Il salotto virtuale romano

Giovedì scorso, 23 febbraio, si è svolto il secondo appuntamento con i Salotti regionali di Tf.
In questa occasione, la declinazione femminile che sempre caratterizza l’associazione, ha riguardato la sociologia, disciplina che, come disse la sociologa femminista Luz Gabriela Arango Gaviria, «è probabilmente una delle scienze sociali che proietta un’immagine più maschile».
Questo ci ricorda Danila Baldo, moderatrice dell’evento, nell’introduzione che ha preceduto gli interventi delle relatrici e del relatore.
Focus dell’intero salotto è stato il voler evidenziare, finalmente, quanto forte e determinante sia stato il contributo delle donne nella sociologia, quanto importanti le loro ricerche e i loro studi, nonostante i loro nomi compaiano in numero assolutamente limitato nei manuali del canone tradizionale.
Ha aperto l’incontro Milena Gammaitoni. sociologa, professoressa associata di Sociologia Generale presso l’Università di Roma Tre, Dipartimento di Scienze della Formazione, e insegnante di Sociologia delle arti sempre nell’ateneo romano, all’Università “Jagellonica” di Cracovia e presso l’”Université d’Évry” di Parigi.

L’intervento di Gammaitoni ha riguardato le figure di Mary Wollstonecraft e Harriet Martineau quali apripista del pensiero sociologico, abbastanza distanti nel tempo ma che sono accomunate, tra le altre cose, da situazioni famigliari complesse che, per assurdo, hanno permesso loro una certa libertà, soprattutto nella propria crescita personale e intellettuale.
Mary Wollstonecraft, ad esempio, con un padre completamente assente, riesce ad assicurarsi una educazione libera e di certo atipica per il tempo, tanto che, quando per mantenersi trova lavoro come governante in una famiglia della borghesia nascente, tocca con mano e per la prima volta, la reale situazione dell’educazione femminile. Una situazione in cui le ragazzine, ad esempio, non potevano correre, dovevano essere gradevoli, non troppo istruite, educate ma non dovevano occuparsi  certo di questioni intellettuali. «È tempo di compiere una rivoluzione nei modi di esistere delle donne – è tempo di restituire loro la dignità perduta – e fare in modo che esse, come parte della specie umana, si adoperino, riformando se stesse, per riformare il mondo».
Le donne devono essere libere di essere educate, libere di essere istruite alla libertà,  Un bisogno primario alla libertà. Mary Wollstonecraft può essere annoverata come sociologa già a partire dal suo approccio di ricerca – azione, un approccio che riguarda questioni strettamente legate alla pedagogia: un’istruzione e un’educazione paritaria, l’importanza di aprire scuole pubbliche e classi miste, il principio della non-violenza per realizzare trasformazioni sociali.
Forte è la sua critica sociale ai costumi dell’epoca. E la critica attacca fortemente anche le donne, quelle aristocratiche, le donne di potere che, nella loro posizione, erano le uniche che avrebbero potuto fare qualcosa per le altre donne. Eppure queste ultime, come la stessa Wollstonecraft le definisce, sono uccelli in gabbia, costrette a pulirsi le penne per poter, nella forma esteriore, apparire sempre al meglio, nonostante quelle ali così lisce e ben curate non possano più sostenere la grandezza di un volo. Nonostante, forse, non siano mai state in grado di farlo. Le donne, dunque, devono essere educate al ragionamento e al pensiero libero e razionale. E, prima,di concentrarsi sui diritti politici, come quello del voto, bisognava istruirle alla libertà e all’autodeterminazione per evitare che il traguardo del suffragio diventi, in realtà, un ulteriore potere agli uomini, ai tutori e ai mariti.
Wollstonecraft scrive, denuncia, pensa e osserva la società; ce ne dà una descrizione puntuale e ci dice anche come correggerla, perché criticarla, come definirla: tutti principi, questi, che sono alla base della sociologia.

