Quando si parla di un Paese di provenienza migratoria, risulta necessario conoscerne diverse questioni che permettano di entrare nel cuore degli a spetti sociali, politici, culturali ed economici. Intendiamo analizzare più da vicino la comunità immigrata dal Bangladesh in Italia. La storia del Paese testimonia il riconoscimento giuridico di uno Stato, piuttosto giovane (1971), dei valori fondanti la sua indipendenza, e vari aspetti culturali-tradizionali che sono spesso strettamente legati al religioso. “Bangladesh” letteralmente unisce “bangla” e “desh”, ovvero “Paese della lingua bangla”, e questo nome è fondamentale per comprendere la nascita e l’orgoglio di una Nazione che basa la propria identità sulla lingua madre. Quando si parla di migrazione bangladese s’intende solitamente un tipo di spostamento prettamente maschile finalizzato spesso al ricongiungimento familiare con mogli, madri ed eventuali altri familiari. Sono rare e difficilmente documentabili le migrazioni di donne che, da sole, decidono di emigrare senza avere almeno un visto di entrata nell’area Shengen.

Con il decreto Flussi i bangladesi giungevano in Italia principalmente attraverso contratti stagionali nel campo dell’agricoltura, che difficilmente venivano poi però rinnovati e clandestinamente rimanevano nell’oblio della burocrazia fino a un’eventuale sanatoria.
Attualmente i flussi sono sempre più rigidi, prevedono solo alcune nazionalità e solo alcune determinate mansioni, ma già da vari anni il Bangladesh era stato eliminato dalle quote del decreto Flussi. Gran parte della migrazione attuale che arriva in Italia, si divide in coloro che riescono a ottenere un visto Shengen (per turismo e per lavoro) e coloro che invece intraprendono, per varie motivazioni, un viaggio via terra, con mezzi di fortuna e tratti a piedi a costo della propria vita.
Il discorso cambia se si tratta di donne, infatti, le bangladesi giungono in Italia quasi sempre attraverso i ricongiungimenti familiari a seguito dei loro genitori o mariti. Si tratta solitamente di donne di età anagrafica minore rispetto a quella dei loro partner, che in molti casi hanno avuto poche opportunità di conoscersi, avendo vissuto anche per anni a distanza con contatti telefonici o via Skype. Solitamente anche le unioni matrimoniali si sono concretizzate telefonicamente per accelerare i tempi burocratici per il ricongiungimento dei due coniugi. Infatti, gli uomini bangladesi tornano solo per poco e limitato tempo nel Paese di origine in occasione delle ferie estive o invernali e spesso questo lasso di tempo non risulta essere sufficiente per provvedere alle nozze e preparare le documentazioni relative.

«Le unioni matrimoniali vengono spesso organizzate dalle relative famiglie che solitamente favoriscono gli uomini che vivono all’estero, sinonimo di uno status vitae migliore, che donerebbe più prestigio all’intera famiglia. Queste donne […] offuscate dal desiderio di una condizione di vita migliore, erano consce della partenza per l’Europa per ricongiungersi con il marito e creare una famiglia» (Carnà, Rossetti, 2019).
Si tratta spesso di giovani donne, illuse da un immaginario sociale che fa sognare loro un futuro migliore in Europa, ma non è sempre così.
I racconti dei connazionali, le immagini via web e sui social network alimentano questo immaginario, ma una volta in Italia queste donne si ritrovano in condizioni precarie: uomini che appena conoscono, poca libertà dovuta al controllo sociale che esercita la comunità di appartenenza, difficoltà di apprendimento della lingua italiana che limita loro l’accesso a tutta una serie di servizi, alloggi in case sovrappopolate da connazionali per la suddivisione di spese, inserimento faticoso nel mondo del lavoro. Nella maggior parte dei casi si tratta di donne che hanno almeno una laurea che però in Italia non viene riconosciuta come titolo.

Perché si emigra? Le motivazioni che sono a monte rispetto alla scelta di emigrare, sono facilmente riconducibili agli stessi fattori che sono alla base delle scelte migratorie per tante altre comunità migranti in Italia. Sino al 1971, anno storico che determina il conseguimento dell’indipendenza del Bangladesh, e ancora prima con la Partizione dell’India del 1947, i conflitti avevano causato consistenti flussi migratori.
Successivamente e fino ad oggi, si emigra dal Bangladesh per motivi economici e politici, in cui sono da includere anche persecuzioni legate alla politica. Non si devono, però, sottovalutare anche le cause dovute ai cambiamenti climatici e al surriscaldamento del globo che coinvolge ogni parte del mondo e la responsabilità sociale di ogni cittadino, rappresentando nel XXI secolo un mutamento globale di grande rilievo. Il Bangladesh, infatti, nel corso della stagione monsonica ha ingenti conseguenze per alluvioni, inondazioni e uragani che ogni anno privano della loro abitazione e a volte anche della vita stessa chi già vive al limite della soglia di povertà. Le mete di destinazione della migrazione sono differenti, l’Italia è al secondo posto dopo l’Inghilterra, tra le più ambite dai cittadini bangladesi. Roma, in particolar modo, viene definita la quarta capitale del Bangladesh, dopo Dhaka, Kolkata (Bengala Occidentale indiano), Londra.

