L’Italiano in Italia

Ho cominciato a insegnare italiano a persone straniere nei primi anni del secolo, in situazioni spontanee e non strutturate: nella città in cui abitavo si erano sviluppati dei momenti di incontro con migranti, animati soprattutto da volontari/e che lavoravano come insegnanti nella scuola pubblica e che al pomeriggio prestavano la loro opera per chi aveva intenzione, e necessità, di apprendere la nostra lingua.
I supporti didattici erano minimi e la gestione delegata alla nostra creatività, combinata con i bisogni di chi frequentava: carta e pennarelli, fotocopie e disegni, in tempi in cui i libri di italiano L2 erano ancora una rarità, e soprattutto mancavano fondi per acquistarli.
Negli anni successivi gli enti locali hanno istituito corsi e oggi l’editoria produce testi utili a vari livelli; tuttavia, sono ancora numerose le associazioni di volontariato, necessarie per chi non può frequentare regolarmente i corsi istituzionali: qui oggi insegno, dopo essere tornata dall’estero. A queste scuole “spontanee” si rivolge chi non è ancora in regola con i documenti, oppure cerca un aiuto informale per orientarsi in un mondo estraneo, dove è capitata/capitato per caso o dove vive da tempo senza un reale inserimento. Noi volontari/e siamo un primo, ma non meno importante, passaggio verso l’integrazione, per questo chi ci frequenta deve trovare un ambiente accogliente, che incoraggi a continuare quello che sarà comunque un percorso complesso: si impara la lingua ma anche a stare insieme, a collaborare tra pari, ad accettare i propri limiti, a conoscere una cultura diversa senza mortificare la propria.

La mattina arrivano gruppi di ragazze, ben diversi dalle iraniane che volteggiavano nere nel cortile dell’università di Teheran: come loro riempiono di suoni l’aria, ma anche di colori gli occhi di chi le guarda. Alcune hanno bambini nel passeggino o più spesso legati sulla schiena da una fascia variopinta.
Le ragazze nigeriane hanno nomi che sono l’augurio di una vita degna: Faith (Fede), Beauty (Bellezza), Hope (Speranza), Blessing (Benedizione). Sono eleganti e ben truccate, non vogliono certo sfigurare quando escono dalla comunità che le ospita: al nostro giudizio orientato verso la sobrietà appaiono senz’altro eccessive con quei colori sgargianti, gli abiti aderenti e scollati, il trucco pesante, le scarpe alte, le extension coloratissime fra i capelli. Chiacchierano, si sorridono, formano un gruppo affiatato e sembrano del tutto disinteressate agli sguardi e ai commenti dei passanti. Entrano e si sistemano intorno al tavolo; le/i bambini sembrano abituati agli spostamenti, il più delle volte restano tranquilli, ma ogni tanto diventano improvvisamente irrequieti e allora non c’è lusinga che tenga, la mamma dura poco a far lezione e deve allontanarsi.

