Esclusione, stereotipi, violenza, ordinaria follia. Il caso di Camille Claudel

Il pomeriggio del 3 marzo scorso si è tenuto a Capannori (Lucca), presso il Museo Athena, un incontro collegato alla interessante mostra fotografica dal titolo emblematico: I fiori del male. Donne in manicomio nel regime fascista (foto mostra). Sono intervenute la studiosa Elisabetta Angrisano, dell’Università di Salerno, e Paola Malacarne e Ilaria Favini di Toponomastica femminile, che hanno illustrato a due voci la vicenda umana della geniale scultrice Camille Claudel.

La prof.ssa Angrisano ha trattato la tematica dell'”ordinaria follia al femminile” partendo da numerosi documenti d’archivio che rivelano in tutto il suo squallore, nella sua crudeltà, nella sua insita violenza cosa era realmente il ricovero coatto nei manicomi, con particolare riferimento al XX secolo. Si è rifatta ai mutamenti avvenuti durante la Prima guerra mondiale, quando per molte donne, alla cura della casa e della prole, si aggiunse la responsabilità di svolgere parecchie mansioni maschili, indispensabili alla vita economica e sociale ma lasciate dai soldati impegnati al fronte. Il peso fu indubbiamente gravoso, sia fisico che psichico, ma aprì pure spazi di autonomia e di emancipazione. Con l’avvento del fascismo e il discorso dell’Ascensione del 1927 le poche conquiste furono annullate, crebbero a dismisura le depressioni post-partum dovute alle continue gravidanze e alle maternità esplicitamente chieste dal regime alle buone famiglie italiche, gli uomini tornarono a occupare i vecchi mestieri, estromettendo le lavoratrici. Lo stesso Mussolini si macchiò di un vero e proprio doppio crimine ai danni dell’amante, o presunta moglie legittima, Ida Irene Dalser (definita da alcuni familiari «isterica, nevrastenica, molesta, insopportabile»…) e del figlio Benito Albino, che conclusero le loro travagliate esistenze in manicomio, morendo di stenti e senza neppure una tomba.

Ida Irene Dalser e Benito Albino

Ma quali donne finivano, spesso per sempre, rinchiuse e separate dal mondo? Erano per lo più di condizione modesta e prive di istruzione, vedove, prostitute, vagabonde, ma anche figlie scomode, madri di prole numerosa, mogli poco amate o mal tollerate, che già in famiglia subivano violenze, soprusi, angherie in matrimoni combinati e infelici. Dai rapporti “malati”, dalle fatiche quotidiane, da lavori continui e pesanti, dal susseguirsi di gravidanze molte donne uscivano stremate, stanche, depresse, potevano arrivare a tentativi di suicidio, venivano così ritenute un pericolo per sé stesse; in altri casi avevano magari quelli che erano giudicati comportamenti scandalosi solo perché frequentavano un amante o tentavano di fuggire da casa; oppure i parenti non erano in grado di gestirle perché intralciavano la loro vita di relazioni. Non era raro il caso di un marito che volesse trovarsi un’altra compagna o di genitori che non volessero mantenere una figlia “stravagante”; bastava fare richiesta secondo la legge n.36 del 14-2-1904, trovare un medico compiacente e il gioco era fatto. Ci pensava poi il Tribunale a sancire la perdita di ogni diritto e a fornire il marchio indelebile di “matto/a”; non è superfluo notare che quella legge, nei suoi vari articoli, non menziona mai la parola “cura” visto che i manicomi erano assai simili a carceri, in cui venivano tagliati i capelli e si indossava una divisa, si perdeva la propria identità, si lasciavano tutti gli averi all’ingresso, si subivano trattamenti violenti e non di rado si soffriva di denutrizione. Dagli esempi e dai documenti portati dalla relatrice, emerge che di fatto la maggioranza di queste donne non erano malate di mente e per loro non esisteva una vera diagnosi; erano vittime di un sistema che le voleva zitte, sottomesse, schiave dell’uomo, prima il padre e i fratelli poi il marito; bastava uscire dai binari consueti, protestare, ribellarsi per essere condannate alla discriminazione, allo stigma, all’abbandono perpetuo dietro le sbarre di un luogo senza vie di fuga e senza ritorno.

