Essere o non essere America? Questo è il problema, parafrasando Shakespeare.
Mentre i media italiani sono concentrati sulla cronaca quotidiana della guerra in Ucraina, con servizi sempre uguali a sé stessi, che sembrano racconti di cronaca nera, senza mai interrogarsi sulle cause di questo conflitto e sulle ragioni delle posizioni degli attori coinvolti, Limes di dicembre approfondisce la crisi d’identità degli Stati Uniti, di cui in Italia quasi nessuno parla, crisi tutta interna a un popolo, composto in buona parte da europei che si trovano in uno Stato che è «un paese inventato», come ricorda l’articolo di apertura della prima parte, Usciremo più forti dalla tempesta, in cui Limes intervista George Friedman, uno dei più esperti analisti di geopolitica. Partire dalla cartina più nota degli States, quella in cui gli Stati federati sono indicati con i colori rosso e blu, è un modo superficiale di esaminare le divisioni interne allo Stato che si è assunto la guida del mondo. Gli Stati Uniti d’America, come ricorda Lucio Caracciolo nel suo editoriale Lezioni di Yoda «sono impero di tre imperi. Il primo è il nucleo statale dilagato nel continente nordamericano dall’Atlantico al Pacifico. Il secondo è l’Occidente: the West, che comprende NordAmerica, Europa atlantica, Oceania, Giappone, Corea del Sud e minori Asie […] per affinità strategiche, economiche e istituzionali (liberaldemocrazia più rule of law). Il terzo è metafisico: la missione che Dio ha affidato all’eletta «Comunità altruistica» – l’«unselfish Commonwealth» cantata nel 1916 da Woodrow Wilson, presidente e sacerdote dell’America in uscita – affinché redimesse l’umanità dai suoi peccati». Di questa sua missione l’America dubita, sconvolta da faglie interne che il numero 11 di Limes indaga in profondità e che noi, in quanto Paese satellite, dovremmo essere fortemente interessati a conoscere. La prima parte della rivista, che esaminerò in questo articolo, si intitola Nell’occhio del ciclone.

Ricco, articolato e documentatissimo su questo punto è il saggio, Fiamme sulla collina. L’America in crisi assedia sé stessa di Federico Petroni, che ha anche curato questo numero della rivista. La crisi di identità americana è uno dei fenomeni meno comprensibili e più ignorati dei nostri tempi. L’ha intercettata Putin, che si è sentito libero di iniziare «l’operazione di denazificazione dell’Ucraina», ma a cui non pare essere andata molto bene. «È in corso una lotta all’interno del ceppo bianco dominante per ridefinire il canone nazionale, cioè chi è americano e che cosa vuole dire esserlo. È in ballo il rapporto tra governo federale e Stati federati, che pretendono più potere e di smantellare lo Stato amministrativo […] Le élite sono sempre più distanti e inaccessibili al resto della popolazione, da queste disprezzato. Crolla la fiducia nelle istituzioni centrali, inadatte a gestire l’aumento della complessità». Fin dal 1991 il sociologo David Davison Hunter ha formulato la teoria della culture war, utile a comprendere quanto sta accadendo: «la linea di faglia fondamentale tra gli americani non è etnica, di censo, ideologica o partitica; riguarda «visioni del mondo» opposte, «sistemi competitivi di comprensione morale». E visto che l’America si concepisce come mondo e come progetto morale, lo scontro verte su idee opposte d’America. «Non è impossibile parlare a qualcuno che non condivide lo stesso linguaggio morale?» Si litiga sull’aborto, sulla religione, ci si arma in modo spropositato (in America ci sono più fucili che persone e tra queste molte donne); «gli Stati sono diventati i fortini degli opposti modi di intendere la propria vita e l’America» e diventano i luoghi in cui si affermano, in contrapposizione allo Stato federale, sempre più indebolito, le diverse identità.

