«Mai nella storia i massimi imperi si sono trovati contemporaneamente in crisi. Al punto da tutti temere per la propria esistenza. Condizione intollerabile per chi dalla nascita coltiva una grandiosa idea di sé. I colossi fiutano il pericolo prima degli altri. L’aria rarefatta che si inala alle vette della potenza eccita la sensibilità al declino. Ne fa ossessione. Facile perdere il controllo. E finire fuori strada, trascinando con sé rivali, soci e passanti. Se poi i protagonisti dispongono di armi definitive, tanto evolute da potersi rivoltare contro chi presume di maneggiarle, scatta l’allarme generale. Con l’inevitabile guerra delle narrazioni. Crolla il principio di realtà. Nulla è certo, tutto è credibile. La comunicazione intossicata disinforma financo i decisori che la producono…». Così comincia l’editoriale del primo numero di Limes dell’anno, a un anno dallo scoppio del conflitto in Ucraina, dal titolo La guerra continua, continua da intendersi nel duplice significato, di guerra che sta continuando o come aggettivo, come un fenomeno bellico che ha una sua continuità. Guerra Grande.
La prima parte del volume Il senso strategico della guerra Ucraina, prova a rispondere alla domanda di uno dei sottotitoli della rivista: «Nessuno può vincere, nessuno può perdere?», dando voce, come sempre, a diversi punti di vista. Molto interessante l’analisi contenuta in Un nuovo tipo di guerra mondiale del Direttore di Russia in Global Affairs Fëdor Luk’janov, nella traduzione di Martina Napolitano, che, richiamando anche le parole di Papa Francesco, parla di un nuovo ordine mondiale che si sta profilando, soffermandosi sulla importanza per la Russia di vincere questa guerra, senza dimenticare di riflettere sui pericoli del possesso della bomba atomica da parte delle principali potenze. Nell’intervista a Mankov emerge la visione imperiale degli Usa, che non intendono condividere con altre potenze il primato nel mondo. Il ricercatore al Center for Strategic Research della National Defense University. ammette che gli Usa hanno molti problemi interni da risolvere e che Biden nella gestione di questo conflitto dimostra di essere un atlantista a tutto tondo le cui posizioni non sono condivise da una parte della popolazione, che vorrebbe l’America più concentrata sulla risoluzione delle proprie questioni. Da meditare le sue parole sull’efficacia delle sanzioni, che nella narrazione dei nostri media sono sempre e solo semplicemente annunciate, come se i loro effetti fossero tout court automatici e adeguati alla distruzione dell’economia russa e non avessero alcuna conseguenza sulle nostre economie. Di seguito le affermazioni di Mankov: «Se lo scopo delle sanzioni era impedire una guerra, hanno chiaramente fallito. Se era far smettere l’aggressione dopo il 24 febbraio, hanno fallito. Se era innescare proteste contro il regime, hanno fallito e probabilmente continueranno a fallire. Se era indebolire le capacità russe di rigenerare risorse utili alla guerra, direi che hanno avuto successo e ne avranno ancora di più se resteranno in vigore». (Sul punto si veda anche il Dossier di GIGA pubblicato sul numero 208 link e l’articolo di Fabrizio Maronta Le sanzioni tra maschera e volto, nella seconda parte della rivista).

La visione della Cina sulla guerra è nell’articolo di You Ji, Professore di Relazioni internazionali e capo del dipartimento di Governo e Pubblica amministrazione dell’Università di Macao, La Cina si vede così: contro l’America e sopra la Russia, un saggio da leggere attentamente perché mette in evidenza i rapporti commerciali e gli investimenti della Cina con Kiev prima della guerra e l’apprezzamento del Dragone per il fatto che questo conflitto distrae gli Usa dalla questione di Taiwan. Questo saggio va aggiornato con il Piano per la pace di Pechino in dodici punti, pubblicato dopo l’uscita del numero 1 di Limes 2023, piano che rappresenta un punto di partenza per la risoluzione del conflitto, anche se subito respinto dagli Usa, che vedono nella Cina il rivale più temibile. Da consigliare vivamente Washington gioca col fuoco, un articolo che dalla stampa italiana mainstream sarebbe definito come minimo “putiniano”, per la serie di dati e fatti che contiene, scritto da Doug Bandow, Senior Fellow al Cato Institute. già Special Assistant del presidente Ronald Reagan, autore di Foreign Follies: America’s New Global Empire. Valga per tutti questo esordio: «Il conflitto tra Ucraina e Russia imperversa da un anno. Scatenare il demone della guerra è stato un crimine terribile e ingiustificato, malgrado le molte menzogne e provocazioni dell’Occidente. Tuttavia, i paesi Nato dovrebbero smetterla con le grida di battaglia. America ed Europa non sono innocenti: Washington e i suoi alleati fanno ciclicamente guerre contro Stati più deboli e hanno ucciso molte più persone della Russia, comprese centinaia di migliaia di civili – involontariamente, certo, ma ciò importa poco ai morti e ai loro cari – in Iraq, Libia, Afghanistan e Yemen. Ci sono anche le vittime innocenti delle letali sanzioni economiche, sulle quali una fredda Madeleine Albright disse: «È un prezzo che vale la pena pagare» E ancora: «L’invasione russa dell’Ucraina è stato un atto di aggressione criminale, ma ciò purtroppo non la rende unica, malgrado le isteriche asserzioni contrarie. Oltre quarant’anni fa l’Iraq di Saddam Hussein invase l’Iran, innescando otto anni di carneficina in cui Washington sosteneva l’aggressore. Morti stimati: oltre un milione. Il decennio successivo vide i massacri nella Repubblica Democratica del Congo, in cui si calcola siano morti circa 5,4 milioni di persone. Pochi in America e in Europa si preoccuparono di quell’immane tragedia. Nel 2003 è stata la volta della gratuita invasione statunitense dell’Iraq sulla scorta delle inesistenti armi di distruzione di massa, con l’acquiescenza – se non il sostegno – di svariati esecutivi europei».