Ha citato fra gli altri il caso di Teresa, giudicata “mentecatta”, trentasettenne con sette figli, probabile vittima della depressione post-partum, e quello di Adalgisa Conti, ben documentato perché lei stessa che sapeva leggere e scrivere piuttosto bene inviò una lettera di denuncia, per fortuna raccolta, addirittura in seguito pubblicata e oggetto di approfondimenti, di uno spettacolo e inserita in vari libri. Racconta che aveva 15 fratellini da accudire, da ragazza aveva subito le attenzioni del padre e vivevano tutti in promiscuità; assai giovane si era sacrificata a un matrimonio imposto da cui presto il marito si voleva liberare perché lei non gli dava figli, così Adalgisa cercò di affogarsi nel pozzo; dai 26 anni in poi finì in manicomio e visse fino oltre i novanta, abbandonata dalla famiglia, vittima di torture e maltrattamenti. Molto significative le foto che ce la mostrano stralunata e sconvolta, pur assai bella, all’ingresso in manicomio; ridotta a fantoccio senz’anima anni dopo; rifiorita e sorridente quando, molto anziana, anche in quei luoghi orrendi si cominciava a respirare l’aria del mutamento, che la legge Basaglia portò a buon fine nel 1978.

L’intervento della prof.ssa Angrisano non poteva concludersi senza citare Mario Tobino, grande medico psichiatra e altrettanto grande scrittore, che ci ha lasciato una vivissima rappresentazione letteraria del manicomio in cui ha lavorato e vissuto un’intera vita, e di cui è stato pure direttore, quello di Maggiano, alle porte di Lucca. Le libere donne di Magliano (1953) forse è il suo capolavoro, ma è anche uno straordinario atto di denuncia, un gesto d’amore, un documento unico che mette al centro tante figure di donna, viste come vittime di un sistema, di un meccanismo implacabile e perverso: «il manicomio è pieno di fiori, ma non si riesce a vederli».

Capannori. 3 marzo 2023

Paola Malacarne e Ilaria Favini, con l’ausilio di chiare slide e alternandosi nei ruoli di narratrice e di protagonista, hanno trattato un caso emblematico, quello della scultrice francese Camille Claudel, a cui oggi è stato dedicato un museo e le cui opere sono ospitate in parte dal Museo Rodin di Parigi.

“Donna, artista, libera”, la giovane geniale è in contrasto con la società del suo tempo e perfino con la madre, che non esiterà a farla internare in manicomio; anche l’amato fratello Paul, celebre poeta e drammaturgo, in 30 anni le farà visita sette volte e sarà insensibile alle sue grida di dolore, alle sue accorate richieste, alle implorazioni d’aiuto. Vittima di un sistema crudele e solo desiderosa di amore, Camille fu segregata, come accadde del resto a Lucia, la figlia di Joyce; morirà sola, di stenti, abbrutita, lei che aveva occhi meravigliosi colore del cielo, nessun familiare sarà presente alle misere esequie e il suo corpo finirà in una fossa comune, adiacente all’ospedale in cui era stata prigioniera per una vita intera. Eppure era stata, e la sua incredibile produzione ne è la prova, una scultrice unica, formidabile, avanti anni luce rispetto all’arte contemporanea. Nata l’8 dicembre 1864 a Fére en Tardenois, muore nel manicomio presso Avignone il 19 ottobre 1943, ottanta anni fa dunque. Ma è interessante sapere che la sua storia è stata occultata ad arte dalla famiglia tanto che la si credeva morta nel 1920; solo la tenacia di uno studioso sollevò il velo e il bel volto di Isabelle Adjani, al cinema, la rese viva al grande pubblico, nel 1988.

