Migrare. Tra ricordi di ieri e testimonianza di oggi

Se parliamo di accoglienza di migranti, mi vengono in mente due immagini. La prima, sfocata, delle nostre e nostri connazionali che arrivavano a Ellis Island, con le loro valigie di cartone più di cento anni fa; la seconda, vivida, dei fatiscenti barconi che solcano il Mediterraneo, stracolmi di uomini, donne, bambini e bambine, che cercano l’approdo a Lampedusa o nei porti siciliani.
È passato più di un secolo e nulla è cambiato, si sono solo spostate le rotte geografiche. Ieri come oggi, milioni di persone affidano il loro destino e le loro speranze alle acque di un mare che spesso si trasforma in culla di morte.

Tra il 1876 e il 1925 un milione e mezzo di persone italiane provenienti dalle regioni meridionali migrò verso l’America. A pensarci è come vedere un quadro di fagotti, miserie e speranze che non lascia spazio alle singole individualità. Come avvenivano questi viaggi? E com’erano accolti una volta giunti a destinazione?

Agenzia di emigrazione

Ripercorriamone sinteticamente storia e modalità. Il desiderio di potere costruire una vita dignitosa per sé e per i propri familiari, faceva sì che l’emigrante trovasse il coraggio di avventurarsi verso l’ignoto. Ma proprio l’ignoranza, spesso, trasformava i/le migranti in facili prede di sfruttatori che promettevano abbondanza e fortuna.
Fondamentale nella crescita del fenomeno migratorio lo ebbero le agenzie di emigrazione. In Italia, nel 1900, se ne contavano tredicimila, sparse capillarmente nelle zone più povere e arretrate, pronte a intercettare i disagi procurati da fame e miseria. Bussavano portone per portone e proponevano il biglietto d’imbarco come panacea per tutti i mali.


Solo con una legge del 1901 furono abolite e fu stabilito che solo una ventina di compagnie di navigazione, munite di autorizzazione ministeriale, potevano occuparsi dell’organizzazione del viaggio. A differenza dei porti europei, quelli italiani non erano forniti di strutture idonee per il ricovero di migranti in attesa dell’imbarco. Chi aveva il biglietto d’imbarco doveva prima affrontare la visita medica e tutti i suoi bagagli erano disinfettati. Poi si procedeva alla verifica dei passaporti e all’apposizione del timbro sul biglietto. Dopo queste formalità, si restava sulla banchina, anche per settimane, in attesa della partenza. La legge obbligava la compagnia di navigazione a badare a proprie spese al loro ricovero in locande autorizzate ma ciò non accadeva quasi mai e gente senza scrupoli faceva pagare all’emigrante il soggiorno in ricoveri di fortuna, ubicati generalmente nei quartieri più sudici e malfamati della città. Case vecchie, semidiroccate, senza acqua, né luce, né aria. In un verbale sanitario del 1903 leggiamo «…dormivano per terra cinquanta migranti, in due stanze sporche, vecchie, umide e puzzolenti…». Lo Stato italiano non si curava di queste drammatiche situazioni. Solo quando a Napoli scoppiò un’epidemia di colera, nel 1911, allora iniziarono a costruirsi dei ricoveri per loro. Ma queste strutture, dalle cronache dell’epoca, venivano paragonate a delle carceri. Migliaia e migliaia di migranti transitavano per i vari porti d’Italia e subivano l’emarginazione delle città.

Appena arrivavano le navi, a loro era destinata la terza classe. C’erano le camerate degli uomini divise da quelle delle donne. Tutta quella gente era definita “tonnellata umana” e dal verbale del 1908 di un ispettore sanitario di bordo, apprendiamo che mangiavano accovacciati con il piatto sulle gambe e un tozzo di pane in mano. Dormivano coi loro vestiti su letti già ingombri di pacchi e valigie. Spesso in questi giacigli si trovavano orina, feci, vomito e sudiciume. Ovviamente in queste condizioni malattie e morti erano frequenti.

Le imbarcazioni, quasi sempre fatiscenti, solcavano le onde dell’oceano e capitava anche che non giungessero mai a destinazione. Molte di queste vecchie navi erano chiamate carrette del mare o vascelli della morte. Non c’era certezza dell’arrivo e basti ricordare il naufragio dell’”Utopia”, avvenuto il 17 marzo 1891 davanti al porto di Gibilterra, in cui morirono 576 italiani e il naufragio della “Borgone” il 4 luglio del 1898 al largo della Nuova Scozia, con più di 500 vittime, per la maggior parte italiane.

Il museo di Ellis Island

Dopo settimane di navigazione si arrivava a New York, a Ellis Island, dove si procedeva alla registrazione nella grande Registry Room. Lì gli italiani erano classificati in italiani provenienti dal Nord o dal Sud. Questa indicazione veniva annotata in una delle ventinove colonne che contenevano altre informazioni. A causa di questa discriminazione spesso i datori di lavoro preferivano migranti provenienti dal Nord Italia. Solo chi superava un’accurata visita medica poteva riabbracciare coloro, parenti soprattutto, che l’attendevano. Chi non la superava, ed era la maggioranza, andava in quarantena nell’ospedale in loco e solo alla fine del periodo poteva ottenere il nullaosta. Per le persone zoppe, menomate, con malattie agli occhi o alla pelle non c’era alcuna possibilità di rimanere in America.
Le donne non accompagnate, se non indicavano uno specifico contatto in terra americana che potesse garantire per la loro moralità, venivano rimpatriate. Ma spesso in questo passaggio si inserivano degli sfruttatori che prima garantivano per loro e poi le avviavano alla prostituzione. Anche i minori non accompagnati dovevano trovare dei garanti e se orfani dovevano necessariamente essere adottati.

