Rileggere i classici. XIII e XIV secolo

Come preannunciato nella premessa metodologica, proviamo insieme a rileggere i classici della nostra tradizione letteraria, riflettendo sui meccanismi di trasmissione culturale che hanno contribuito a consolidare l’interpretazione esclusivamente patriarcale della società e mettendo in luce la condizione delle donne del passato, riverberata in molte opere. Il percorso che propongo è frutto delle mie ricerche e letture, ma anche delle lezioni e dibattiti che negli anni ho costruito con le mie classi intorno all’analisi dei testi letterari. Quando si affronta lo studio della letteratura italiana, generalmente si comincia con l’imparare che essa nasce su impulso della lirica dei trovatori provenzali, il cui tema centrale è l’amore cortese o fin’amor.

Dell’amor cortese, miniatura del XIV sec.

I testi tramandano storie che rispecchiano il mondo feudale e i suoi rapporti di forza e vassallaggio nel cosiddetto “servizio d’amore”: come il vassallo giura fedeltà al suo dominus, legandosi a lui in un servizio di leale e totalizzante dedizione, così l’uomo si rende servo fedele della sua domina, a lei devoto e per lei predisposto a gesta eroiche. A fornire indicazioni dettagliate su come l’uomo può al meglio corteggiare e sedurre una donna, ci pensano opere magistrali in tal senso, come il Roman de la Rose, poema allegorico del XIII secolo in cui la “rosa” è chiaro simbolo erotico di conquista da parte dell’uomo, cavaliere senza macchia e senza paura, o il De amore di Andrea Cappellano, trattato composto sul modello dell’Ars amandi di Ovidio.

I consigli sono veri e propri precetti che spiegano come nasce l’amore e come va conquistato e tenuto vivo. L’immagine di donna che emerge è, spesso, quella di una dama che mette duramente alla prova l’uomo al suo servizio, per avere la certezza che sia degno del suo amore. Tra le forme poetiche dell’epoca, prendono il nome di “pastorelle” i componimenti in cui si descrive il rifiuto da parte di una donna di umili condizioni verso un cavaliere da lei attratto. Tutto tende al perfezionamento dell’immagine maschile incarnata nel cavaliere che, superando prove durissime e restando fedele ai precetti del fin’amor, si eleva al punto da rendere gentile e puro il suo cuore, anche se egli non è nobile per lignaggio. Dunque, l’io che emerge è sempre quello maschile, è protagonista spesso assoluto, perché la sottomissione alla sua signora nobilita il suo animo e la sua persona, ma lascia sullo sfondo la donna, almeno nella maggior parte dei testi letterari che vengono letti e tramandati dalla tradizione scolastica, fondata su un consolidato canone letterario che esclude massicciamente la voce delle donne, nonostante ci siano, in realtà, molti esempi di poete e trovatrici che, tra il XII e il XIII secolo, compongono versi in cui sono loro a essere l’io predominante sulla scena.

Nel De amore leggiamo: «L’amore è una passione innata che procede per visione e per smisurato pensiero di una persona dell’altro sesso, per cui si desidera soprattutto godere l’amplesso dell’altro […]. Quando, infatti, uno vede una donna che corrisponde al suo amore e che è bella secondo il suo gusto, subito in cuor suo comincia a desiderarla, e quanto più la pensa, tanto più arde d’amore. […] e comincia a […] frugare i segreti di quel corpo che desidera di possedere tutto per il proprio piacere». È l’uomo che fondamentalmente è protagonista della fenomenologia d’amore descritta, la donna è il corpo-oggetto che lui vuole possedere tutto per il proprio piacere. Arnaut Daniel, trovatore provenzale di grande maestria linguistica per il suo trobar clus, scrive: «Quando penso alla camera/dove a mio scorno so che nessuno mai penetra/perché tutti le fanno da fratello e da zio,/in ogni membro tremo, anche nell’unghia/più di un bambino davanti alla verga:/mi angoscia non esserle vicino con quest’anima». La donna, oggetto del desiderio amoroso dell’io lirico, è chiusa nella sua camera e questo non è un danno per l’uomo (mio scorno) perché nessun altro vi entra, in quanto la donna è presidiata sempre da custodi che la sorvegliano a vista (da fratello e da zio); dunque saperla sola lo fa tremare di desiderio e l’angoscia di non averla accanto lo divora. Ma se sono le donne a scrivere, la prospettiva si ribalta. «Bell’amico, gentile e valoroso,/quando sarete in mio potere/e saremo distesi l’uno accanto all’altro/a portata dei miei baci amorosi,/colma di gran gioia,/io vi considererò come mio marito/così che voi non potrete rifiutarvi/di fare solamente ciò che desidero»: nei versi della contessa Beatriz de Dia, è la donna ad avanzare richieste, a porsi al centro della scena come protagonista dell’atto amoroso, non solo come suo corpo-oggetto. Sulle trovatrici si rimanda a un articolato contributo di Florindo Di Monaco per Vitamine vaganti. Del resto, nella storia del Medioevo non sono mancate le donne che hanno dominato la scena, di cui ha offerto una significativa panoramica ancora Di Monaco.