“A casa” hanno frequentato poca scuola: 2-3 anni, qualcuna senza mai scrivere, ripetendo solo quanto diceva la maestra; poi sono rimaste sulla strada, improvvisando mestieri, vendendo bibite o “street food” alle fermate degli autobus, intrecciando i capelli, facendo piccoli lavori di cucito. A un certo punto il deserto, la Libia, il mare, Lampedusa e poi il continente europeo – non se ne parla mai, se non per sottintesi.
Oltre alla loro lingua madre – ce ne sono 500 nella sola Nigeria – parlano un Pidgin English che forse speravano fosse una specie di lingua universale, adatta anche all’approdo; non sempre è facile capirsi, ma soprattutto è insensato qualsiasi insegnamento che non sia intuitivo e orale in questi primi incontri. È la stessa struttura di accoglienza a fornire loro il materiale didattico: un libro, un quaderno, matita e gomma. Il gruppo apparentemente compatto mostra atteggiamenti diversi appena arriva a scuola: alcune si siedono ed estraggono subito il materiale dalla borsa; altre invece sembrano stordite dall’improvvisa libertà. Mi chiedo se venire in centro città, ritrovarsi con le amiche, non rappresenti un’opportunità in sé, perfino più importante dello studio: uscire finalmente dalla comunità, esplorare le strade, osservare i negozi – soprattutto quelli di abbigliamento. La prossima volta le divideremo, otto insieme e così diverse sono troppe, ma per questa volta dobbiamo conoscerci, loro devono ambientarsi, sentirsi incoraggiate, fidarsi.
Allora parliamo: «Ciao, come stai?» funziona quasi sempre; «Come ti chiami, quanti anni hai, da dove vieni?» sono già domande esplorative che possono mettere in difficoltà, ma il gruppo aiuta e qualcuna più esperta traduce in una lingua misteriosa, oppure l’inglese fa da ponte e ci si intende. Ripetiamo a voce, ma quando riporto le parole sul blocco che uso come lavagna mi accorgo dell’interesse per la scrittura, quasi che parlare non fosse abbastanza “scuola” e scrivere, quello sì, potesse davvero servire a imparare. È evidente che alcune non hanno esperienza: scrittura grande, lenta, incerta, mentre altre sono più veloci – chiedo a queste di copiare qualche parola in più.
Un altro gruppo di sole tre ragazze viene dal Camerun; stesse velate allusioni al deserto, a barche fatiscenti e mare mai visto prima. Anche loro curate nell’aspetto, ma tutt’altro che chiassose – timide e riservate, parlano a voce bassa una specie di Patois che ci sarà di grande aiuto: il francese e l’italiano hanno caratteristiche simili, non sarà così difficile esercitare i verbi senza fermarsi all’infinito, verrà loro quasi spontaneo distinguere fra maschile e femminile di sostantivi e aggettivi; perciò procederemo più rapidamente rispetto ai gruppi anglofoni, e con maggiore soddisfazione per tutte. Per prima cosa mescoliamo i nostri francesi: dopo la presentazione – nomi, età, provenienza – qualche osservazione sulle acconciature e sull’abbigliamento rivela che hanno bisogno di vestiti per le/i bambini e così cominciamo a parlare di pantaloni, scarpe, giacche, berretti, sciarpe… seguono i colori, qualche aggettivo e il suo contrario – grande-piccolo, comodo – stretto, bello-brutto.

Dalla Siria, ma anche dalla Somalia, arrivano ragazze velate; le accompagnano parenti maschi, fratello, cugini, padri che fungono anche da interpreti. Il problema con loro è che parlano e scrivono solo arabo, o qualche altra lingua nel caso delle somale, che ostinatamente i parenti definiscono “dialetto”, abituati come sono che queste lingue non scritte – o scritte con caratteri molto diversi, usati solo a livello locale – siano meno importanti. Vengono la mattina perché figlie e figli sono a scuola, ed è proprio con l’alfabetizzazione delle/dei bambini che diventa più importante per loro imparare la lingua per poterli seguire nei compiti e nei rapporti con le insegnanti. La loro esperienza mi conferma che la condizione femminile si ripropone simile in altre parti del mondo: le amiche italiane sposate in Iran raccontavano di essere rimaste completamente escluse dal mondo finché figli e figlie non avevano cominciato a frequentare la scuola e solo allora, faticosamente, avevano appreso la lingua in maniera più organizzata e sistematica.
Queste giovani velate, arrivate da poco tempo, sono silenziose e sembrano a disagio da sole in un ambiente nuovo, si capisce che, almeno per ora, non escono se non accompagnate. In questo caso essere una donna rappresenta un grande vantaggio, perché si instaura subito un rapporto di comunicazione meno imbarazzante: uomo è sinonimo di autorità e soggezione, tra donne invece è facile parlarsi, a volte basta un saluto e qualche parola in arabo – grazie, donna, bambino – perché si apra non solo un sorriso ma anche un varco per costruire un rapporto. La matassa si dipana, insieme cominciamo a fabbricare il nostro tessuto comunicativo – ma, ancora una volta, questa è un’altra storia.

***

Articolo di Rossella Perugi

Laureata in lingue a Genova e in studi umanistici a Turku (FI), è stata docente di inglese in Italia e di italiano in Iran, Finlandia, Egitto, dove ha curato mostre e attività culturali. Collabora con diverse riviste e ha contribuito al volume Gender, Companionship, and Travel-Discourses in Pre-Modern and Modern Travel Literature. Fa parte di DARIAH-Women Writers in History. Ama leggere, scrivere, camminare, ballare, coltivare amicizie e piante.

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