Locandina film (1988)

Nei vari spostamenti della famiglia che comprendeva pure una sorella e il fratello Paul nati dopo di lei, da bambina si appassionò alla natura, cominciò a trafficare con la creta e a cercarsi dei modelli, fra cui il fratello minore, anche lui precoce nell’arte poetica. A Parigi entra nell’Accademia Colarossi e apre uno studio con due amiche e colleghe; presto diventa allieva di Rodin, di 24 anni più vecchio, e nel biennio 1883-4 ne diviene collaboratrice, musa e amante. Fra il 1889 e il 1892 realizza una delle opere più significative: La Valse, in cui una coppia è avvolta in una danza sensuale. Mentre la relazione con Rodin è sempre più incerta, Camille lavora alacremente e crea un altro capolavoro, prima in gesso e poi in bronzo: L’Âge mûr, mai consegnato al committente e simbolo di un amore al tramonto, con una figura che sembra trattenere inutilmente un uomo conteso, visto che Rodin ha deciso di sposare la prima compagna. Nel 1913 la morte del padre, che era stato suo estimatore e suo sostegno, la segna nel profondo e la scultrice, delusa, depressa, sofferente di turbe psichiche e senza più punti di riferimento, si trova a fare i conti con una madre da sempre avversa alla sua arte che decide di farla internare in manicomio, d’accordo del resto con il figlio Paul, mentre vari pareri medici sconsigliavano tale drastico provvedimento.

Camille Claudel, La Valse, Museo Rodin Parigi

Basta del resto leggere stralci delle lettere disperate ma lucidissime che la donna inviò al fratello e a vari medici, spiegando la propria situazione e ricordando come la sorella Louise si fosse impossessata dei suoi beni; insomma, la sua assenza conveniva al resto della famiglia se è vero, come sappiamo, che mai ricevette visite dalla madre e dalla sorella stessa, che anzi premevano perché Camille non uscisse più. E così avvenne: a 78 anni la donna era assai debilitata e morì, dicono, di colpo apoplettico, ma quasi certamente soffriva di denutrizione. Si sa che all’epoca, fra 1940 e 1944, in Francia morirono di fame 40.000 pazienti psichiatrici e il direttore dell’ospedale in cui si trovava Camille aveva affermato in tutta sincerità che erano morte di fame presso la struttura di Montfavet 800 persone su 2000. Il suo povero corpo non fu reclamato dai parenti e non esiste una tomba su cui portare un fiore. Nel 2017 un museo intero le è stato dedicato a Nogent-sur-Seine dove la famiglia visse durante la giovinezza di Camille e al Museo Rodin di Parigi sono esposte numerose opere dell’artista, fra cui L’implorante, L’abbandono, i busti di Rodin e del fratello Paul, la terracotta La Jeune Fille à la garbe (dichiarata Patrimonio nazionale francese nel novembre del 2003), gessi, bronzi, marmi; altre imponenti sculture sono visibili a Lille, in altri musei parigini, a Vienna, ad Avignone, ecc. Oltre che del film citato, Claudel è stata protagonista di una pellicola successiva, interpretata da Juliette Binoche, ambientata nel 1915.

Locandina film Camille Claudel 1915 (2013)

Vari lavori teatrali hanno preso spunto dalla sua dolorosa vicenda umana, fra cui un testo scritto da Dacia Maraini nel 1995. Nella capitale francese una via le è stata dedicata e una lapide ne ricorda le straordinarie doti artistiche.

Parigi, lapide in ricordo di Camille Claudel
Rosa intitolata a Camille Claudel nel 2020

Nel 2020 una rosa bellissima, dal delicato profumo, è divenuta un gentile omaggio alla sua esistenza senza pace.

Pannelli in mostra. Foto di Laura Candiani
Pannelli in mostra. Foto di Laura Candiani
Foto di Linda Zennaro
Foto di Nadia Boaretto

In copertina: Camille Claudel.

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Articolo di Laura Candiani

Ex insegnante di Materie letterarie, dal 2012 collabora con Toponomastica femminile di cui è referente per la provincia di Pistoia. Scrive articoli e biografie, cura mostre e pubblicazioni, interviene in convegni. È fra le autrici del volume Le Mille. I primati delle donne. Ha scritto due guide al femminile dedicate al suo territorio: una sul capoluogo, l’altra intitolata La Valdinievole. Tracce, storie e percorsi di donne.

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