Come ricorda Caracciolo le divisioni sono tante: tra campagne e metropoli, nativisti/e e multiculturalisti/e; credenti/atei/e o agnostici/he (questi/e ultimi/e sono già un terzo della nazione in cui la religione ha da sempre avuto un ruolo fondamentale); bianchi/e e neri/e o variamente colorati/e; armi per tutti/e o per autorizzati/e; aborto vietato o libero; tasse lasche (nulle) o incisive. Nel Sud trumpista crescono i giovani, nel Nord-Est gli anziani. Senza dimenticare il rancore della classe media impoverita e umiliata dalle élite. Maronta nel suo saggio riferisce che «solo nell’ultimo decennio circa cento milioni di americani (quasi uno su tre) hanno cambiato luogo di residenza, spostandosi magari di centinaia o migliaia di chilometri dentro il paese. Molti travasi ci sono stati dalla California al Texas e viceversa. Il Covid ha scoperchiato le tensioni e ha favorito la discordia civile. Lungi dal favorire sempre il melting pot ideologico, però, questo rimescolamento ha determinato una crescente «(auto)ghettizzazione» in comunità tendenzialmente omogenee sotto il profilo politico e valoriale. Perché se dalle origini e ancora per buona parte del Novecento gli americani (e gli immigrati che aspiravano a diventarlo) si spostavano soprattutto per ragioni economiche, oggi sovente ci si sposta per inseguire uno «stile di vita». E con tale espressione si intende un determinato ambiente culturale e politico che si condivide e in cui si vedono affermati i propri valori. Dagli anni Ottanta e Novanta cominciano a fiorire le gated communities, col risultato opposto a quello auspicato dai fondatori: «un paese in cui ci si sceglie i vicini e in cui la tendenza all’agglutinamento selettivo acuisce le disparità socioeconomiche, posto che il profilo politico e valoriale va spesso di pari passo con i livelli d’istruzione e di reddito, nonché con l’elemento etnico». Confermando l’importanza geopolitica del fattore umano, Maronta riporta che il Census Bureau ha registrato una diminuzione del numero assoluto di americani che si identificano come bianchi. Tutta la crescita demografica del decennio 2010-20 è attribuibile a ispanici, neri, asiatici, nativi delle Hawaii e nativi americani e a quanti si ascrivono alla categoria «two or more races». «Molti bianchi statunitensi, specie se di bassa estrazione socioeconomica – continua Maronta – assistono alla trasformazione di un paese in cui sino a ieri si percepivano (non a torto) egemoni con un misto di smarrimento e frustrazione. Limitarsi a additarli, come i democratici hanno fatto da Clinton in poi, quali retrogradi che si attardano sul lato sbagliato della storia non fa che accentuarne rabbia e insicurezza. Aggiungendo vento ai venti impetuosi che spazzano l’America». I sondaggi, ricorda Petroni, mostrano la forte contrapposizione e la sistematica distorsione dell’immagine reciproca fra gli elettori repubblicani e democratici: l’altro diventa ricettacolo di tutti i mali. I matrimoni tra repubblicani e democratici sono enormemente diminuiti. Secondo il giornalista Tim Alberta dopo la pandemia la clientela dei compratori di armi si è allargata e comprende donne con figli al seguito, elettori democratici, neri, ispanici, asiatici. Di qui alla violenza il passo è breve, anche perché i due gruppi di elettori si guardano in cagnesco e temono di essere aggrediti.

Fondamentale per capire il Midwest, con un excursus storico indispensabile per noi europei/e è l’approfondimento di Giuseppe Mariotto. Secondo lo U.S. Census Bureau dovrebbe includere Illinois, Indiana, Iowa, Kansas, Michigan, Minnesota, Missouri, Nebraska, North Dakota, Ohio, South Dakota e Wisconsin, ma in questo caso la geografia non aiuta e i suoi confini sono molto più fluidi. Da cuore dell’identità americana, modellata sulle caratteristiche del popolo tedesco che l’aveva abitato, oggi il Midwest sta declinando e si sente ferito. Nello stesso tempo ha al suo interno moltissime divisioni. Completamente diversa è la California, Stato progressista per eccellenza, il più popoloso d’America, che ha costruito una politica fondata sui suoi valori fondamentali in numerosi ambiti, tra cui «il clima, l’assistenza sanitaria, la sanità pubblica, l’istruzione, l’immigrazione, la povertà, l’aborto, la scelta sul fine vita, i diritti Lgbtq, la giustizia penale, il possesso di armi, la tassazione, il lavoro…» La California vorrebbe plasmare tutti gli altri Stati: ha ottenuto un successo notevole nell’emergente economia della conoscenza (knowledge economy), ha promosso l’innovazione, ha prodotto benessere ed è stata apripista nella transizione green e nell’ampliamento dell’accesso all’assistenza sanitaria. Ma in California il costo della vita è eccessivo, il numero di californiani in condizione di povertà è superiore a quello dei residenti di qualsiasi altro Stato, oltre 100 mila persone vivono per strada, nei parchi o sotto i ponti. La criminalità è in aumento. Il livello d’istruzione rimane molto basso. Molti residenti se ne vanno, non solo per l’alto costo della vita, ma anche perché non condividono l’utopia blu che l’economia ha intrapreso. Resta il fatto che il Golden State è da molto tempo leader nella lotta al cambiamento climatico e su questo tema ha influenzato anche la politica federale.

