La prima tappa di questo percorso porta lontano, in un Paese che è tornato all’onore delle cronache negli ultimi mesi per le tragiche proteste che lo attraversano: le donne, ci hanno detto i media, sono stanche di portare il velo e si ribellano. Tuttavia, dietro una rivolta così travolgente è lecito presumere altri disagi che per noi, pubblico lontano, è impossibile approfondire.
Il rapporto fra Italia e Iran si è sviluppato in maniera discontinua in periodi diversi. Già nel XIII secolo, con le carovane di mercanti diretti verso oriente, Veneziani, Genovesi e Pisani soggiornavano stabilmente alla corte persiana; tuttavia sarà solo nella prima metà del ‘600 che Pietro della Valle, ospite alla corte dello Shah Abbas I, descriverà dettagliatamente il Paese.
I contatti riprendono nella Persia cagiara di fine ‘800 e ruotano intorno a una passione vivacissima, quella per la fotografia: nel 1864 una variegata spedizione italiana, composta da reduci dei moti carbonari, archeologi, fotografi e illustratori naturalisti, raggiunge la corte dello Shah Nasreddin e testimonia, oltre all’interesse culturale per questo Paese lontano e poco conosciuto, i primi tentativi del neonato Regno d’Italia di acquisire una dimensione propria nel panorama politico internazionale. Infine, nel secondo dopoguerra anche l’Italia è coinvolta nelle relazioni politiche ed economiche che si stabiliscono tra l’Iran e tutto l’Occidente. È soprattutto in quest’ultima fase che si sviluppa anche il rapporto fra le culture dei due Paesi: la lingua è un tassello indispensabile per avvicinare l’arte, l’architettura, la letteratura italiane, che godono di grande fama e considerazione; inoltre, l’italiano assume una notevole importanza nelle transazioni commerciali, nel campo della moda e del design.
L’Italia viene percepita culturalmente ed emotivamente affine e questa convinzione permane, nonostante la criticità dei rapporti internazionali dopo la Rivoluzione islamica del 1979 e la cortina che, di conseguenza, separerà l’Iran dall’Occidente. In un crogiuolo che coinvolge sensibilità e razionalità rimane la convinzione di un’originale somiglianza fra i due Paesi: una certa omogeneità nei tratti somatici e l’eredità dei grandi imperi del passato, l’amore per il calcio e la presenza di stabili tradizioni letterarie, lo sviluppo architettonico e l’importanza della famiglia come nucleo sociale fondamentale sono elementi in apparenza discordanti, che tuttavia accomunano Iran e Italia stimolando il desiderio di tanti giovani di conoscere la lingua e la cultura italiane, di aprire una finestra su un altro orizzonte, di gettare un ponte verso un’altra realtà.
Arrivando dall’Italia il solo ingresso alla Dāneshgāh-e-Azad Eslami (Libera Università Islamica – IAU), l’università dove lavoravo, era già un’esperienza. Due entrate diverse separavano donne e uomini: questi accedevano presso il cancello carrabile delle auto, mentre le ragazze entravano attraverso un passaggio stretto, che consentiva alla vigilanza di controllare l’abbigliamento; proprio come scriveva Azar Nafisi nel famoso, e ormai datato, Leggere Lolita a Tehran. Negli anni ’10 di questo secolo, però, nemmeno le guardiane sembravano troppo interessate ai dettagli: si passava con il viso truccato, le unghie laccate, qualche ciocca di capelli fuori posto. Il corpo doveva rimanere nascosto: scarpe chiuse, pantaloni, maniche lunghe, il tutto coperto dal rupush, o manteau, una specie di grembiule di colore scuro.

Foto di Rosella Perugi
Così si avviavano le studentesse, piccoli stormi di merli vocianti, verso il cortile interno, dove i due sessi avrebbero dovuto restare separati; ma era impossibile controllare, e subito ragazze e ragazzi si mescolavano in quella che sembrava una festa. Perché per loro rimane difficile incontrarsi: la “polizia morale” (dicono ora i media che sia stata abolita) pattuglia strade e parchi, vietato accompagnarsi a persone dell’altro sesso se non sono parenti, pena l’arresto e il rilascio solo dopo dichiarazione scritta di pentimento e promessa di non ripetere il comportamento deviante.
Per questo l’università è innanzitutto luogo d’incontro, e quando gli stormi scuri (alla facoltà di lingue, come ovunque nel mondo, le ragazze sono la stragrande maggioranza) sciamano nelle classi è inevitabile che qualche ragazzo rimanga intrappolato nel mezzo e che nessuno di loro si curi delle ammonizioni della guardiana, lei sì avvolta in un severo chador nero, a rimanere separati e non mescolarsi.