Christine de Pizan mentre scrive il suo libro. Andrea Hopkins, Six Medieval Women

Nel Duecento il modello della poesia provenzale si diffonde nella nostra penisola, dando origini alle esperienze della scuola siciliana e, successivamente, allo Stilnovismo. La visione della donna è legata all’immagine di una creatura quasi eterea, inconsistente, la donna-angelo, oggetto di contemplazione dai tratti comuni e stereotipati, ovverosia pelle candida, capelli biondi, elegante e umile portamento: «quella ch’à blonda testa a claro viso», «Assai v’aggio laudato,/madonna, in tutte parti,/di bellezze c’avete», «Angelica figura – e comprobata» (Iacopo da Lentini), «Tenne d’angel sembianza/che fosse del Tuo regno», «Lo vostro bel saluto e ‘l gentil sguardo» (Guinizzelli), «cotanto d’umiltà donna mi pare», «da’ vostr’occhi gentil’ presta si mosse» (Cavalcanti).
Dai testi emerge anche – quasi sempre – il racconto di un io lirico sofferente di fronte alla crudeltà della domina, che non si cura del sentimento provato per lei dal suo amante, provocando in lui dolori indicibili: «Assai mi son mostrato/a voi, donna spietata,/com’eo so’ innamorato», «merzé e pietanza in voi non trovo», «Voi, donna, m’aucidete» (Iacopo da Letini), «E’ mi duol che ti convien morire/per questa fiera donna, che nïente/par che pietade di te voglia udire» (Cavalcanti). Nella poesia comico-realistica i tratti misogini sono particolarmente accentuati, in particolare nei testi che mostrano la donna come lasciva, infedele, dedita ai piaceri della carne. Si pensi al contrasto di Cielo D’Alcamo, Rosa fresca aulentisima, in cui sono evidenti le disparità tra l’uomo – indefesso corteggiatore – e la donna – le cui resistenze vengono facilmente abbattute dalle argomentazioni molto più convincenti del seduttore maschile, che facilmente fa capitolare la rosa fresca aulentisima («Meo sire, poi juràstimi, eo tutta quanta incenno./Sono a la tua presenzïa, da voi non mi difenno»).

Codex Manesse, Zurigo, 1305 – 1340, Wernher von Teufen, copertura di colore su carta pergamena

In Dante, a mio avviso, la visione della donna e il rapporto con essa mutano significativamente. Nella fase giovanile la narrazione delle donne segue la tradizione che Alighieri ha alle spalle: dalle rime petrose, in cui imperversa la crudeltà di una «bella petra/la quale ognora impetra/maggior durezza e più natura cruda», «la crudele che ‘l mio [cuore] squatra», alla Vita Nova, che dipinge Beatrice con i caratteri stilnovistici («par che sia una cosa venuta/da cielo in terra a miracol mostrare»), ma già rivolti a un rinnovamento, un nuovo proponimento «per più degnamente trattare di lei».

Henry Holiday, l’incontro immaginario fra Dante e Beatrice (con il vestito bianco) accompagnata dall’amica Vanna (con il vestito rosso), sul Ponte Santa Trinita in Firenze (1883)

Seppur figlio del suo tempo, in lui matura una concezione maggiormente paritaria, un atteggiamento di grande considerazione della presenza femminile che diventa via via centrale, a partire da Beatrice e non solo. Le donne che popolano la Comedia hanno un ruolo e parlano di sé stesse in prima persona: si pensi a Francesca da Rimini, che racconta la sua versione del femminicidio subìto mentre Paolo piange; a Pia de’ Tolomei, uccisa dal marito Nello de’ Pannocchieschi o per gelosia suscitata nell’uomo da un presunto tradimento della consorte o per avere egli stesso campo libero e convolare a nozze con la storica amante Margherita; a Piccarda Donati, costretta dal fratello a sposare Rossellino della Tosa per ragioni di convenienza politica; a Matelda, che nel Paradiso terrestre inizia Dante ai riti di purificazione necessari prima di ascendere ai cieli paradisiaci. Tutte donne che dominano la scena, hanno diritto di parola in una società in cui spesso questo non avveniva (sulle donne in Dante ho approfondito qualche riflessione in un mio precedente contributo).