Nel 2017, secondo le statistiche del Ministero dell’Interno, sono stati attestati 8.687 arrivi di cittadini bangladesi irregolari, nel 2016 invece7.578. Secondo quanto riportato dal Rapporto Comunità Bangladese in Italia, al primo gennaio 2017, i cittadini di origine bangladese regolarmente soggiornanti risultano 132.397, il 3,6% dei cittadini non comunitari.
Le donne rappresentano solo il 27,2% della comunità in Italia. Il tasso di occupazione delle donne è molto basso, pari al 10,3%, rispetto al 64% degli uomini. La collettività femminile bangladese risulta pertanto ancora essere molto relegata al ruolo di mogli e madri, solitamente casalinghe.

Per tale ricerca si intendono approfondire aspetti dell’inserimento sociale delle bangladesi nel territorio romano, centro urbano ove la collettività è maggiormente presente con 34.500 presenze (36.558 nel Lazio), secondo gli ultimi dati elaborati dal Quattordicesimo Rapporto dell’Osservatorio Romano sulle Migrazioni (Idos, San Pio V,2019). Perché Roma? Sicuramente la città è notevolmente cambiata, andando a rispecchiare il macro-scenario globale. Una città che somiglia sempre di più a una metropoli piuttosto che a un semplice centro urbano. Oggi Roma da capitale della Cristianità è divenuta, nel giro dell’ultimo ventennio, luogo di accoglienza e di convivenza di culture e religioni differenti. La globalizzazione del resto non favorisce solo lo spostamento di individui e la formazione di nuovi gruppi identitari nel Paese di approdo, ma ogni migrante porta con sé valori, tradizioni e credenze nel proprio bagaglio culturale. Così vengono a ricrearsi reti, relazioni di tipo socio-economico e religioso anche in diaspora, nuove comunità laiche e religiose che si territorializzano, “si fanno spazio” nella città, modificando le proprie modalità e strategie per riadattarsi nel nuovo contesto, dando vita anche a «nuove architetture religiose» in contesti transnazionali.

Le comunità migranti di centottantacinque nazionalità differenti sono distribuite su tutto il territorio capitolino, nelle periferie e nelle semi-periferie, ove i costi alloggiativi permettono di condividere appartamenti tra più connazionali, singoli e/o famiglie. Spesso la crescita economica di alcune città, incentrata in alcuni determinati quartieri per lo più centrali, alimenta un divario socio-territoriale della distribuzione del “benessere” all’interno della stessa comunità locale. Il problema degli spazi contribuisce «al peggioramento complessivo del disagio abitativo in Italia degli ultimi decenni» che causa un «impoverimento anche di fasce sociali precedentemente in grado di sostenere azioni quali l’acquisto, l’affitto e il mantenimento ordinario e straordinario dell’abitazione» (Nocenzi, 2019: 13-14). È in questi luoghi che le collettività di origine migrante si territorializzano, creano reti spaziali e amicali nella terra di approdo. Si parla di una capitale nuova, crogiolo di culture e religioni differenti.
È qui che si colloca la comunità bangladese di Roma, distribuita in tutto il territorio cittadino, ma con una più ampia concentrazione nei quartieri a maggioranza multietnica, come l’Esquilino e Torpignattara. Entrambi hanno una grande presenza di cittadini migranti. È qui che la comunità si territorializza, interagisce con quella autoctona, apre piccole e medie imprese, usufruisce dei servizi della Pubblica amministrazione.

Le scuole del territorio hanno inevitabilmente un’alta percentuale di studenti di origine straniera, che spesso sono nati e cresciuti in Italia da genitori stranieri, ma che, se vi fossero leggi in vigore come in altri Paesi (per es. il Canada), avrebbero già la cittadinanza italiana. La scuola che in particolar modo andò sotto i riflettori nel 2008-2009 fu la primaria “Carlo Pisacane” che contava più del 90% di studenti stranieri.
La legge Gelmini, invece, indicava un tetto massimo del 30% di presenza “straniera”.
Le insegnanti a quel tempo fecero una vera e propria azione politica, affinché bambini e bambine non venissero “deportati” in altre scuole limitrofe e valorizzarono questa ricchezza culturale. Come? Si strutturarono in Associazione (attualmente Associazione genitori della scuola “Carlo Pisacane”) e cominciarono a creare legami con altre associazioni. Negli ultimi anni, la scuola assiste a un incremento dell’utenza italiana, almeno del 50%, grazie all’innalzamento del livello dell’istruzione, considerata una delle migliori romane anche per la qualità dei servizi che offre in orario scolastico ed extra-scolastico. Il tessuto associazionistico ha incrementato di molto il valore della scuola che, insieme alla diversità culturale, rappresenta a oggi uno dei fiori all’occhiello della scuola italiana interculturale. In particolar modo il territorio di Torpignattara, denominato dalla comunità stessa “Bangla-town”, rappresenta uno dei primi luoghi in cui la comunità si è andata a insediare, inevitabilmente si assiste quindi a un secondo cambiamento demografico e territoriale in seguito ai ricongiungimenti.
Fotografie di Stefano Romano.
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Articolo di Katiuscia Carnà

Docente in Ricerca Educativa e Sociale, si occupa di educazione religiosa delle nuove generazioni di musulmani nella città di Roma. Laureata in Lingue e Civiltà Orientali, nel 2008 ha vinto una borsa di studio per la Jadavpur University in Kolkata (India). Ha conseguito Master Internazionali in “Sociologia, teoria, ricerca e metodologia”, e in “Religioni e mediazione culturale”. È co-autrice di Kotha. Donne bangladesi nella Roma che cambia e di Roma. Guida alla riscoperta del Sacro.