E se Mary Wollstonecraft può essere definita, a buon diritto, come una pre-sociologa, esattamente come Rousseau e Montesquieu, una sociologa vera e propria fu sicuramente Harriet Martineau, nonostante venga citata e conosciuta principalmente per aver tradotto e sintetizzato il filosofo August Comte.
Anche lei, alla morte del padre, deve trovarsi un lavoro che la mantenga. Inizia così a scrivere una serie di articoli su un giornale nei quali tenta di spiegare tutta una serie di riforme che stanno in quel momento avvenendo in Inghilterra, tentando di essere divulgativa, e usando, a questo scopo, anche dei suoi disegni.
Di fede unitarista, si forma, all’interno della congregazione di cui faceva parte la sua famiglia, soprattutto sulla materia economica. E questo suo approccio, socialista e liberista, la accompagnerà sempre.
Pensa che il matrimonio sia una forma di prostituzione per la donna, una forma di oppressione. E lei vuole studiare, vuole viaggiare, vuole essere libera di farlo; vuole conoscere il mondo e provare a capire come questo stesso mondo funzioni, con un’intelligenza tale da mancare totalmente di un confronto pregiudiziale tra la sua cultura e le altre: osserva in maniera semplice, razionale e scientifica.
Va negli Stati Uniti dove si ferma due mesi per tentare di comprendere le basi della Costituzione americana e, durante il viaggio in nave, scrive un vero e proprio trattato di sociologia, nel quale spiega , punto per punto, quale dovrebbe essere il giusto criterio da seguire per una corretta ricerca sociale: per Martineau è necessario concentrarsi su tutti gli aspetti della società, da quello politico a quello religioso, senza mai dimenticare, com’è ovvio, vista la sua educazione, la posizione morale della popolazione.
Gira per gli Stai Uniti ininterrottamente, realizza oltre trecento interviste, arrivando anche ad andare nelle carceri e a farsi ospitare nelle case private, nonostante fosse quasi totalmente sorda. Questo, però non l’ha mai fermata: dice, anzi, che il cornetto che usa per sentire riesce a stabilire un tale grado di intimità che le persone sono spinte ad aprirsi molto di più di quanto avrebbero mai fatto davanti a un altro studioso o studiosa.
Socialmente e politicamente, si schiera dalla parte degli operai e degli individui più fragili, contro la schiavitù, fino ad arrivare a interessarsi della questione delle prostitute.
Due personalità di profondo valore, quelle di Wollstonecraft e Martineau che, nonostante i manuali di sociologia sembrano averle dimenticate, dopo il racconto di Milena Gammaitoni, spiccano e sgomitano affinché, finalmente, venga loro riconosciuto il giusto ruolo e il giusto merito.

Chiuso questo primo intervento, la scaletta prevedeva che prendesse la parola Katiuscia Carnà, dottoressa in Ricerca Educativa e Sociale presso l’Università di Roma Tre,  laureata e specializzata in Lingue e Civiltà orientali a La Sapienza, che da anni si occupa di migrazioni, comunità religiose e nuove generazioni con una particolare attenzione al femminile. Assente, però, per motivi personali, Carnà ha mandato un interessante contributo su Fatima Mernissi che Danila Baldo ha letto durante la diretta. Qui alcuni dei passi più significativi: «La sociologa Fatima Mernissi (1940-2015) […] attraverso lo studio e l’analisi letteraria e sociologica ha fatto emergere le erronee interpretazioni, patriarcali, rispetto al ruolo della donna nell’Islam. Il  concetto  di  uguaglianza  sarebbe  stato  sancito,  infatti,  sin  dalle  origini  dell’Islam,  ma  successivamente soffocato dalla gerarchia patriarcale. Sebbene numerose attiviste e scrittrici si siano alternate nella Storia, il loro lavoro, ancora poco conosciuto sui libri di Storia e della Sociologia, sembra non sia stato sufficiente per andare oltre il sistema patriarcale che permane religioni, culture e tradizioni differenti. Mernissi,  in  Donne  del  Profeta, ,  analizza  l’equivoco  che  trafigge  tutta  la  cultura  islamica  mondiale:  la posizione femminile della donna all’ombra del Profeta; il quale, invece, aveva sin dalle origini creduto in una società egualitaria, religiosa e  democratica, dove uomo  e donna potessero scambiarsi idee e discutere di leggi. […] Il  valore  aggiunto  della  sociologa  è  stato  proprio  quello  di  valorizzare  il  ruolo  di  donna,  oltre  che  di musulmana, non accontentandosi della tradizione (che lei conosceva bene sin da bambina) che collocava la donna  all’interno  di  determinate  categorie  nell’Islam,  ma  andando  oltre  osservando  i  cambiamenti  che, anche  attraverso  il  consumismo,  “la  religione  del  mercato”  –  come  lei  lo  definiva,  avvenivano  con  la globalizzazione e l’avvento della post-modernità. Lei stessa definisce l’Islam un modo di vivere ed essere, al di là della pratica vera e propria, una definizione importante e innovativa rispetto a quella in cui che riconosce l’Islam come ortoprassi. Per la studiosa, infatti, la definizione identitaria e religiosa va definendosi laddove anche la libertà trova il suo spazio».