L’amore e le donne sono al centro della produzione artistica del giovane Boccaccio, fino agli anni del Decameron. Lamenti di amanti infelici, vicende erotiche avventurose, rivalità e gelosie amorose, sono prevalenti in opere come il Filocolo, il Filostrato, l’Elegia di Madonna Fiammetta, la Comedia delle ninfe fiorentine, in cui le donne sono soggetti protagonisti delle vicende che le coinvolgono e non puri cimeli di contemplazione. Nel Decameron osserviamo il tripudio dell’amore, vissuto in tutte le sue accezioni più umane e in modo assolutamente libero e svincolato dagli stereotipi dell’epoca, pariteticamente da uomini e donne. Queste ultime sono le destinatarie privilegiate dei racconti boccacceschi («E chi negherá, questo, quantunque egli si sia, non molto piú alle vaghe donne che agli uomini convenirsi donare?»), oltre che protagoniste attive di tante novelle. Molte di queste narrazioni mostrano, in modo palese, l’ingiusto trattamento che le donne sono costrette a subire quando non si sottomettono alla logica patriarcale. Nella quarta giornata, dedicata agli amori infelici, la prima novella presenta la storia di Ghismonda, che sceglie di rompere l’isolamento impostole dal padre Tancredi – geloso ai limiti dell’incesto – e con astuzia riesce ad avere una relazione appagante con il suo giovane amante Guiscardo, salvo essere scoperta dal padre, che fa incarcerare e uccidere il giovane, ma subisce, alla fine, la vendetta paziente della figlia: la ragazza si avvelena dopo aver difeso la nobiltà d’animo del suo amato, sottraendo di fatto al padre l’oggetto del suo desiderio e controllo, ovvero la stessa Ghismonda.
Nella quinta novella, la giovane Lisabetta da Messina è prigioniera dell’egoismo e utilitarismo dei suoi tre ricchi fratelli mercanti, che non accettano la relazione tra lei e il giovane Lorenzo, loro dipendente, per via dello scandalo che avrebbe provocato a danno dei loro affari: fanno, dunque, uccidere il ragazzo con indifferenza e cattiveria, ignorando completamente lo stato d’animo e i desideri della sorella, provocandone, infine, la morte per dolore. Nella quinta giornata, la novella di Nastagio degli Onesti mostra come il protagonista, innamorato di una giovane nobildonna che non lo ricambia, pur di ottenere la sua approvazione e impossessarsene, la conduce con tutta la sua famiglia nella pineta di Classe, nei pressi di Ravenna, per assistere a una terribile visione che si ripresenta ogni venerdì alla stessa ora: un cavaliere raggiunge una donna in fuga, nuda, la uccide e lascia che venga dilaniata da due cani. È la punizione infernale che questa ragazza deve subire, in un loop eterno, per essere stata sprezzante e aver rifiutato in vita l’amore del cavaliere.
La giovane Traversari è indotta – direi forzatamente – a cedere al corteggiamento di Nastagio e a sposarlo. È amore questo che viene indotto per timore di subire una sorte violenta? Sarà bene evidenziarlo al nostro pubblico di studenti, e non solo, non indugiando nell’idea romantica dell’indissolubilità del binomio eros-thanatos. Ancora, la novella di Federigo degli Alberighi mostra un giovane aristocratico devoto a monna Giovanna che, però, non ricambia il suo sentimento, ma ama tanto il suo figliolo malato al punto da piegarsi a chiedere a Federigo che gli doni il suo falcone, desiderato dal bambino. Ma Federigo, che è rimasto povero per aver dissipato i suoi beni nel corteggiamento, cucina il falcone alla donna che lo visita, e quando lei glielo richiede, lui si addolora.
Questa gentile e nobile disposizione d’animo (di lui, è lui che soffre per amore, che spende i suoi averi, che è devoto come un cavaliere alla sua domina) farà sì che monna Giovanna, dopo la morte del figlio, si convinca a sposare Federigo, mostratosi magnanimo con lei anche nella difficoltà e di fronte al suo rifiuto. Davvero una gran storia d’amore, spontanea e genuina!

