Per comprendere fino in fondo la genesi della recente opera di Edith Bruck, edita nel 2021 da La nave di Teseo, si deve partire dalle pagine conclusive nella Nota al testo. In queste righe commoventi e sincere l’autrice spiega l’urgenza di lasciare un’ulteriore testimonianza della sua vita di sopravvissuta ai lager polacchi e tedeschi, ormai una delle pochissime viventi. Le era infatti accaduto, certo per l’avanzare dell’età, essendo nata nel 1931 in un remoto paesino ungherese, di non sentirsi più totalmente lucida, di aver avvertito qualche sintomo di progressiva dimenticanza, di avere difficoltà a leggere e scrivere a causa di una malattia agli occhi. Ha deciso allora di fissare definitivamente su carta quel «lungo cammino, che sembra una favola nella selva oscura del Novecento, con la sua lunga ombra nera nel terzo millennio». Così, con l’aiuto di due angeli custodi, Olga ed Eugenio, ha preso vita questo libro necessario che aggiunge tasselli sempre nuovi a quanto credevamo di sapere in ogni suo risvolto, in ogni dettaglio, in ogni orrendo particolare.

L’agile volume si divide in sei capitoli titolati e si conclude con una Lettera a Dio, un messaggio di ricordi e di parole, di riflessioni alte ma anche di fatti quotidiani, di presenze determinanti, come quella materna, e di assenze, come quella di figli o figlie. Una lettera che raggiunge il cuore di chi crede e di chi non crede, scaturita dall’animo dell’ebrea Edith che dunque non ha né il Paradiso né il Purgatorio, ma ha conosciuto bene l’Inferno. Pagine talmente forti che hanno colpito papa Francesco al punto di andare personalmente a incontrarla.
Una sola raccomandazione emerge: Edith chiede al suo Dio che le venga preservata la memoria, il suo «pane quotidiano», perché possa ancora «illuminare qualche coscienza giovane nelle scuole e nelle aule universitarie» dove spesso, finita la sua testimonianza, si trova di fronte a tre domande: se crede in Dio, se riesce a perdonare, se odia chi le fece tanto male.
Il testo si snoda sul filo del ricordo, partendo dal villaggio ungherese di Sei Case in cui nacque in una famiglia povera e numerosa per arrivare alla lunga convivenza con l’amatissimo marito, il poeta, traduttore e regista Nelo Risi (1920-2015). La prima immagine è quella di una bambina bionda che salta e corre scalza, è detta Ditke e a scuola confinata nell’ultima fila, in quanto ebrea, ma è pure molto brava, sveglia e studiosa. La vita scorre con semplicità fra disagi e poco cibo, fra larvate minacce e giochi infantili, finché arriva il 1944 e ci si illude che la guerra stia per finire. Invece, anziché dai russi liberatori, «il ghetto venne invaso da stormi di corvi neri, armati, con sembianze umane». Sta per iniziare l’orrore, che condivide con la sorella Judit, diventando il numero 11152. Birkenau, Auschwitz, la perdita della mamma, la tentazione del suicidio, il trasferimento in Germania, a Dachau, dove accadono anche piccolissimi miracoli: una gavetta da pulire, qualche buccia da rubare, un cuoco rimasto umano, finché le poche sopravvissute a pidocchi, fame, dissenteria sono costrette a un nuovo spostamento, questa volta a Kaufering, quindi a Landsberg, infine a Bergen Belsen. Ma l’odissea prosegue fino a una specie di castello, un luogo stranissimo: Kristianstadt, dove non ci sono torrette né svastiche, e si mangia pure una brodaglia calda. Una marcia estenuante di cinque settimane, come in un allucinante gioco dell’oca, riporta le sorelle stremate a Bergen Belsen dove il campo maschile è pieno di cadaveri. Il 15 aprile 1945 la svolta: al mattino compaiono soldati amichevoli, parlano la lingua inglese e sono americani, qualcuno pure ebreo come loro. Inizia la nuova vita e si riprendono i contatti fra fratelli e sorelle, fino alla partenza animata da tante speranze alla volta di Israele.
È giunto il momento di fare una riflessione: questo libro appartiene al genere della memorialistica, è vero, ma si avverte in ogni rigo, in ogni frase la stoffa non soltanto della cronista, ma piuttosto della scrittrice di narrativa, autrice di racconti, poesie e romanzi. Chi ti ama così è la sua prima opera, una autobiografia, pubblicata nel 1959, a cui segue nel 1962 Andremo in città, una raccolta da cui il marito trasse lo spunto per il film omonimo; e ancora un susseguirsi di pregevoli lavori, fra ricordi e immaginazione: Le sacre nozze, Lettera alla madre, Nuda proprietà, Privato, La donna dal cappotto verde, La rondine sul termosifone, Ti lascio dormire, fino a Sono Francesco, scaturito dopo gli incontri privati con il papa, che un giorno del febbraio 2021 bussò alla sua porta.