Come sempre approfondito il saggio di Mauro De Bonis e Orietta Moscatelli su Putin, L’imperatore è solo come il suo impero. In un colloquio con Limes Vladimir Gel’man, professore universitario a San Pietroburgo e Helsinki, fine analista dei meccanismi del potere russo, sostiene: «Molti capiscono perfettamente che le cose non vanno come avrebbero dovuto, ma non si va oltre la constatazione, alternative non ce ne sono e non ci saranno finché Putin sarà al potere. Potrebbe trattarsi di un periodo ancora lungo». Il passaggio dal Putin collettivo a un Putin sempre più singolo non è solo la conseguenza di una guerra che gli era stata prospettata come un’operazione lampo, ma di «una evoluzione del sistema che dal 2012 è sempre più marcatamente personalistico, ha gradualmente eliminato ogni dissenso e depotenziato i contrappesi al leader unico: gli oligarchi, i responsabili regionali, gli apparati amministrativi». Con l’inizio della guerra, ai cinema è stato ordinato di proiettare documentari sul conflitto, al ministero dell’Istruzione di «aggiornare» in gran fretta i libri per le scuole dell’obbligo. La solitudine e le difficoltà del capo del Cremlino sono anche quelle dell’intera Federazione Russa, paese in guerra che deve vedere il proprio posto nel mondo: «Sfornito di autentici alleati di peso e tranciati i legami con Europa e Occidente tutto, l’erede del già impero sovietico si trova giocoforza costretto a guardare altrove per provvedere al sostentamento delle sue genti e mantenere alto il profilo di potenza. Svoltare definitivamente verso oriente appare la soluzione più naturale, sia perché la Russia è eurasiatica per geografia e storia, sia perché conta sulla possibile integrazione del macrocontinente ora che l’ordine globale a guida americana è a parere di molti avviato al tramonto».

L’editoriale di Caracciolo ci ricorda che quest’anno i liceali russi sono invitati da Putin a partecipare al concorso a premi «Novorossija: da Caterina la Grande ai nostri giorni», in occasione del duecentoquarantesimo anniversario del manifesto con cui Caterina di Russia incorporava nell’impero «Crimea, penisola di Taman’ e territorio di Kuban’ – nucleo originario della Novorossija (Nuova Russia), affaccio russo sul Mar Nero (figura). I giovani patrioti sono esortati a «immergersi nella storia» per «ricostruire la Russia e riprenderci tutto quello che è nostro, indipendentemente dall’opinione e dall’opposizione dei nostri partner occidentali – sostiene Putin – destinata a durare a lungo». Cinque le nominations neorusse tra cui scegliere per sfogare la propria creatività: «Nato dal profondo dell’anima» (bibliografia); «Fermati un attimo» (pittura); «Melodie della Novorossija» (musica); ArchHistory – licenza occidentale sfuggita al correttore; «Destini» (vite di personalità storiche). Obiettivo: mobilitare gli studenti nello «studio di eventi storici che testimoniano la comunanza culturale di Russia e Nuova Russia». Pura pedagogia imperiale». La riconquista della Nuova Russia, ci ricorda il direttore di Limes, eleverebbe Putin a erede della grande Caterina. Secondo Putin, «in tempi zaristi ciò che si chiamava Nuova Russia – Kharkov, Lugansk, Doneck, Kherson, Nikolaev e Odessa – non era parte dell’Ucraina. Quei territori vennero dati all’Ucraina negli anni Venti del Novecento dal governo sovietico. Perché? Chissà. (…) Il centro di quella terra era Novorossijsk, sicché la regione è chiamata Novorossija».