Interessantissima la testimonianza di Matt McCaw, portavoce del movimento Move Oregon’s Border, che vuole spostare il confine dell’Oregon ed entrare a far parte dell’Idaho, perché le due parti dell’Oregon sono profondamente diverse. È stata la pandemia a inasprire i rapporti tra la parte orientale e la parte occidentale di questo Stato. In Oregon le misure restrittive sono state poco tollerate e si è guardato a quelle dell’Idaho, molto più lasche, come a quelle rispettose della libertà dell’individuo e dell’economia, soprattutto per quella parte di popolazione insofferente all’invadenza dello Stato nella sfera personale, sociale ed economica. Per rendere l’idea di quanto siano differenti le due parti di questo Stato, in modo però non diverso dalle diverse parti di altri Stati federati, riporterò una parte dell’intervista a Matt McCaw. A proposito di istruzione: «Quando si tratta di istruzione pubblica i cittadini dell’Oregon orientale preferiscono quella fornita nelle scuole dell’Idaho. Lì i bambini sono educati a una visione più tradizionale della storia americana, priva di cose come la teoria critica della razza (critical race theory). Inoltre, in Idaho non è obbligatoria alcuna educazione sessuale» A proposito delle droghe: «nel novembre 2020 lo Stato dell’Oregon ha emanato la Ballot Measure 110, che ha legalizzato il possesso di droghe pesanti. Portare con sé metanfetamina, cocaina o eroina non è più considerato un crimine. Risolve forse i problemi delle grandi città, ma gli abitanti dell’Est temono che ciò possa danneggiare la loro comunità. Non è un caso che tutte le contee dell’Oregon orientale abbiano votato in modo schiacciante contro la proposta. Però Portland ha i numeri dalla sua parte ed è riuscita comunque a imporre questa decisione». A proposito delle armi: «C’è anche un’altra proposta in programma, la Ballot Measure 114, che prevede la creazione di un registro per le persone che acquistano armi da fuoco. Tale provvedimento è fatto su misura per un contesto urbano, mentre noi orientali siamo abituati fin da piccoli a convivere con le armi, amiamo andare a caccia e pensiamo che le restrizioni siano inaccettabili. Siamo tuttavia costretti a subire, senza avere voce in capitolo. Non so se spingermi ad affermare che siamo minacciati dall’Oregon occidentale, ma sicuramente Portland ha il potere di imporre decisioni che riteniamo contrarie al nostro stile di vita. Lo spostamento del confine è la soluzione più sensata per tutti. Ogni parte dello Stato otterrebbe così il tipo di governo desiderato dalla maggioranza dei suoi residenti». Ogni articolo di questa parte della rivista è estremamente interessante e racconta la genesi dei diversi Stati, il Texas, con la sua storia tormentata, la Pensylvania, Stato chiave e la Georgia, recentemente conquistata dai democratici, ma che ha nel suo grembo il movimento secessionista del Buckhead.