Foto di Rosella Perugi
La struttura è fatiscente (mi dicono che recentemente l’università si è spostata in edifici nuovi e funzionali, che però si trovano lontanissimi dal centro), le classi antiquate: sedie per chi studia, una cattedra con pedana, dove si sta solo in piedi, per chi insegna; lavagna e gesso gli unici strumenti didattici; nella porta, una finestrella triangolare permette di controllare dal corridoio cosa accade nell’aula. In questo spazio controllato però si respira un’aria amichevole di curiosità: trenta paia d’occhi – quasi tutti scuri – un certo silenzio, espressioni serie che tradiscono grandi aspettative: tranne pochi privilegiati, che per motivi di famiglia riescono a espatriare, chi studia non ha la possibilità di uscire dai confini.
Se è vero che le parabole sono diffusissime (nonostante ufficialmente siano proibite) e che di conseguenza l’Occidente compare regolarmente nelle case iraniane, altro sarebbe avere la certezza di poter viaggiare in libertà – libertà negata dal governo e dalla tradizione (le ragazze devono avere il permesso del padre o del fratello, o del marito, prima dei 30 anni); in ultimo, dagli stessi Paesi stranieri, che negano i visti per i motivi più disparati.
Salgo sulla predella, poso il mio materiale sul leggìo; la mia mise mi imbarazza: mi pare che il maghnaeh, il copricapo obbligatorio che mi fascia il viso e copre i capelli, scivoli da tutte le parti. Scendo subito, non è questo il mio posto; meglio passeggiare di fronte a questo stormo timido e curioso allo stesso tempo, scrivere il nome sulla lavagna, mantenere il contatto con questi sguardi e iniziare a raccontarmi, perché è questo che loro vogliono: sapere chi sono, cosa mi ha spinto fin qui; essere motivate/i a lavorare insieme; soprattutto, forzare questo spiraglio su un altro mondo.
In Italia sono un’insegnante di inglese, perciò devo stare molto attenta perché mi viene naturale entrare in classe e scivolare automaticamente in quella lingua. Qui sarebbe un errore fatale, perché la lingua degli Usa, l’odiato Grande Satana, la parlano in tante: non è l’inglese britannico, ma proprio un americano biascicato, divulgato da chi in America è stato davvero con un sorprendente effetto a catena che lo rende particolarmente diffuso; una lingua che dilaga anche dagli schermi tv, guardando series e film attraverso le parabole per ingannare la noia delle lunghe ore passate in casa, sognando un altrove che forse non si raggiungerà mai.

Italiano in classe, dunque, con lentezza, scandendo bene le parole, verificando di essere capita. Ma ecco una nuova sorpresa: qualcuna capisce benissimo e interagisce timidamente. Spiegano che hanno vissuto saltuariamente in Italia, sono mogli o figlie di professionisti (soprattutto medici, architetti, ingegneri, ma anche piloti d’aereo), di personale d’ambasciata o perfino di bazari, commercianti di tappeti che, nonostante sanzioni e confini solo in apparenza invalicabili, hanno studiato o lavorano ogni tanto nel nostro Paese. Questi mariti e padri vanno e vengono, accompagnati da donne perspicaci e ingegnose che, appena arrivano, si scoprono il capo, assorbono tutto con avidità, con abilità: lingua, abitudini, cucina, cultura, e si innamorano di una quotidianità che a noi pare banale e noiosa. Quando ritornano in Iran conservano e diffondono l’immagine di un Paese non solo amico ma anche affine, dove integrarsi è non solo desiderabile ma anche possibile: questo (lo imparerò più tardi) rappresenta un plus rispetto a molte altre nazioni europee, percepite più fredde se non addirittura ostili, e stimola l’apprendimento della lingua italiana. Ma questa è un’altra storia.
In copertina: Teheran, panorama.
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Articolo di Rossella Perugi

Laureata in lingue a Genova e in studi umanistici a Turku (FI), è stata docente di inglese in Italia e di italiano in Iran, Finlandia, Egitto, dove ha curato mostre e attività culturali. Collabora con diverse riviste e ha contribuito al volume Gender, Companionship, and Travel-Discourses in Pre-Modern and Modern Travel Literature. Fa parte di DARIAH-Women Writers in History. Ama leggere, scrivere, camminare, ballare, coltivare amicizie e piante.