Da Quanta stella c’è nel cielo, uscito nel 2009, il regista Roberto Faenza ha tratto il film Anita B. Se è vero che è stata, e continua a essere, una instancabile testimone della Shoah, è pure una grande penna che ha ottenuto numerosi premi letterari e lusinghieri riconoscimenti per la sua vasta produzione. Ha tradotto dall’ungherese, è stata sceneggiatrice e regista a sua volta, nonché attiva in ogni campo della scrittura e della cultura in genere. Ma vedremo, scorrendo l’opera di cui stiamo parlando, che ha svolto pure mestieri quanto mai sorprendenti.
Nuovo Paese, nuovi incontri, qualche amore e un matrimonio affrettato e presto finito; intanto Edith impara l’ebraico e prende il diploma di cameriera; si ingegna con mille lavoretti e scrive, scrive in ogni pausa, mentre teme di dover affrontare il servizio militare obbligatorio. Viene allora organizzato un originale stratagemma: un nuovo matrimonio, ma fittizio, con conseguente rapido divorzio e “fuga” verso la Grecia con una compagnia di balletto piuttosto raccogliticcia. «Non capivo bene cosa potevo fare, ma mi pareva qualcosa di favoloso. Vedere Atene, viaggiare, ballare, un sogno». È giovane, carina, sa muoversi con scioltezza visto che ama la danza fino da piccola, anche se per sorelle e fratelli è ormai «una persona perduta, una ballerina!».
«Forse la ballerina più triste che il pubblico di Atene avesse visto su un palcoscenico, con tre musicisti ebrei, grigi […]. E noi quattro con l’aria di sopravvissute volteggiavamo nei costumi lunghi, larghi, bianchi sul bianco […]». La tournée prosegue a Istanbul dove Edith addirittura ha un numero tutto suo e canta in inglese; notata da un impresario, finisce di nuovo in Europa, a Zurigo, con la prospettiva di raggiungere Napoli. È quasi un ritorno alle origini, ma Edith ancora ignora ciò che un destino finalmente benigno ha in serbo per lei. Appena arrivata pensa: «Ecco […] questo è il mio Paese». Il sole, il mare, il clima, le persone sorridenti; la pensioncina dove alloggia le sembra un piccolo paradiso, l’esibizione in un giardino fiorito nel maggio mediterraneo è un successo, intanto comincia ad apprendere la lingua, iniziando da “ciao” e dai numeri uno, due, tre che, pensate che fatto curioso, le insegna Ugo Tognazzi, per poi arrivare a cantare e scrivere in italiano, quella che diventerà la sua lingua di elezione. L’Italia del dopoguerra è tuttavia ancora all’antica, con una mentalità largamente tradizionale: il suo bikini (assai apprezzato dai giovanotti) non è accettato e viene cacciata dalla spiaggia dalla polizia! Ma i progressi continuano, avviene un ulteriore spostamento, questa volta verso Roma: la culla dell’umanità, il centro del mondo, dove per un po’ fa la turista affascinata da tanta bellezza.
Un giorno, dopo aver preso lezioni sia di inglese che di grammatica italiana, le viene spontaneo scrivere sul suo fedele quaderno le prime frasi: «Sono nata in un piccolo villaggio ungherese…». Conoscendo ormai varie lingue, fra cui il tedesco e un po’ di francese, bionda e graziosa com’è, le si apre una nuova inaspettata carriera, che pure chi ama i libri di Bruck e ne conosce le più tristi vicende probabilmente ignora: è assunta come direttrice di un istituto di bellezza nell’elegante via Condotti dove passano nobildonne, dive e uomini di spettacolo, che di lei e del suo passato non sanno nulla. C’è chi si meraviglia che sorrida poco… a cominciare dall’arrogante e detestabile signora G., la titolare. Ma la vita di Edith sta per affrontare la svolta definitiva: per caso, in un ristorantino dove talvolta mangia con la famiglia del proprietario, incontra un gentile signore con il quale avverte una sintonia istantanea.
Impossibile riassumere le ultime quattro pagine: vanno lette con commossa partecipazione le parole d’amore, gratitudine, meraviglia dedicate a Nelo Risi, da quel momento legato a lei in maniera indissolubile, «fino al suo ultimo fiato fra le mie braccia». Dopo il matrimonio celebrato in Campidoglio, ognuno riprende la sua vita e le sue molteplici occupazioni: lui dedito alla poesia, ai film, ai documentari, lei alla narrativa, al giornalismo, alla tv, ai viaggi per diffondere la sua testimonianza di sopravvissuta, per cui avrà sempre la nostra riconoscenza. Bellissima la conclusione del libro che non va anticipata e che riporta come un sogno all’inizio, completando un intero cerchio, quello di una vita dedicata a una vera e propria missione: raccontare anche per chi non ce l’ha fatta a risorgere dalle tenebre e rendere consapevoli le generazioni presenti e future.

Edith Bruck,
Il pane perduto,
La nave di Teseo, Milano, 2021
pp. 128
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Articolo di Laura Candiani

Ex insegnante di Materie letterarie, dal 2012 collabora con Toponomastica femminile di cui è referente per la provincia di Pistoia. Scrive articoli e biografie, cura mostre e pubblicazioni, interviene in convegni. È fra le autrici del volume Le Mille. I primati delle donne. Ha scritto due guide al femminile dedicate al suo territorio: una sul capoluogo, l’altra intitolata La Valdinievole. Tracce, storie e percorsi di donne.