Particolarmente interessante l’approfondimento di Nicolas Lo Zito, Guerra sul Colorado River, che i geologi chiamano il Nilo d’America, per la sua capacità di attraversare oltre duemila chilometri trasformando il paesaggio e aiutando lo sviluppo della civiltà e di cui i nativi, che lo sfruttano da ottomila anni, considerano le acque sacre perché Tó éí iiná, l’acqua è la vita. Diverso è lo sguardo statunitense sul fiume, attraversato da una siccità che dura da 23 anni e che inasprisce le faglie tra i diversi Stati che il Colorado River attraversa.
Due voci in controtendenza minimizzano quanto sta accadendo in America rispetto ai toni apocalittici di molti libri sul declino americano che pullulano in questi mesi negli Usa. La prima è quella di George Friedman, analista politico che abbiamo imparato a apprezzare leggendo Limes. Secondo l’autore del libro The storm before the calm, che prende ispirazione nel titolo, capovolgendolo, da Leopardi, gli americani devono costantemente reinventarsi e questa crisi ne rappresenta l’occasione: «Abbiamo inventato il nostro regime, il nostro popolo, la nostra tecnologia, persino il significato della geografia nordamericana. Per via dell’immigrazione e della vastità del nostro territorio, conteniamo un altissimo tasso di diversità. Perciò non siamo mai davvero in pace con noi stessi. È una caratteristica strutturale dell’essere americani. Siamo una nazione che abbraccia il caos e vive nel caos. In patria come all’estero, rispondiamo a un principio: ciò che è deve essere migliorato. Eppure, ogni volta che un ciclo arriva all’esaurimento, accadono due cose: ci disperiamo convinti che tutto stia per crollare ma poi riemergiamo più forti di prima. Andrà così anche stavolta […] Il sogno americano non ha mai promesso pacifica armonia.». Friedman ricorda poi, col tono patriottico che lo contraddistingue, la devozione del popolo americano per le persone in uniforme e la consuetudine per cui negli eventi sportivi è frequente l’omaggio al veterano, oltre a quella per cui i primi a essere imbarcati su un aereo di linea negli Usa sono i militari. L’intervista procede su altri temi con risposte tutte interessanti, risposte in cui non si sottolinea mai abbastanza come oggi il popolo americano, diversamente da quello europeo, non si senta minacciato dagli avvenimenti internazionali, ma da altri connazionali. E non teme nessuna guerra, tranne quella che implichi la presenza di forze straniere sul territorio statunitense, evento improbabile perché implicherebbe l’attacco dagli oceani. Ma l’America è potenza marittima appoggiata da un popolo fortemente militarista.

L’altra voce in relativa controtendenza è quella del prof. Buckley, autore del libro Unrivaled, (Senza rivali) che, alla domanda dell’intervistatore se gli Usa siano ancora un impero fa questo ragionamento, tendendo a valorizzare quanto fatto di buono dagli americani nella storia: gli Stati Uniti sono un impero «perché nell’esercizio del loro potere hanno cambiato radicalmente non solo la postura internazionale ma anche la politica interna di molti paesi. L’egemonia statunitense ha influenzato radicalmente il modo in cui le nazioni tipicamente si comportano. Alcune, ad esempio, non sono più del tutto indipendenti. Il Giappone dovrebbe possedere un grande esercito, invece ha posto un limite al suo sviluppo militare perché gli Stati Uniti lo hanno inglobato all’interno delle loro garanzie di sicurezza. Lo stesso principio vale per le potenze europee: si sono militarizzate, espanse e distrutte a vicenda per secoli, fino a quando non si sono riunite sotto l’ombrello securitario della Nato. Spesso si considera l’impero un concetto moralmente terribile e certamente vi sono aspetti negativi in quello americano. Tuttavia, ve ne sono anche di positivi. Per esempio, il sistema di alleanze che Washington ha creato ha ridotto la probabilità di conflitti in regioni chiave del mondo e ne ha permesso la pacificazione». Una serie di considerazioni oggettive su cui riflettere, con l’atteggiamento di ogni studioso di geopolitica, che si mette in ascolto delle diverse voci.
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Articolo di Sara Marsico

Ama definirsi un’escursionista con la e minuscola e una Camminatrice con la c maiuscola. Docente per passione da poco in pensione, è stata presidente dell’Osservatorio contro le mafie nel sud Milano e referente di Toponomastica femminile nella sua scuola. Scrive di donne, Costituzione e cammini.