Ma nell’opera di Boccaccio non mancano, certamente, le donne intraprendenti, astute, intelligenti e autodeterminate: si pensi a madonna Oretta e alla sua eloquenza e intelligenza in confronto alla goffaggine del cavaliere «entrato nel pecoreccio» narrando una novella come intrattenimento di viaggio; a madonna Filippa che, con la sua arguzia e prontezza di spirito, contesta lo statuto di Prato (scritto da uomini senza il parere delle donne), secondo il quale le donne adultere dovevano essere bruciate, risolve il suo tradimento in modo brillante ed evita la condanna a morte, ottenendo di modificare l’iniqua legge; ancora, alla giovane monaca Isabetta, che induce la sua badessa a rovesciare la morale austera della castità e a concedere alle monache gli amori in segreto, essendone lei stessa protagonista; a madonna Francesca e al macabro scherzo che architetta per allontanare da sé due assillanti corteggiatori che lei non ama; a tutte le donne presenti nelle novelle della settima giornata che, con arguzia e industria, riescono a ingannare i mariti e a stare insieme ai loro amanti.

Il mondo del Decameron è un luogo sospeso, uno spazio in cui sette ragazze e tre ragazzi – allontanatisi dalla forza mortifera della peste – si rifugiano per dare vita a un momento di condivisione di sentimenti, di paure, di opinioni, attraverso l’arte del raccontare, attraverso la letteratura che salva e dà vita a una concezione dell’amore libero, scevro da pregiudizi e condizionamenti. Peccato che, dopo una tale esperienza letteraria, il Boccaccio più maturo nell’età regredisca nella mentalità facendo ritorno a una feroce misoginia con il Corbaccio, che sembra abiurare la libertà e licenziosità del Decameron: «Dovevanti, oltre a questo, li tuoi studii mostrare, e mostrarono, se tu l’avessi voluto vedere, che cose femine sono, delle quali grandissima parte si chiamano e fanno chiamare donne; e pochissime se ne truovano. La femina è animale imperfetto, passionato da mille passioni spiacevoli, e abominevoli pure a ricordarsene non che a ragionarne», «[…] Iddio, il quale volendo per la nostra salute incarnare, per non venire ad abitare nel porcile delle femmine moderne ab eterno se la preparò, siccome degna camera a tanto e cotale re» (in riferimento alla Vergine Maria).

Arquà Petrarca: Petrarca e Laura in un affresco nella casa del Petrarca

Con Francesco Petrarca veniamo nuovamente catapultati dinnanzi a una visione della donna che la rende evanescente, posizionata sullo sfondo, diciamocelo: quasi del tutto inesistente. Sì, perché il protagonista assoluto delle sue opere è lui, Francesco, con il suo incessante desiderio di essere riconosciuto come gloria poetica del suo tempo, interiormente diviso tra asservimento a una vita virtuosa e perdizione nelle passioni umane. Laura – creatura terrena, soggetta al disfacimento fisico – in fondo, non è che un pretesto: così la donna scivola verso una condizione di oblio che lascia spazio al tormento interiore del poeta, al suo dramma personale, che lacera la sua esistenza tra resistenza e cedimento alle passioni.

Laura, dunque, esiste come riflesso del suo senso di colpa, non ha vita propria al pari di Beatrice Portinari: è il «giovenile errore» del quale «di me medesmo meco mi vergogno»… il trionfo di un me solitario che fugge dall’Amore, ma da esso viene raggiunto anche nei «più deserti campi».

In copertina: Christine de Pizan tiene una lezione, From compendium of Christine de Pizan’s works, 1413.

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Articolo di Valeria Pilone

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Già collaboratrice della cattedra di Letteratura italiana e lettrice madrelingua per gli e le studenti Erasmus presso l’università di Foggia, è docente di Lettere al liceo Benini di Melegnano. È appassionata lettrice e studiosa di Dante e del Novecento e nella sua scuola si dedica all’approfondimento della parità di genere, dell’antimafia e della Costituzione.

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