Conto su di me

Il “Primo Premio per i Lavori di gruppo” è andato al racconto Conto su di me, scritto da Andrea, Michelle, Carmen e Giada, studenti della IV A del Liceo Economico Sociale dell’IIS Giovanni Bertacchi di Lecco, a partire dall’incipit n. 4 di Mariapia Veladiano.
Il lavoro, che ha partecipato al IX Concorso Sulle vie della parità, è stato inserito nella più ampia cornice del laboratorio “La scrittura S.O.S.tenibile”, a sua volta compreso in un progetto Pcto triennale dal titolo Contro la violenza sulle donne: il linguaggio sessista, il conflitto, la mediazione. A seguire il lavoro è stata la professoressa Caterina Bonaiti.

Questa la motivazione della Giuria:

«L’originale racconto, aderente al tema proposto e coerente con l’incipit scelto, appare ben articolato, rivelando sensibilità e capacità di giudizio. L’espressione sciolta, corretta e scorrevole permette di descrivere con disinvoltura una situazione reale nelle sue diverse sfaccettature e di costruire dialoghi plausibili».

Incipit 4, di Mariapia Veladiano.

Stamattina ho passato, da noi si dice così, ho passato velocemente il bagno, dopo che gli altri erano usciti, chi a scuola chi al lavoro, come sempre. Ci ho messo più o meno dieci minuti, come sempre. Io faccio i conti in azienda, sono capufficio in uno studio di commercialisti. Faccio i conti benissimo. Stamattina mi sono seduta sul bordo della vasca da bagno e, non so perché, ho fatto i conti. Dieci minuti al giorno per trenta giorni uguale trecento minuti al mese uguale cinque ore al mese, uguale sessanta ore allanno uguale seicento ore in dieci anni e dal momento che lo faccio da trentanni uguale milleottocento ore in trentanni. Uguale settantacinque giorni giusti giusti, due mesi e mezzo della mia vita ho fatto quel lavoro invisibile al mondo che consiste nel lasciare il bagno degno, al minimo degno, di essere usato, dopo, quando gli altri tornano.
Poi mi sono alzata, ho tolto i guanti, ho dato un colpo di spazzola ai capelli, in piedi davanti allo specchio, e sono andata al lavoro.

Conto su di me

Mentre sono in macchina, rifletto sul fatto che la mia vita sia un lavoro continuo dal primo suono della sveglia. Prima per aiutare i miei figli a prepararsi per la scuola, poi per preparare la colazione per la famiglia e infine, come tutte le mattine, per pulire il bagno.
Le mie fatiche continuano poi al lavoro, dove i miei sottoposti sono per la maggior parte uomini, cinque per la precisione. Questo significa che non devo fare solo i conti con i numeri, ma li devo fare anche con ciascuno dei loro comportamenti moltiplicati per cinque. A volte, per esempio, mi sembra di non essere presa sul serio o di non essere trattata con il rispetto che merito.
Probabilmente molte persone avrebbero resistito poco con una situazione lavorativa così complicata, stressante, faticosa e frenetica. Ma io non mollo! Lo faccio per me. E perché – lo confesso – non voglio dare soddisfazione a tutti quelli che pensano e che dicono che le donne non possano gestire contemporaneamente – e con successo – la famiglia e un ruolo lavorativo di primo piano.

Ok, il tempo per le riflessioni nel traffico è terminato, il mio parcheggio riservato è come sempre occupato dal furgone del corriere e il portiere mi segnala che posso pure sistemare la mia auto, un’utilitaria quasi maggiorenne, dietro la sua. Tutto regolare. Prima o poi, però, farò i conti anche con lui.

Entro in ufficio e capisco subito che qualcosa non va. Sabrina ha il labbro tremante mentre appoggia uno scatolone sulla scrivania.
– Ma che…?
Paolo mi zittisce con un cenno e mi fa segno di seguirlo nella sala riunioni.
– Pistoletti l’ha cacciata.
– Cacciata? Ma che stai dicendo, Paolo? E perché?
Rimango allibita: Sabrina, mia collaboratrice da oltre dieci anni, è stata licenziata per un errore risibile da un collega appena promosso dal nostro supercapo.
Insomma, chi è Pistoletti per prendere una decisione del genere in questo modo?

Decido di intervenire e irrompo nel suo ufficio: «Come ti sei permesso di licenziare una così preziosa collaboratrice senza avermi prima consultata?»
Lui cerca di giustificarsi in tutti i modi, senza però trovare argomentazioni convincenti.
Pare che la colpa maggiore di Sabrina sia quella di non essere «sufficientemente rapida, intuitiva, flessibile, pronta».
Insisto. Voglio sapere di più. «Sulla base di quali criteri misurabili, dottor Pistoletti, arrivi a dire che una dipendente non sia sufficientemente rapida e intuitiva? Mostrami dei dati, delle statistiche, dei numeri. Poi, potremmo anche discuterne».

