Ecologia della misericordia 

La nona lezione del corso di eco-teologia del Cti è presentata dalla professoressa Stella Morra, docente presso la Pontificia Università Gregoriana e direttrice del Centro Fede e Cultura Alberto Hurtado, nonché attivista dell’Azione Cattolica Italiana. 

In comune-per un’ecologia della misericordia è il titolo scelto per la lezione, un’espressione che sa di slogan: cosa possono avere in comune i temi dell’ecologia con un termine spirituale come “misericordia”, e che vuol dire “in comune”? Può non essere immediatamente intuibile, ma la riflessione riguardo le nostre vite e il nostro essere fa emergere come questi tre temi si intreccino con naturalezza. Wisława Szymborska, poeta polacca Premio Nobel per la letteratura nel 1996, lo mostra molto bene: famosa per le sue poesie fatte di poche semplici parole che evocano ampi temi esistenziali partendo da punti di vista inusuali, Szymborska affronta questioni etiche che riflettono sulla condizione della persona sia come individuo che come parte di una società. La professoressa Morra cita nella sua lezione Nella moltitudine: «Sono quella che sono./ Un caso inconcepibile. Come ogni caso./ In fondo avrei potuto avere/ altri antenati,/ e così avrei preso il volo da un altro nido,/ così da sotto un altro tronco/ sarei strisciata fuori in squame./Nel guardaroba della natura/ c’è un mucchio di costumi:/di ragno, gabbiano, topo campagnolo./Ognuno calza subito a pennello/e docilmente è indossato/ finché non si consuma./Anch’io non ho scelto,/ma non mi lamento./ Potevo essere qualcuno/ molto meno a parte./ Qualcuno d’un formicaio, branco, sciame ronzante,/ una scheggia di paesaggio sbattuta dal vento./ Qualcuno molto meno fortunato,/ allevato per farne una pelliccia,/ per il pranzo della festa,/ qualcosa che nuota sotto un vetrino./ Un albero conficcato nella terra,/ a cui si avvicina un incendio./ Un filo d’erba calpestato/ dal corso di incomprensibili eventi./ Uno nato sotto una cattiva stella,/ buona per altri./ E se nella gente destassi spavento,/ o solo avversione, o solo pietà?/ Se al mondo fossi venuta nella tribù sbagliata/ e avessi tutte le strade precluse?/ La sorte, finora, mi è stata benigna./ Poteva non essermi dato/ il ricordo dei momenti lieti./ Poteva essermi tolta/ l’inclinazione a confrontare./ Potevo essere me stessa – ma senza stupore,/ e ciò vorrebbe dire qualcuno di totalmente diverso».

Madonna della Misericordia, Piero della Francesca

L’essere nella moltitudine: un tema sentito come urgente tanto quanto è forte il dolore che evoca. L’Occidente ha molto insistito sull’individualismo e sul valore del singolo, ma questa unicità non può mai essere completamente scissa dall’essere una singolarità in mezzo ad altre singolarità con cui si interagisce quotidianamente, parte del Creato. La riflessione sui temi proposti deve quindi essere sulle relazioni che ci collegano come individui alla moltitudine e al Creato: non affermare la propria identità, ma essere consapevoli della nostra vulnerabilità e come questa influenza la nostra relazione con il mondo esterno. Bisogna quindi cominciare da quell’ “in-comune” per una riflessione ecologica efficace: non un semplice gesto di condivisione, ma un riconoscersi come non bastarsi che necessita degli altri e delle altre per poter andare avanti. Un punto di vista che le donne, soggetto storicamente riconosciuto come non centrale e che quindi non ha mai sviluppato una narrativa propria del potere, a volte non sanno usare positivamente per farne un qualcosa di produttivo per tutte/i; perché partire, quindi, da una prospettiva così articolata? Bisogna innanzitutto cominciare a “sentire” il sentimento prima ancora di avergli dato un nome, che viene evocato quando si parla di Natura e derivanza dalla consapevolezza della “non scelta”: non siamo stati/e noi ad aver scelto di essere nati e nate in un determinato luogo e in un determinato momento storico e in una determinata condizione. La nostra cultura, che tendiamo a pensare come immutabile, altro non è che un prodotto del caso esattamente come noi. Che relazioni possono instaurarsi in un’esistenza in queste condizioni? Si dovrebbe preferire il difendere i privilegi di cui siamo state/i casualmente investite/i, o annullarci nella nostra unicità e disperderci nel nostro dato culturale? Questa decisione impatta il come vogliamo vivere nel mondo, la riflessione sull’eco-teologia delle donne ci mostra come l’essere “in comune” nella moltitudine diventa possibilità di delinearsi secondo la formula della misericordia. 

