Un esercizio di cittadinanza attiva per la parità

In occasione delle ultime consultazioni elettorali è capitato a molte donne sposate di constatare, purtroppo per l’ennesima volta, che sulle liste elettorali, diversamente da quanto riportato sulla carta di identità e a volte sulla stessa tessera elettorale, viene indicato, accanto al proprio, ancora il cognome del marito. Da un’indagine tra le nostre associate abbiamo appreso che le più intraprendenti e informate hanno chiesto ai e alle presidenti di seggio di verbalizzare la loro dichiarazione di protesta per la citazione del cognome del marito nelle liste elettorali, ottenendo reazioni diverse: chi ha dichiarato la propria incompetenza e invitato le elettrici a rivolgersi all’ufficio elettorale del Comune; chi ha accolto la richiesta di verbalizzazione (sulla base del punto 14 delle istruzioni per le operazioni elettorali, a pagina 9, che recita: «Nel verbale deve prendersi nota dettagliata pure di tutte le proteste e i reclami presentati nel corso delle operazioni», concetto riportato anche nelle istruzioni per le operazioni elettorali  delle elezioni regionali); chi ancora ha respinto la protesta sostenendo che nei verbali debbano essere riportate solo questioni relative alla validità dei voti o alle espressioni del voto.

Per capire quanto questa protesta sia importante occorre partire, come sempre, dal testo che è alla base della nostra convivenza civile. Nel 1948, grazie all’impegno della Madri costituenti, la Costituzione italiana proclamò, con l’articolo 29, l’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, («con i limiti posti a garanzia dell’unità familiare») l’applicazione anche all’interno della famiglia del principio fondamentale di uguaglianza affermato nell’articolo 3. Il percorso per la piena realizzazione della «pari dignità sociale» di ogni individuo nella nostra società era iniziato, ma aveva bisogno di una legge che modificasse il diritto di famiglia, regolato dal codice civile del 1942 risalente all’epoca fascista, che stabiliva ancora la potestà maritale del coniuge sulla moglie, la patria potestà sui figli e per le donne coniugate la sostituzione del proprio cognome di nascita con quello del marito.
Ci sono voluti 27 anni per la riforma del diritto di famiglia del 1975, che ha eliminato la potestà maritale e sostituito alla patria potestà la potestà dei genitori; l’articolo 143 bis ha stabilito che, col matrimonio, la moglie non perde il proprio cognome ma aggiunge al suo quello del marito e lo conserva durante lo stato vedovile, fino a nuove nozze. Un ritardo dovuto alla forte connotazione patriarcale della famiglia e della società, e a una classe politica poco attenta ai temi della parità, in spregio della portata innovativa del testo costituzionale.

Nel 2013, in seguito a una nuova riforma di alcuni articoli del diritto di famiglia più rispettosa dei principi costituzionali, è stato superato anche il concetto obsoleto di potestà genitoriale sostituito dall’espressione responsabilità genitoriale, più compatibile con la famiglia delineata dalla Costituzione, informata a criteri di parità e rispetto delle persone.

Nel tempo la disposizione dell’articolo 143 bis del Codice civile, anche se migliorativa, si è rilevata non sufficiente ma non è stata ancora modificata. In Parlamento, anche nella presente legislatura, giacciono da tempo alcune proposte di riforma, mai giunte all’approvazione finale.

Crediamo sia venuto il momento di esercitare la nostra cittadinanza attiva e di incalzare legislatore e amministrazioni a tutela della identità personale e della parità tra uomo e donna, armonizzando ai principi costituzionali anche questo punto per noi fondamentale. Ferma restando la facoltà individuale di ciascuna moglie di chiedere l’eliminazione dalle liste elettorali del cognome del marito accanto al proprio, esaminiamo intanto le fonti del diritto in materia, non dimenticandoci mai che la fonte “superprimaria”, la Madre di tutte le leggi, è la Costituzione.