Se si vuole avere un quadro di come evolve la percezione russa del conflitto, le interviste di Igor Pellicciari testimoniano che «Per Mosca questa è oramai una guerra contro gli Usa, più che contro l’Ucraina. In Occidente non è abbastanza considerata l’importanza assunta dal sostegno statunitense a Kiev nella ridefinizione della percezione russa del conflitto. Collocarlo all’interno dell’ampia cornice della tradizionale contrapposizione con Washington permette di storicizzarlo come ennesima occasione di uno scontro a puntate tra eterni duellanti». Per chi segue con interesse gli aspetti militari della guerra l’articolo di Mussetti fornisce informazioni fondamentali, partendo dal discorso del 25 gennaio scorso di Biden, in cui il Presidente statunitense ha così riassunto i primi undici mesi del conflitto: «La Russia si aspettava la finlandizzazione dell’Europa, ma deve invece fare i conti con l’atlantizzazione della Finlandia».
Il punto di vista degli Ucraini emerge da due articoli di Greta Cristini, in cui l’autrice intervista sul futuro della Crimea Tamila Tasheva, rappresentante permanente della Presidenza ucraina per la Crimea, secondo cui «La Crimea tornerà ucraina»; e con Oleksij Arestovyč, già consigliere del capo dell’Ufficio del presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj che afferma: «Siamo pronti a negoziare con chiunque succederà a Putin».
L’articolo che ho trovato più interessante in questa parte, per quello che racconta e che non è riportato dai media generalisti è quello di Fulvio Scaglione, L’Ucraina di domani può spaccare l’Europa. Si tratta di un approfondimento coraggioso su quanto è accaduto nel Paese che è stato invaso dalla Russia e in soccorso del quale 27 Paesi dell’Unione Europea più Gran Bretagna e Stati Uniti si sono mobilitati in modo repentino e inaspettato.
La narrazione occidentale di quanto sta avvenendo in Ucraina, ricorda Scaglione, «è surgelata nell’immagine che l’Occidente ha voluto dare di questa guerra e che Kiev, per comprensibilissime ragioni (cioè, per avere le armi con cui difendersi e il denaro con cui sopravvivere), si è acconciata a adottare e a promuovere. E che, forse semplificando, possiamo sintetizzare così. La Russia invade perché è un paese con l’imperialismo nel dna; è lo scorpione che morde la rana, anche se questa gli fa attraversare il fiume, perché mordere è nella sua natura. L’Ucraina combatte per la libertà sua e nostra, combatte per la democrazia di tutti. Bisogna sostenere l’Ucraina per evitare che l’idea e la pratica della democrazia vengano erose prima qui e poi chissà dove, con un ragionamento che molto somiglia a una riedizione della «teoria del domino» che il presidente americano Dwight Eisenhower illustrò nell’aprile 1954. Teoria che portò a una lunga serie di interventi militari in tante parti del mondo e che oggi consente di costruire un efficace parallelo mediatico tra la Russia di Vladimir Putin e l’Unione Sovietica di Iosif Stalin».
Ma in Ucraina accade molto di più e non se ne parla mai. Le teste saltate nel corso dell’ennesima purga decisa dal presidente Zelens’kyj, con l’obiettivo di combattere la corruzione sono state tante: il viceprocuratore generale Oleksij Symonenko, i procuratori di cinque oblast’ (Zaporižžja, Kirovod, Poltava, Sumy e Černihiv), il sindaco della stessa città di Poltava, quattro governatori (delle oblast’ di Dnipro, Zaporižžja, Sumy e Kherson), il vicecapo dell’amministrazione presidenziale Kyrylo Tymošenko quattro viceministri (Vasyl’ Lozyns’kyj delle Infrastrutture, V’yačeslav Negoda e Ivan Lukerya dello Sviluppo territoriale e comunitario, V’yačeslav Šapovalov della Difesa). E Šapovalov, che alla Difesa era responsabile dell’assistenza logistica alle Forze armate. Che l’Ucraina indipendente abbia un problema trentennale di corruzione imperante è noto. Eppure, scrive Scaglione, si ha la sensazione che, «in questo presunto repulisti ci sia una discreta quota di cosmesi, per mostrare al mondo che cambia tutto mentre cambia poco. Primo, saltano solo i vice. Il vero cerchio magico zelenskiano ancora una volta ne esce indenne. Secondo, i governatori e i politici locali quasi mai appartengono a Servo del popolo, il partito del presidente, che alle elezioni amministrative del 2020 fu sconfitto praticamente ovunque. Terzo, la purga resta la risposta tipica di Zelens’kyj nei momenti di difficoltà». Anche se Scaglione non ha mai pensato che con l’operazione militare speciale la Russia volesse riprendersi l’intera Ucraina, questa è la vulgata diffusa e Zelens’kyj si prepara alla ricostruzione dopo la fine della guerra, che viene definita «esistenziale» nel senso che deciderà degli equilibri mondiali per chissà quanti decenni a venire e che il leader di “Servo del popolo” è deciso a vincere.