Facciamo adesso un breve passo indietro e illustriamo come l’essere “in comune” ha sempre fatto parte della nostra storia. La triade pubblico-privato-comune è stata alla base dell’essere associati fin dal Neolitico: tra alti e bassi, il mantenimento di un equilibrio tra la sfera pubblica e quella privata all’insegna della comunità ha permesso di organizzarci una volta che la nostra specie è divenuta stanziale e di assegnare specifici ruoli a ogni essere e creare istituzioni funzionanti. Questo paradigma resiste fino all’ XI-XII secolo, quando beni comuni messi a disposizione di tutte e tutti – prati per pascolare, foreste per la legna, terreni da coltivare a turnazione, pozzi da cui prelevare l’acqua – iniziano a essere recintati da alcuni individui o gruppi, che chiedono un pagamento per usufruire di quanto era prima a disposizione di chiunque. Lo sviluppo economico occidentale comincia a prediligere il rapporto pubblico-privato a scapito del senso di comunità e, mentre vengono approvate leggi che distruggono l’”in comune”, si diffonde un senso di impotenza nel vedere il privato crescere a dismisura, con grandi soggetti internazionali in grado di influenzare le scelte dei governi e della politica, e il pubblico diventare sempre più inefficiente. La Rivoluzione francese fa del singolo soggetto colui che è costituito nel privato e può quindi accedere al riconoscimento pubblico – non in senso universale: per esempio, dal diritto di voto erano escluse le donne e tutti coloro che non erano considerabili cittadini francesi, che diventano quindi istituzionalmente inesistenti e spesso usati come capro espiatorio. L’essere “in comune”, la loro unica forma di tutela che permette di accedere a condizioni di vita dignitose per il solo fatto di essere una creatura umana bisognosa di aiuto, non viene mai neanche nominato durante i difficili anni della Rivoluzione, né nei decenni successivi. Per recuperarlo bisogna partire proprio da queste e questi inesistenti, donne e uomini che a causa della loro posizione al di fuori della sfera pubblica e privata sono gli unici che ancora vedono un valore nell’essere “in comune”, hanno interesse e necessità a preservarne la memoria e a diffonderla e tramandarla.

Come entra la misericordia, un termine così legato al mondo spirituale, inverificabile e fortemente connesso alla soggettività individuale, in questo processo? Innanzitutto, la misericordia evangelica è inevitabilmente connessa al Padre, e nella Chiesa è una vera e propria categoria, l’architrave della sua stessa esistenza, un dato strutturale a causa della quale accade un certo modo di sperimentare quella comunità che è la Chiesa, configurandone la forma politica e istituzionale all’insegna della vulnerabilità, intesa non come fragilità ma come consapevolezza di quanto noi umani siamo sia feribili che in grado di ferire, di aver bisogno di aiuto quanto possiamo aiutare. La misericordia si lega al potere, modificandone lo scopo delle relazioni che instaura: dalla supremazia dove uno o una comanda sulla moltitudine ai legami comunitari di mutuo soccorso, dove si estende o si accetta una mano che permette di portare allo stesso livello degli altri e delle altre. Si passa quindi da una relazione di potere univoca ed esclusiva a biunivoca ed inclusiva. «Nessuno si salva da solo»non è da intendere come un’espressione sentimentale, ma come un vero e proprio dato strutturale. Lo scopo della misericordia non è la dominazione, la vittoria di uno scontro, o il dimostrare la propria bontà e la capacità di amare, ma di sperimentare l’essere amate/i, l’accettare che siamo degne/i di affetto e aiuto non nonostante ciò che siamo ma a causa di esso. Del resto, nessuna persona si crede davvero degna di amore incondizionato, e questa realizzazione può spiazzare e causare sentimenti contrastanti, anche se ciò proviene da Dio che ci ha dimostrato ancora e ancora quanto il suo amore per noi sia svincolato e infinito. 