Sia a New York sia a Boston sin dal 1892 era presente la Società San Raffaele, fondata da Monsignor Scalabrini, alla quale venivano affidati i casi più pietosi. Edoardo Corsi, direttore di Ellis Island, che era arrivato anni prima come migrante, dichiarò: «Le nostre leggi sul rimpatrio sono inesorabili e in molti casi disumane, particolarmente quando si riferiscono a uomini e donne oneste il cui unico crimine consiste nel fatto che hanno osato entrare nella terra promessa senza conformarsi alla legge. Ho visto centinaia di persone del genere costrette a ritornare nel paese di provenienza, senza soldi e a volte senza giacca sulle spalle. Ho visto famiglie separate che non si erano mai più riunite.
Sfuggire da guerre, violenza e miseria? Nel Museo dell’emigrazione di New York sono ancora oggi esposte vecchie valigie e poveri vestiti appartenenti a chi, disperato per non essere stato accettato, preferiva gettarsi nelle acque del mare gelido della baia. Così era l’accoglienza dei nostri migranti a Ellis Island: dieci ettari di superficie e trentacinque edifici. L’isola delle lacrime.

E oggi? Quale accoglienza a chi arriva sulle nostre coste per cercare un futuro migliore? Sarebbe troppo complicato analizzare in questa sede cifre e statistiche. Desidero solo riportare la mia personale testimonianza.
Licata, la città in cui sono nata e risiedo, è stata, con il suo porto, luogo di approdo delle fatiscenti imbarcazioni di migranti. Avevo ottenuto il permesso di poter assistere e prestare soccorso a donne e bambini/e insieme alle volontarie della Croce Rossa. Un’esperienza che mi ha profondamente segnata.

Sbarco. Foto di Giovanni Salvio

Al primo sbarco, alla vista di quella fatiscente barca trainata dalla motovedetta della Guardia di Finanza, il primo istinto è stato quello di fuggire. Avevo il terrore che nelle pericolose manovre di attracco di quel barcone stracolmo di migranti sarebbero finiti tutti e tutte in mare. Sono rimasta grazie alle rassicurazioni di chi aveva già vissuto simili esperienze.
Donne, con in braccio le loro creature, sono scese da una passerella che a me sembrava molto traballante, ma forse ero io ad avere capogiri per la paura. A una a una sono entrate nella tenda allestita e a loro dedicata. Visi sconvolti, occhi neri dilatati dal terrore, passi lenti carichi di sofferenza, vestiti bagnati, labbra arse. Non parlavano, alcune hanno subito consegnato le loro creature alle braccia invitanti delle crocerossine e si sono sedute a terra. Le volontarie offrivano acqua e pacchetti di biscotti, ma loro non potevano mangiare. Tramite la mediatrice culturale hanno chiesto, come prima cosa, di andare in bagno, ripulirsi, come per riacquistare la dignità di esseri umani. Servivano biancheria intima pulita, fazzolettini detergenti, coperte, maglioni caldi e scarpe. Ma nessuna li aveva. Sono corsa a casa per recuperare quanto più possibile.
Ritornata al porto, erano ancora là, dentro la tenda bianca. Una di loro era seduta a terra, lo sguardo perso nel vuoto, sembrava una bambola di pezza. È arrivata un’ambulanza e una donna in avanzato stato di gravidanza, è stata delicatamente sistemata all’interno per il trasporto in ospedale. Era imminente il parto che, infatti, è avvenuto ventiquattr’ore dopo. Le crocerossine con il medico hanno iniziato le visite. Ho avuto il tempo di vedere le schiene di queste migranti: lividi, bruciature, cicatrici grosse come un dito. Non ci sono parole per descrivere tutto il mio orrore e la mia sofferenza.

Rabbia, compassione, indignazione si leggevano negli occhi di tutti e tutte. Pian piano, dopo la visita è iniziata la lunga processione: a una a una le donne sono salite sugli autobus dove già c’erano altri migranti che aspettavano di essere trasportati a Pozzallo. Il cielo si stava schiarendo, stava arrivando l’alba. Con la forza d’animo residua sono riuscita a regalare solo sorrisi a queste sfortunate donne. Loro ricambiavano e penso ringraziassero il loro Dio per essere arrivate sane e salve sulla terraferma. Non sapevo come sarebbero state accolte dal futuro queste loro vite disperate, ma percepivo che la mia vita non sarebbe stata più la stessa.
Gli autobus blu iniziarono a muoversi, noi salutavamo e loro ricambiavano. Buona vita, buona fortuna: che altri nel vostro percorso vi accolgano con la stessa cura, rispetto e delicatezza. Questa la mia muta preghiera.
C’era già il sole nel cielo, la lunga notte era andata via, ma nel mio cuore rimaneva un’ombra di angoscia. Un’ombra che ancora oggi mi fa paura e amara compagnia.

Sbarco. Foto di Giovanni Salvio

In copertina: sbarco. Foto di Giovanni Salvio.

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Articolo di Ester Rizzo

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Giornalista, laureata in Giurisprudenza, è docente al CUSCA (Centro Universitario Socio Culturale Adulti) nel corso di Letteratura al femminile. Collabora con varie testate on line, tra cui Malgradotutto e Dol’s. Ha curato il volume Le Mille: i primati delle donne ed è autrice di Camicette bianche. Oltre l’otto marzoLe Ricamatrici, Donne disobbedienti Il labirinto delle perdute.

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