Tutto questo trambusto finisce per attirare l’attenzione del supercapo, il dottor Lambrugo.
«Che cosa sta succedendo?».
«Lo chieda a Mario Pistoletti, che ha licenziato Sabrina perché pare non sia… come hai detto? Ah, sì. Pare che Sabrina non sia sufficientemente rapida, intuitiva, flessibile e pronta. Tutto questo senza nemmeno consultarmi!».
Sembra che le mie parole per lui non abbiano alcun valore. A un certo punto mi ferma e mi dice: «Mario ha fatto bene a prendere questa decisione. Secondo me ci vorrebbero più lavoratori come lui, convinti di quello che fanno e senza paura di prendere decisioni drastiche».
«Non capisco. Sabrina si occupava di molte pratiche e ora, senza di lei, non riuscirò a rispettare le scadenze».
Lambrugo mi rassicura: «Non preoccuparti: abbiamo già assunto un giovane neolaureato che non ti farà rimpiangere Sabrina».
A queste parole rabbrividisco e mi sento davvero male. In quindici secondi metto in ordine i ricordi di trent’anni in questo studio: gli inizi in tre stanze e due soli dipendenti, poi il boom, il trasloco in una sede più grande, l’assunzione di Sabrina, Paolo e tutti gli altri. Li ricordo tutti, a uno a uno, con tanto di codice fiscale e busta paga. Perché io amo i numeri, ma ho considerazione di chi ho davanti. Faccio i conti anche con le persone, insomma.

Tempo scaduto. Al termine dei miei quindici secondi di riflessione, realizzo quello che devo fare e decido di dire basta. Non riesco più a sopportare queste ingiustizie, non è giusto che nel XXI secolo a uomini e donne non vengano assegnati pari diritti e opportunità. Vado dal mio capo. Questa volta non riesco a trattenermi: «Dottore, non è giusto questo trattamento che lei approva all’interno dell’azienda. Questo non fa altro che aumentare il malcontento di noi lavoratrici e non crea coesione all’interno dello studio».
Le mie parole non sembrano neanche sfiorarlo.
«Suvvia, non si lamenti per così poco. Non è mica la fine del mondo il licenziamento di Sabrina. Il ragazzo ci costerà meno e, con il tempo, renderà di più».
A queste parole esplodo: «Come non è la fine del mondo?! Se questa è la sua nuova linea aziendale, allora questo non è più il posto per me».
Non tenta nemmeno di fermarmi.
Mi sono seduta a quella scrivania per duecentocinquanta giorni all’anno (sabati compresi), per una media di otto ore al giorno, per un totale di duemila ore, che in trenta anni fanno sessantamila ore di lavoro più che visibile ma del tutto trascurabile, secondo Lambrugo.

La sera ne parlo con mio marito. «Caro, ti devo dire una cosa molto importante. Oggi al lavoro Sabrina, la mia fidata collaboratrice, è stata licenziata ingiustamente da Mario, un novellino. Il capo lo ha difeso a spada tratta perché ha già pronto un sostituto, maschio e giovane».
Mio marito ascolta e sembra intuire.
«Quindi?»
«Quindi non ce l’ho più fatta a sopportare queste ingiustizie e ho deciso di licenziarmi».
Lui sembra contrariato. «Ma come ti è venuto in mente di prendere una simile decisione senza prima averne discusso insieme? Con la crisi del lavoro sarà molto più difficile che tu trovi un impiego, anche perché le aziende adesso puntano sui giovani che hanno appena finito gli studi!»
Quella di mio marito è una considerazione valida, ma nella mia testa i conti sono già partiti.
«Capisco il tuo punto di vista, ma io voglio cambiare la mia vita e rimettermi di nuovo in gioco. Ho già in mente qualcosa».
Decide di fidarsi. Mi conosce meglio di chiunque altro e sa che non farei mai mosse azzardate senza aver prima valutato costi e benefici.

Il giorno dopo chiamo Sabrina. Chiamo anche tre mie vecchie collaboratrici che anni prima avevano lasciato lo studio per occuparsi dei figli piccoli o dei genitori anziani. In base ai miei calcoli, ora le loro situazioni familiari potrebbero essere cambiate.
Non mi sbaglio.
Insieme decidiamo di aprire un nuovo ufficio contabile. Siamo in cinque, ci dividiamo i compiti e riusciamo a organizzare le nostre giornate in modo flessibile, per consentire a tutte di lavorare bene e nei tempi più favorevoli a ciascuna.
All’inizio non raccolgo molti consensi da parte di amici e parenti. Molti cercano di scoraggiarmi e di convincermi a non seguire questa strada.
«Non avrai un futuro. Molto probabilmente fallirai».
Ogni mattina, quando finisco di passare il bagno, mi risuonano queste parole nella testa. E sorrido.

Sorrido perché oggi sono qui, dopo quattro mesi, a parlarvi dal mio ufficio, dove il telefono non smette mai di squillare.

***

Articolo di Loretta Junck

qvFhs-fC

Già docente di lettere nei licei, fa parte del “Comitato dei lettori” del Premio letterario Italo Calvino ed è referente di Toponomastica femminile per il Piemonte. Nel 2014 ha organizzato il III Convegno di Toponomastica femminile, curandone gli atti. Ha collaborato alla stesura di Le Mille. I primati delle donne e scritto per diverse testate (L’Indice dei libri del mese, Noi Donne, Dol’s ecc.)

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