L’articolo 13 della legge n.120 del 1999 ha introdotto, per l’esercizio del diritto di voto, la tessera elettorale, che ha sostituito il certificato di iscrizione nelle liste elettorali, previsto da una norma del 1947 entrata in vigore prima della Costituzione e mai abrogata. La tessera elettorale, secondo questa legge, deve contenere solo «i dati anagrafici del titolare», senza alcun riferimento all’aggiunta, per l’elettrice coniugata, del cognome del marito. Questa norma, certamente più rispettosa dell’identità personale e del principio di parità, sembrerebbe avere risolto la questione ma, come si sa, ogni legge ha poi bisogno di un regolamento attuativo: nel nostro caso il D.P.R. 299 del 2000 che, all’art.2 comma 2 lettera a, stabilisce, in merito alla tessera elettorale, che questa contiene «nome e cognome dell’elettore», ma per le donne coniugate «il cognome può essere seguito da quello del marito», mostrando di non rispettare pienamente le indicazioni contenute nella legge che va ad attuare. Importante anche tenere presente che la modifica non è estesa ai certificati elettorali e quindi ancora le elettrici residenti all’estero coniugate sono citate con il cognome del marito dopo quello di nascita. La disciplina in materia di tessere, certificati e leggi elettorali, quindi, tratta ancora diversamente marito e moglie nel momento dell’identificazione e anche nella composizione delle liste elettorali, regolata dalla legge n. 223 del 1967, più volte novellata, che prevede che accanto al cognome della donna sposata o vedova sia indicato quello del marito. Ci siamo chieste se questa disciplina sia compatibile con la Costituzione e la Convenzione Europea dei diritti umani. Per farlo abbiamo consultato il documentatissimo articolo di una giurista, Roberta Lugara “Il cognome del marito su tessere e certificati elettorali: brevi spunti di riflessione su identità ed eguaglianza dei coniugi”, pubblicato nel fascicolo 4/2019 dell’Osservatorio Costituzionale a cura dell’associazione italiana dei costituzionalisti, di cui cercheremo di cogliere i passaggi più interessanti, rinviando alla lettura del saggio per una analisi più completa, soprattutto in merito alle decisioni dei ricorsi sottoposti alla Corte Europea dei diritti umani.

Che rapporto ha l’esercizio del diritto di voto con l’obbligo della moglie di aggiungere al proprio il cognome del marito sancito dall’articolo 143 bis? Lugara dimostra che di fatto il legame non c’è. Il diritto al cognome è uno dei diritti umani fondamentali riconosciuti a ogni persona dall’articolo 2 della Costituzione e dall’articolo 8 della Cedu (Convenzione Europea de diritti umani). Nel nome si realizza pienamente il diritto all’identità personale a cui è accordata una garanzia più ampia di quella cui si riferisce l’articolo 22 della Costituzione («Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza e del nome»). Di fatto, la norma che impone alla moglie l’aggiunta del cognome del marito modifica il nome attorno al quale la donna aveva, fino al momento del matrimonio, costruito l’immagine di sé e creato la rete delle proprie relazioni sociali, in questo senso incidendo sul diritto all’identità personale.

Un altro profilo di criticità della normativa riguarda il diverso trattamento riservato ai coniugi in materia di cognome in ragione della loro appartenenza di genere. È questo l’aspetto più immediato, quello che colpisce per primo le donne quando si recano al seggio per esercitare il diritto-dovere civico di voto. A un primo sguardo, il contrasto con l’articolo 3 della Costituzione è evidente, laddove le discriminazioni irragionevoli di genere («di sesso», come le definisce il testo costituzionale) non sono ammissibili ai sensi del principio di uguaglianza formale sancito dal primo comma. Una differenza di trattamento fondata sul sesso, per non essere discriminatoria, deve avere una giustificazione obiettiva e ragionevole. Ciò richiede di dimostrare, da un lato, che con questa discriminazione si persegue uno scopo legittimo e, dall’altro, che esiste un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e l’obiettivo che si intende raggiungere.

Analizziamo dunque l’articolo 29 della Costituzione, che così recita: «Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare.» La dottrina (l’opinione degli studiosi del diritto) e la giurisprudenza (l’insieme delle sentenze dei giudici su un determinato tema) si sono pronunciate sostenendo che l’articolo 29 sia stato scritto per proteggere, in primis, l’uguaglianza tra i coniugi, mentre l’unità familiare dovrebbe essere l’unico interesse pubblico a cui ricorrere per limitare ragionevolmente l’uguaglianza tra coniugi, come ha ribadito la sentenza n.133 del 1970 della Corte Costituzionale. La Corte Costituzionale stessa ha sottolineato, in questa sentenza e poi nella n. 212 del 2018, che «è proprio l’eguaglianza che garantisce quella unità e, viceversa, è la diseguaglianza a metterla in pericolo», poiché l’unità «si rafforza nella misura in cui i reciproci rapporti fra i coniugi sono governati dalla solidarietà e dalla parità».

Non sembra proprio che il mantenimento del cognome del marito nelle liste elettorali risponda alla garanzia dell’unità familiare. Anche ai sensi dell’articolo 20, comma 3, del D.P.R. 223 del 1989, le schede anagrafiche per le donne coniugate o vedove «devono essere intestate al cognome da nubile». La sentenza della Corte Costituzionale 212 del 2018 ha affermato: «principio caratterizzante l’ordinamento dello stato civile» è che «il cognome d’uso assunto dalla moglie a seguito di matrimonio non comporti alcuna variazione anagrafica del cognome originario, che rimane immodificato». È arduo sostenere che l’aggiunta del cognome del marito sulle liste elettorali sia dettata dall’esigenza di ricondurre la donna coniugata a un determinato nucleo familiare quando è chiamata a esercitare il proprio diritto di voto. Il voto è un atto per eccellenza individuale, «personale ed eguale, libero e segreto» (art. 48 della Costituzione.), per il cui esercizio non devono essere chiamate in causa le formazioni sociali a cui la cittadina elettrice prende parte, inclusa la famiglia. Non esiste un legame giuridicamente apprezzabile tra unità della famiglia e l’uso del cognome del marito in ambito elettorale, e pertanto la disciplina attualmente in vigore deve ritenersi incompatibile con i diritti e i principi costituzionali e convenzionali.

