: «Squilli di una sinfonia di verde e di grigio; il granito e l’abete».

Solo le croceriste raggiungono le piccole città dell’estremo Nord scandinavo. Kapp osserva compiaciuta l’animazione estiva di Hammerfest, la più a nord del continente, ma la immagina con sgomento «sepolta nelle tenebre» durante il lungo inverno. Nella sua breve permanenza è ospite della signora Nissen, un’anziana vedova che ha l’abitudine di «accogliere i forestieri»; chi legge ha così occasione di visualizzare una tipica abitazione norvegese: «fummo sorpresi di vedere il conforto e anche l’eleganza di quelle belle stanze, compresa la sala; tutto messo con gusto squisito […] il giardino […] non vi crescono che fiori di campo, ma coltivati con tanto amore, le aiuole separate, con vialetti ben tenuti e colla ghiaia bianca, che fanno in quel deserto, più effetto dei nostri fiori in giardino». Kapp è l’unica viaggiatrice che descrive la sua visita al Cippo del Meridiano (Meridianstøtten), congiunzione ideale fra la città norvegese e Izmail, nelle vicinanze di Odessa.

Hammerfest, 1890-1900

Anche a Hammerfest il suo principale passatempo sono gli acquisti «nei tanti negozi lungo il porto. Comperammo una magnifica pelle d’orso bianco, una di volpe blù e una di volpe bianca, a prezzi minimi, in confronto a quel che si paga da noi. Poi anche un bel dente di cavallo marino, e una piccola foca imbalsamata. Ogni passeggiero tornava a bordo carico di compere fatte». Di diversa opinione è Ester Lombardo che, giunta a Hammerfest di ritorno dalla solitudine delle isole Svalbard, taglia corto sull’argomento: «negozi pieni di roba inutile e multicolore, di pellicce carissime e di babbucce da cenerentola di pelo di renna».
Non nasconde invece la gioia di essere tornata in un centro abitato: quando sbarca alle tre di notte offre un’immagine pittoresca della città «addormentata sotto la luce del sole. Sembra disabitata e in attesa dei suoi padroni da un momento all’altro. […] Che dolcezza e che malinconia di paesaggio! Il mare è d’argento fuso col verde. La città piccola è tutta allineata su una sola via […] Il bosco più a nord del mondo è alquanto rachitico […] pure lo si guarda con una certa commozione […] Le casette sembrano al solito case di bambola […] alcune hanno, davanti alla porta, con ostentata ed aristocratica civetteria, un alberello stilizzato ovvero un orticello minuscolo, di quel verde nordico di cui noi non abbiamo esempio se non in Alto Adige […] le finestre però, al solito, sono adorne di fiori».
Uno sguardo che riassume molti degli aspetti stereotipati del Nord: l’emotività suscitata dal pittoresco paesaggio nordico; la modestia delle abitazioni, oggetto di cura e orgoglio dei residenti; il confronto con l’ambiente alpino. Immagini simili accompagnano una gita improvvisata: in auto si abbandona in tutta fretta la cittadina, alla ricerca di una colazione genuina: «il più buon caffellatte che abbia preso nella mia vita […] il caffellatte più nordico […] il salmone di quei mari e il burro della stessa fattoria».

L’altra piccola città nell’estremo nord è Tromsø: «ci sono due o tre distillerie di olio di balena il cui puzzo associato a quello dello stoccafisso messo a seccare, ci soffocava», confida Kapp a chi legge. Il centro abitato però è gradevole, ospita buoni alberghi e caffè con vista panoramica sulla città e molti grandi negozi, che aprono la domenica al termine della funzione religiosa «in riguardo ai numerosi forestieri che volevano comprare»; così, nuovamente, «era una vera processione di pacchi che erano portati a bordo». Tromsø però è più costosa di Hammerfest e c’è una tale richiesta di merci che non sempre i negozianti riescono a rifornirsi tra l’arrivo di un piroscafo e l’altro. Kapp esplora il cimitero, così diverso da quelli italiani, «romantico e ben ideato: una parte del bosco, lasciato in tutta la sua natura, è chiusa da uno steccato, e là dentro, sotto gli alberi, senza speciale disegno, sono sparse le tombe, e dei banchi dove i visitatori possono sedere in compagnia dei loro cari dipartiti».

Tromsø, 1900

Kapp, Türr e Lombardo incontreranno la popolazione Sami, accompagnata dalle immancabili renne, nello stesso “villaggio” attrezzato per le visite turistiche. Come abbiamo visto negli articoli dedicati alle loro esperienze, tutte e tre le autrici esprimono opinioni stereotipate, in linea con i pregiudizi del tempo che sostengono l’inferiorità di questo popolo.

Diverse viaggiatrici soggiornano a Trondheim, l’antica Nidaros, capitale del cattolicesimo medievale scandinavo, ma quasi tutte si limitano solo a nominarla; la città invece riporta Lombardo in patria: «troviamo la piazza del mercato piena di frutta e di erba che par d’essere in Italia, troviamo i giornali dei nostri paesi e la posta allo sportello di un bell’edifizio in muratura». La Riforma, afferma, aveva danneggiato la cattedrale di Trondheim «più di tutti gli incendi. Tutto rubò, tutto disperse buttando in mare anche gli ex-voto». Ciò nonostante, la sua solenne bellezza le appare «un miracolo», a differenza delle altre chiese protestanti che, spoglie come sono, somigliano piuttosto a dei cottage e non presentano «nessun interesse né mistico né religioso». Tuttavia, come sempre quando confronta l’Italia e la Norvegia dal punto di vista artistico, il suo paragone è tanto impietoso quanto non supportato da motivazioni logiche: Trondheim le ricorda Assisi, ma nella cattedrale umbra «c’è più arte e spirito religioso», anche se «bisogna essere indulgenti e non venire a cercare l’arte qui, noi italiani specialmente», concede l’autrice prima di concludere sbrigativamente: «non mi pare che questo popolo possegga altri tesori d’arte all’infuori di quelli naturali».

***

Articolo di Rossella Perugi

Laureata in lingue a Genova e in studi umanistici a Turku (FI), è stata docente di inglese in Italia e di italiano in Iran, Finlandia, Egitto, dove ha curato mostre e attività culturali. Collabora con diverse riviste e ha contribuito al volume Gender, Companionship, and Travel-Discourses in Pre-Modern and Modern Travel Literature. Fa parte di DARIAH-Women Writers in History. Ama leggere, scrivere, camminare, ballare, coltivare amicizie e piante.

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