Terzo intervento è quello di Edmondo Grassi, assegnista di ricerca in Sociologia generale, che insegna Sociologia dei processi culturali e comunicativi, Sociologia generale e della salute, Welfare e politiche sociali e Sociologia della Politica presso il Dipartimento di Scienze Umane e Promozione della Qualità della Vita dell’Università Telematica San Raffaele di Roma. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Ricerca Sociale Teorica e Applicata con una tesi su “Etica e Intelligenza Artificiale”. Attualmente collabora con i gruppi di ricerca C.I.S.U. (Centro Interuniversitario in Studi Utopici) e “European Fairy Tale Route” (Rete europea di studi sull’immaginario collettivo e le radici folcloristiche europee) per il Consiglio d’Europa. È membro del comitato di redazione della rivista Sociologie (Edizioni Altravista) e delle collane editoriali Attrazioni Sociologiche (Cleup) e Immaginari Sociali (Armando); si occupa, inoltre, di cambiamenti etici prodotti dall’uso delle tecnologie, delle loro applicazioni sociali contemporanee e delle loro proiezioni immaginative, di identità postmoderna e postumanesimo, di genere e di pensiero della complessità.
Il discorso di Grassi si incentra sulle figure di Rosi Braidotti e Donna Haraway come identità mutevoli.
Braidotti e Haraway, esattamente come Wollstonecraft e Martineau, non si trovano, anche se contemporanee, nei manuali canonici. Eppure è evidente e fondamentale il contributo che hanno apportato a nuove prospettive sociali, culturali e politiche, arrivando anche, con i loro studi, a fornire la possibilità di declinare la persona in nuove categorie.
Donna Haraway nasce zoologa e biologa per poi interessarsi alla letteratura e alla filosofia: è l’esempio perfetto di una transdisciplinarietà nella quale i vari ambiti penetrano l’un l’altro, permeandosi e, in qualche maniera, modificandosi. E questa penetrazione caratterizza anche il movimento di cui Haraway è ritenuta capofila: il cosiddetto femminismo cibernetico, nel quale, come leggiamo in una slide che Grassi ha presentato durante la diretta, «natura e tecnologia riconoscono di essere sinonimi, luogo nel quale il biologico e l’artificiale valicano i confini della pelle, del corpo, e scoprono una commistione di sapere innovativa e fondamentale per il progresso culturale, per l’emancipazione sociale e per la validazione di sempre più ampi diritti».

Ciascun individuo, per sua stessa definizione antropologica, è un essere tecnologico, indipendentemente dall’etnia, dal genere, da qualunque tipo di diversificazione. E dunque, in una tale prospettiva, superare il dualismo, forse anche antitetico, tra natura e tecnologia significa, di fatto, avere finalmente coscienza di una realtà che è sempre esistita e che, per questo, non può creare discriminazioni. Conseguenza evidente di ciò è lo scardinamento del potere che, nelle sue ramificazioni patriarcali, si nutre proprio della dicotomia tra dominante e dominato. Secondo il pensiero di Haraway, questi due elementi si permeano talmente tanto che nessuno può assurgersi a un ruolo preponderante perché nessuno può dirsi effettivamente dominatore della tecnologia.
Il passo avanti è poi ulteriore. Attraverso l’umanismo, il femminismo e la tecnologia, Donna Haraway cerca di destrutturare tutte quelle categorizzazioni rigide che hanno sempre accompagnato la visione sociale: ciò che conta è educare le persone a una cultura della malleabilità, che non vuol dire fragilità o mancanza di identità, bensì insegnare loro l’adattabilità ai cambiamenti che, nel corso della vita, sono assolutamente fisiologici, di qualsiasi natura essi siano.
Strumenti fondamentali in tal senso, utili allo scardinamento del potere oppressivo, sono le tecnologie, il cui sviluppo esponenziale le ha rese talmente capillari e immanenti da permettere loro di intaccare il monolite del potere patriarcale in tutte le sue declinazioni ed espressioni.
L’abbattimento dei confini corporei, proprio con l’uso della tecnologia, ha permesso un ampliamento dello spazio, non solo fisico, ma anche del sapere.
È in un tale contesto di pensiero che Haraway concepisce e definisce il concetto di cyborg.
Citando sempre le slides di Grassi, il cyborg è «strumento metaforico e sociale funzionale al cambiamento della stasi umana. Capace di elaborare una politica dell’identità attraverso la rottura di confini artificiosi tra biologico e artificiale, la narrazione del cyborg ha il compito di ampliare l’intelletto e le conoscenze con il fine di sovvertire comando e controlli patriarcali per mezzo di una ricodifica della comunicazione».
Permette cioè di fuggire dal binarismo labirintico in cui i corpi sono costretti.
Ma i confini che Haraway prova ad abbattere con il suo pensiero non sono solo quelli individuali. Ella tenta di ristrutturare anche i limiti sociali, andando a riscrivere le relazioni che esistono tra i vari gruppi. Relazioni che non si esauriscono con i rapporti parentali ma che si devono necessariamente ampliare a quelli comunitari, coinvolgendo, però, anche le altre specie, oltre l’umana, presenti sul pianeta. Bisogna, in sostanza,  ricercare un dialogo trans-specista, caratterizzato da un movimento centrifugo e centripeto, che possa, in una qualche maniera, curare il decadimento sociale, economico, umano ed ecologico. Parola chiave: condivisione, di linguaggio, di pensiero e di sviluppo.