Non sussistono argomentazioni obiettive e razionali che giustifichino la distinzione tra i coniugi fondata sul sesso (sono da respingere i richiami alla tradizione di un modello patriarcale di famiglia, la pretesa necessità di proteggere la donna come componente socialmente ed economicamente debole della coppia, l’esigenza di dare il medesimo nome a tutti i componenti della famiglia, la comodità di perpetuare un sistema andato avanti per secoli), dunque la normativa italiana che prevede un cognome d’uso per l’identificazione del nucleo familiare, identificandolo in maniera automatica e rigida nel solo cognome del marito, è illegittima e discriminatoria, e viola il principio di eguaglianza tra i coniugi.
Altrettanto illegittima e discriminatoria è la normativa in materia elettorale, in cui la scelta di discriminare i coniugi nelle modalità di identificazione in sede di esercizio del diritto di voto non solo manca di giustificazioni obiettive e razionali, ma è altresì inadeguata rispetto al perseguimento dell’unità della famiglia. L’autrice dell’articolo precisa che «il percorso di depuramento dell’ordinamento giuridico dagli elementi riconducibili a un modello patriarcale di famiglia è un processo di emancipazione che opera in favore di entrambi i coniugi. La normativa attualmente vigente in materia di attribuzione del cognome del marito quale cognome d’uso per l’identificazione del nucleo familiare non è né paritaria né flessibile». È quindi necessario riconoscere l’esigenza del suo superamento e la predisposizione di soluzioni maggiormente compatibili con il diritto all’identità personale e l’eguaglianza tra i coniugi.
Due sono i percorsi suggeriti da Lugara. Il primo è adottare una normativa formulata sulla falsariga di quella in vigore per il cognome comune delle unioni civili, che è una riscrittura dell’articolo 143 bis in chiave paritaria e flessibile. Sulla base di quanto prevede la legge sulle unioni civili del 2016, si potrebbe stabilire che «Mediante dichiarazione all’ufficiale di stato civile i coniugi possono stabilire di assumere un cognome comune scegliendolo tra i loro cognomi. Il coniuge può anteporre o posporre al cognome comune il proprio cognome, se diverso, facendone dichiarazione all’ufficiale di stato civile». Riconoscere alla coppia la scelta di un cognome comune garantirebbe l’unità della famiglia. La volontarietà della scelta tutelerebbe il rispetto dell’identità personale e l’assenza di distinzioni fondate sul genere realizzerebbe l’effettiva eguaglianza tra i coniugi. Il secondo è che, per ristabilire la legittimità costituzionale e convenzionale in materia elettorale, basterebbe togliere il riferimento al cognome del coniuge, moglie o marito che sia, da liste, certificati e tessere, lasciando che elettori ed elettrici si presentino al seggio con il proprio nome civile, così come avviene per le unioni civili da ultimo ai sensi dell’articolo 8 del d.lgs. n. 5 del 2017, che ha previsto la cancellazione dalle liste elettorali dell’annotazione precedentemente richiesta del cognome comune.
Questo excursus, piuttosto complesso, è supportato anche da pronunce della Corte Europea dei diritti umani e dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, quanto sia seria e non puramente formale la questione della cancellazione del cognome del marito dalle liste elettorali, dalle tessere elettorali delle votanti in Italia e dai certificati elettorali delle residenti all’estero. A supporto e conferma dell’importanza e della validità della richiesta fondata sul rispetto dell’uguaglianza tra i sessi e tra i coniugi (Artt. 3 e 29 Cost.), unitamente alla tutela dell’identità personale sancita dall’art.2 Cost. si rimanda anche alla vicenda che ha portato all’eliminazione del solo cognome paterno in seguito alle dichiarazioni di illegittimità costituzionale di cui alle sentenze della Corte Costituzionale n.286/2016 e n. 131 del 2022 sull’attribuzione del cognome alla prole.

Vedi in https://www.reteperlaparita.it/cognome-della-madre/

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Articolo di Sara Marsico

Abilitata all’esercizio della professione forense dal 1990, è docente di discipline giuridiche ed economiche. Si è perfezionata per l’insegnamento delle relazioni e del diritto internazionale in modalità CLIL. È stata Presidente del Comitato Pertini per la difesa della Costituzione e dell’Osservatorio contro le mafie nel sud Milano. I suoi interessi sono la Costituzione , la storia delle mafie, il linguaggio sessuato, i diritti delle donne. È appassionata di corsa e montagna.

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