Figlio del bosco

Carlo ha gli occhi da buono. I capelli rossi tagliati corti, le spalle già leggermente ricurve, troppo rigide per esser quelle di un adolescente. Mi guarda serissimo, mentre prendo posto nel banco accanto al suo. «Buongiorno» gli dico, abbozzando un leggero sorriso. Le sue mani, appoggiate sulle ginocchia, sono nere come il muschio umido del mattino. La camicia di flanella, che indosserà tutto l’anno incurante dei cambi di stagione, puzza di olio per motori. Quello, quando ti si infila sotto le unghie, non te lo levi più. Lo capirò immediatamente, accompagnando in officina questa classe di apprendisti manutentori. «Prof, io sono uno che preferisce mettere le cose in chiaro da subito. Lei è quella di sostegno?» mi chiede. Ha una esse vagamente sibilante, Carlo. Un tono deciso. Ma la nota dominante del suo semplice eloquio pare venire da molto lontano, dai tempi in cui, su queste montagne, leggere e scrivere era considerato un lusso. «Sono io» rispondo, continuando a guardarlo dritto negli occhi color nocciola, in cui solo ora intravedo una vena di sconsolato, immenso dolore. «Allora deve sapere che purtroppo io sono nato scemo. Non è colpa di nessuno, è andata così. Alcune cose le capisco, altre posso creparci sopra, ma non mi entrano proprio nella zucca. Lei mi deve aiutare. A me il diploma serve». Benissimo, il mio nuovo alunno ha una buona capacità di sintesi, direi. Dritto al punto. «Tranquillo» rispondo «mi pagano per questo».