Seconda figura trattata da Grassi e quella di Rosi Braidotti.
Braidotti è una teorica femminista i cui studi sono incentrati sulla  commistione tra teoria sociale, dottrine politiche e azioni culturali al fine di condurre analisi sui mutamenti globali in merito al genere, alle politiche sociali e agli studi postcoloniali.
Per Braidotti l’essere umano è nomade e cangevole, assorbendo dall’alterità per rendere quest’ultima partecipe del proprio essere. In una tale prospettiva di mutazione costante, il femminismo si pone come una reale alternativa alla crisi del pensiero moderno, utilizzando il corpo sessuato come grimaldello di abbattimento dei fondamenti patriarcali.

Quarto e ultimo intervento è quello di Greta Calabresi, che ha studiato presso l’Università degli Studi La Sapienza dove ha conseguito una laurea di I livello in Sociologia e una di II livello in Scienze Sociali Applicate con indirizzo “Città e Sviluppo Territoriale”;  si è in seguito specializzata con un master interuniversitario di II livello in Sociologia: Teoria, Metodologia e Ricerca; è da poco dottoressa di ricerca in “Ricerca Sociale Teorica ed Applicata” presso l’Università degli Studi Roma Tre con una tesi dal titolo “Lo street harassment e la costruzione sociale dei corpi. Dominio e pratiche di resistenza nello spazio urbano”.
Quest’ultimo intervento riguarda la figura di Patricia Hill Collins e la matrice del dominio.
Patricia Hill Collins è una sociologa, prima afroamericana a ricoprire il ruolo di presidente della American Sociological Association. Poiché si inserisce nel filone del cosiddetto “femminismo nero”, si è naturalmente anche occupata di genere, razzismo e diseguaglianze sociali.
Figlia di un operaio e di una segretaria, è cresciuta in un quartiere a maggioranza nera. Si abitua, dunque, fin da subito a un dato contesto. Contesto che però muta quando a mutare sono le sue personali prospettive, e in ambito lavorativo e in ambito scolastico. È allora che Hill Collins inizia a sentirsi sbagliata, fuori posto, la macchia nera su un tessuto quasi completamente bianco. Sente che la propria voce stride e stona nel generale concerto che la società ha imbastito. Fin da subito, però, si rende conto di non essere la sola, che questo senso di malessere e di inadeguatezza riguarda anche altri individui: altre donne, altre donne nere, altre donne marginalizzate.
Nei suoi studi, dunque, si interroga quale sia la matrice che ha reso lei, e innumerevoli altre donne come lei, “sbagliate” e fuori luogo; quali siano, cioè, le relazioni gerarchiche di potere che la società ha imbastito per organizzare e giustificare i propri sistemi di oppressione, come e dove essi agiscano.

L’aspetto sul quale Collins si sofferma maggiormente è, ovviamente, l’esperienza delle donne afroamericane, oppresse e marginalizzate per genere, per classe e per razza, vittime di stereotipi precipui — mammy, matriarch, welfare mother e jezebel — che contribuiscono a creare l’idea falsata e inquinata che i maschi bianchi hanno di loro, della loro maternità e della loro sessualità.
Tali preconcetti, che si auto-alimentano e auto assolvono, possono ovviamente essere abbattuti dall’interno, dallo stesso agire delle donne nere che, prendendono coscienza e conoscenza di sé stesse, contrbuiscono a disegnare immagini che rendano finalmente giustizia a ciò che sono e che possono essere.
Il salotto regionale di Toponomastica femminile si conclude qui. Chiunque volesse, potrà ascoltare gli interventi a questo link https://www.youtube.com/watch?v=cAvsL-EjOng&t=370s che rimanda al profilo Youtube dell’associazione.

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Articolo di Sara Balzerano

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Laureata in Scienze Umanistiche e laureata in Filologia Moderna, ha collaborato con articoli, racconti e recensioni a diverse pagine web. Ama i romanzi d’amore e i grandi cantautori italiani, la poesia, i gatti e la pizza. Il suo obiettivo principale è quello di continuare a chiedere Shomèr ma mi llailah (“sentinella, quanto [resta] della notte”)? Perché domandare e avere dubbi significa non fermarsi mai. Studia per sfida, legge per sopravvivenza, scrive per essere felice.

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