Miniatura che mostra Misericordia e Verità, XIII secolo

Cosa vuol dire, quindi, “ecologia della misericordia” e come è integrabile in quanto detto fino ad ora? Si noti che “economia” ed “ecologia” hanno la stessa radice, indicante la “forma del comune della casa”, la “legge della casa”. Per riprodurre l'”in comune” non bastano i buoni propositi e sentimenti, ed è impensabile tornare all’economia che ha preceduto la sua caduta: bisogna partire dalle parole, dalla legge che impedisce il dominio dell’uno sull’altro e che aiuti a ritrovare le forme del senso di comunità. Certo, un processo di innata complessità: come la parola plexus da cui “complessità” deriva indica nodi e aggrovigliamenti difficili da districare, così noi dobbiamo immetterci nella strada che ci permetterà di ritrovare un’economia dove le relazioni sono all’insegna della misericordia. Il primo passo va fatto nel re-immaginare i nemici pubblici, gli inesistenti, coloro che conservano ancora un desiderio, per necessità, dell'”in comune”. Le donne sono storiche antagoniste pubbliche, chiamate a fare esercizi di immaginazione per il bene comune e ancora oggi possono offrire il loro prezioso contributo, senza alcuna semplificazione che non tenga conto della complessità del mondo di oggi, che ignori il realismo economico di necessità e sostentamento, pena l’impossibilità di realizzare le proprie proposte, o di crearne di troppo generiche. A loro spetta, poi, riassemblare il sociale: il filosofo Bruno Latour scrive che è oggi difficile immaginare un “noi” che non sia limitato a ciò che ci riguarda direttamente. È solo tramite una paziente e lenta ricucitura del tessuto sociale che possiamo ritrovare un “noi” nella moltitudine, nella misericordia, nell’economia ecologica. 

La professoressa Morra cita poi un’altra poesia, stavolta di Mariangela Gualtieri, intitolata Bambina Mia, che chiude la sua lezione con un senso di speranza: «Bambina mia,/ per te avrei dato tutti i giardini/ del mio regno, se fossi stata regina,/ fino all’ultima rosa, fino all’ultima piuma./ Tutto il regno per te./ E invece ti lascio baracche e spine,/ polveri pesanti su tutto lo scenario/ battiti molto forti/ palpebre cucite tutto intorno./ Ira nelle periferie della specie./ E al centro,/ ira./ Ma tu non credere a chi dipinge l’umano/ come una bestia zoppa e questo mondo/ come una palla alla fine./ Non credere a chi tinge tutto di buio pesto e/ di sangue. Lo fa perché è facile farlo./ Noi siamo solo confusi, credi./ Ma sentiamo. Sentiamo ancora./ Sentiamo ancora. Siamo ancora capaci/ di amare qualcosa./ Ancora proviamo pietà./ Tocca a te, ora,/ a te tocca la lavatura di queste croste/ delle cortecce vive./ C’è splendore/ in ogni cosa. Io l’ho visto./ Io ora lo vedo di più./ C’è splendore. Non avere paura./ Ciao faccia bella,/ gioia più grande./ L’amore è il tuo destino./ Sempre. Nient’altro./ Nient’altro. Nient’altro».

***

Articolo di Maria Chiara Pulcini

Ha vissuto la maggior parte dei suoi primi anni fuori dall’Italia, entrando in contatto con culture diverse. Consegue la laurea triennale in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale e la laurea magistrale in Storia e società, presso l’Università degli Studi Roma Tre. Si è specializzata in Relazioni internazionali e studi di genere. Attualmente frequenta il Master in Comunicazione storica.

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