L’auto avanza lentamente sulla forestale, masticando con rabbia la polvere e i sassi di un’impietosa salita, tutta tornanti e strettoie. Di parapetti nemmeno a parlarne. In fondo a cosa mai potrebbero servire delle inutili barriere, quando sarebbe sufficiente una leggera sbandata per precipitare nel vuoto, giù per la scarpata, svariate centinaia di metri? Soldi buttati via. È una notte fredda, si fa presto a formare il ghiaccio da queste parti e a tratti le gomme slittano pericolosamente. Comincio a sentire qualche fitta alle mani, tanto le tengo avvinghiate al volante. I fari accesi illuminano appena la stretta lingua di terra battuta, ricavata a suon di ascia e piccone tra i faggi e la roccia. Il tributo di uomini, bestie, calli e sudore è stato immenso, ma alla fine i valtellinesi l’hanno avuta vinta. Hanno strappato a bestemmie e fatiche da somari un passaggio alla montagna, aprendosi la via dalla valle al pianoro. Dio solo sa se ne sia valsa la pena. Tutto attorno un bosco che pare non avere mai fine. Ombre sinistre si allungano su ogni lato. Merda, tra qualche minuto dovrò tornare da sola per questa strada maledetta. E mi torneranno alla memoria le antiche storie di perfide strìe, nascoste tra le felci, le leggende sull’Homo Selvadego pronto a fulminarmi con gli occhi di brace, mille volte ascoltate da bambina, davanti al camino. I cari vecchi nonni, così attaccati alle loro narrazioni… «Stia attenta ai cervi» mi dice Carlo, riportandomi al presente «A quest’ora vanno a spasso». Lo sto riaccompagnando a casa. Per festeggiare la conquista della patente, a ventidue anni suonati, l’ho portato fuori a cena. Una pessima idea. L’ultima volta che Carlo è stato in un locale era vestito da damerino per la sua Cresima. Lui i luoghi pubblici li odia: lo mettono a disagio, gli fanno venire il fiato corto. Infatti, questa sera, al ristorante, ha mangiato appena. Di tanto in tanto lanciava sguardi imploranti verso la porta, attendendo il momento in cui, finalmente, avremmo potuto uscire all’aria aperta. La stessa espressione disperata che hanno certi cani, quando i padroni si ostinano a tenerli chiusi in casa, invece di portarli a passeggio. Ha ripreso colore solo ai primi accenni d’alberi, in auto, su per la strada. Qui, nel suo bosco, fra le sue montagne, il cuore di Carlo ritrova il suo ritmo naturale. Al contrario del mio, che sta dando segni di crescente agitazione.
Ora quella a disagio sono io, persa in un paesaggio da film dell’orrore, con accanto questo ragazzo tutto pelle e ossa, che sembra un incrocio perfetto tra Rosso Malpelo e Oliver Twist. «Manca molto?» gli chiedo, con un’evidente nota di nervosismo nella voce. «Qualche chilometro» risponde. Ma non lo sa per davvero. Carlo non riconosce le quantità, se non può vederle, o almeno toccarle. La sua è la mente concreta del meccanico, non quella astratta del filosofo. Forse per questo ha pochi sogni e molti lividi, sparsi sul corpo e nell’animo. Come pensavo, infatti, dopo un paio di curve, raggiungiamo il paese. «Dov’è casa tua?» gli chiedo sollevata. «Per di là» indica col dito. «Ma così usciamo dal centro abitato» gli faccio notare, interdetta. «Infatti. Io vivo nel bosco, in una frazione più avanti» mi risponde sereno. Per un attimo mi viene da svenire. Sto precipitando in un incubo da cui non riesco a svegliarmi. Un incubo ghiacciato e in salita, per giunta. Ci manca solo di perdere i sensi in questo posto dimenticato da Dio. Forza, mia piccola quattro ruote, ancora un ultimo eroico sforzo e finalmente saremo a Itaca.
Mentre la strada si fa sempre più stretta, un ponte medievale, che nessuno si è più preoccupato di manutenere da chissà quanto, a strapiombo su una gola spaventosa, ci si para davanti. «È troppo stretto, non ci passerò mai» dico risoluta. «Ma se ci passo io col trattore!» ridacchia Carlo, divertito. Dopo anni in cui le regole del gioco le ho dettate io, è finalmente arrivato il suo turno. Ora è l’insegnante a doversi fidare dell’alunno. Ad aver bisogno dei suoi consigli. Se quel coso regge il passaggio di un mezzo agricolo, dovrebbe sostenere anche il peso della mia utilitaria. Sempre che Carlo non l’abbia sparata grossa. Con esasperante lentezza, anche il ponticello scompare alle nostre spalle, inghiottito dalla notte, mentre la strada comincia a degradare. Ed eccola, infine, la famosa frazione. Semplicemente desolante. Sei case in tutto, quattro delle quali ridotte a poco più di vecchi ruderi abbandonati. Quella di Carlo è una baita su due piani, mangiata per metà dai rovi e per l’altra metà ricoperta di rottami, ferraglia, legna accatastata. Le bottiglie del padre, scolate fino all’ultima goccia, sono ammassate in disordine davanti alla porta. È questo il rifugio accogliente al quale per anni il mio bravo studente ha fatto ritorno dopo le lunghe ore di scuola? Queste le Sacre sponde, il nido sicuro, custode degli affetti, dei ricordi, del calore necessario per crescere, per diventare uomo? Quante volte, oltre la porta, invece di morbide carezze ha trovato la cinghia del padre ad attenderlo? Il mio passeggero esce dall’abitacolo ringraziandomi. «Prof. faccia attenzione a non travolgere il Giacomino adesso» mi dice indicando il retro dell’auto. Mi volto, cercando con lo sguardo un gatto, un pollo, un cane, un bambino, qualsiasi creatura che possa rispondere al nome di Giacomino. Niente. Sarà anche per colpa di questo improvviso tumulto interiore che mi offusca gli occhi, ma di notte, in queste stramaledette frazioni di montagna, non si vede a un palmo dal naso. Carlo viene in mio soccorso, indicando un punto preciso verso il bosco. Per me è solo buio pesto. Fino a quando un vecchio dalla barba lunga e arruffata esce dagli alberi ed entra nel cono di luce dell’unico lampione disponibile. Ha un bastone di nocciolo a sorreggergli il passo malfermo, la schiena completamente ricurva, le scarpe sfondate ed è vestito di stracci. È inquietante, con quel suo sguardo allucinato, lurido dalla testa ai piedi. Ciò che resta dei pantaloni è tenuto su con un pezzo di spago sfilacciato. Così mi sono sempre immaginata l’archetipo del saggio, povero e vecchio, di Jung.
Carlo gli si fa incontro, si toglie con naturalezza il berretto di lana e lo mette in testa al nuovo arrivato. «Buonasera Giacomo, venga che le presento qualcuno» dice il mio alunno, prendendo a braccetto il canuto girovago. «Andate via!» grida il vecchio, alzando il bastone «Via da casa mia!» Quale casa? Penso. Il bosco? La strada, forse? Carlo mi fa un segno del tutto superfluo, a chiarire che Giacomino non ha tutte le rotelle a posto, se mai mi fosse rimasto il dubbio. Lo guardo mentre prende una delle mani viola e nodose del vecchio e, constatatane la temperatura, gliela sfrega vigorosamente. Non contento, si toglie il cappotto e lo mette sulle spalle di quello che sembra un antico spirito dei boschi, appoggiando con delicatezza l’imbottitura lucida sopra l’ammasso bisunto di stracci bucati. Ma Carlo di carne attaccata alle ossa ne ha ben poca e, appena si spoglia, un brivido di freddo lo fa trasalire. «Venga, Giacomino, venga con me, che le faccio preparare qualcosa di caldo dalla mamma» aggiunge il mio alunno, caricandosi quasi l’anziano montanaro sulle spalle. Proprio lui che è scheletrico. Proprio lui che ha la schiena rovinata. A vederli così, sembrano una moderna riedizione di Enea e Anchise: il figlio che trasporta l’amato padre, a forza di braccia, verso la salvezza. Speriamo solo che la strada non sia troppo scivolosa. Illumino i loro passi con i fari dell’auto. Il vecchio, abbassato il bastone, si abbandona all’abbraccio premuroso di Carlo, che mi saluta con la testa e sparisce tra le case. È tempo di tornare anche per me. A noi due, strada maledetta. Quasi nemmeno le vedo, ora, le ombre sinistre del bosco, le curve, il ponticello da segno della croce. Sono troppo impegnata a gustare il dolce sapore di una nuova certezza che in me si fa strada con indomita forza. No, Carlo. Non sei affatto nato scemo.

Giuseppe Festa
I figli del bosco
Garzanti, Milano, 2018
pp. 208

***

Articolo di Chiara Baldini

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Classe 1978. Laureata in filosofia, specializzata in psicopedagogia, insegnante di sostegno. Consulente filosofica, da venti anni mi occupo di educazione.

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