Sarà bene ricordare ciò di cui non si parla mai: con pochi tratti di penna su qualche decreto, approfittando delle leggi emergenziali e della legge marziale, «Zelens’kyj ha messo fuorilegge qualunque forma organizzata di reale opposizione politica. A destra come a sinistra. Prima della guerra erano state tacitate con la revoca della licenza e il sequestro dei beni le televisioni come Zik, Newsone e Ukraine legate ai partiti filorussi come Piattaforma di opposizione per la vita. Poi, a guerra iniziata da venticinque giorni, sono state sospese le attività di undici partiti. In primo luogo quelle di Piattaforma di opposizione per la vita e Blocco di opposizione». In questo modo in Parlamento non c’è più opposizione. Ma non basta. «La grande maggioranza dei partiti messi al bando con la generica accusa di essere filorussi (che è diventata il passepartout di una miriade di provvedimenti) non era nemmeno rappresentata in parlamento, e andava dal partitino personale come il Partito di Šarij al Partito socialista d’Ucraina. Di fatto, dopo quel provvedimento hanno potuto operare legalmente in Ucraina solo i partiti governativi di sicura fede zelenskiana e la destra di Svoboda, fondato e diretto da Oleh Tyahnybok, a suo tempo già fondatore della formazione di ispirazione neonazista Partito social nazionalista ucraino. Si produce così, dal punto di vista della pratica democratica, un risultato paradossale: un partito pure assurdo come quello di Šarij, che aveva raccolto nel 2019 il consenso del 2,24% dei votanti (327.152 persone, tutte filorusse e traditrici?) è stato cancellato mentre Svoboda e compagni, con il loro 2,16% dei voti (315.568 persone) hanno ricevuto la patente non solo di legalità ma di autentico patriottismo. Ma l’accusa di filoputinismo, putinismo o addirittura di tradimento passa come uno schiacciasassi su qualunque altra considerazione […] Per non parlare poi dei casi clamorosi come quello di Denys Kireev, finanziere e membro della prima delegazione ucraina che provò a trattare con i russi. Nel febbraio 2022 Kireev è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco nel centro di Kiev. Come si disse allora, da agenti dei servizi segreti ucraini che cercavano di arrestarlo perché, appunto, colpevole di tradimento a favore dei russi». Interessante nel saggio di Scaglione la parte relativa all’emarginazione della Chiesa ortodossa russa, a cui si rinvia.

Sarà utile sapere, anche per valutare la connotazione che l’Unione Europea potrebbe avere con l’ingresso dell’Ucraina, che «nel periodo natalizio il presidente ha controfirmato una legge molto discussa, approvata dal parlamento dopo anni di discussioni, considerata liberticida sia dall’Unione dei giornalisti ucraini sia dalla Federazione europea dei giornalisti, che l’ha definita «degna dei peggiori regimi autoritari».
Una legge di cui persino Open Democracy, difficilmente sospettabile di atteggiamenti anti-ucraini, dice che è una cosa che nemmeno ai tempi delle presidenze di Kučma e Janukovyč si era mai vista. E Kučma era uno accusato di aver fatto uccidere il giornalista Heorhij Gongadze nel 2000. Questa legge affida al Consiglio nazionale per la tv e la radio, cioè a una commissione statale, il controllo assoluto su tutti i media, con un potere totale di intervento ed eventualmente di censura. Considerato che già il più potente e seguito strumento informativo, la televisione, opera in regime di canale unico statalizzato, la nuova legge somiglia tanto a un tentativo di tirare le redini alla galassia di siti e canali assortiti che per ora sono sfuggiti ai controlli e che, pur nel generale sostegno alla causa patriottica e antirussa, hanno mantenuto qualche margine di autonomia».
È prerogativa delle persone pensanti chiedersi «Che cos’abbiano a che fare la censura sui media, la discriminazione tra le Chiese, le continue epurazioni per via poliziesca all’insegna del possibile tradimento, lo sfruttamento delle destre più becere ed estreme dietro il fragile schermo della dignità nazionale con quei valori di democrazia e tolleranza così cari all’Europa e di cui l’Ucraina sarebbe addirittura la prima linea di difesa di fronte al potenziale dilagare dell’autocrazia. E soprattutto se questi provvedimenti, che oggettivamente avvicinano Kiev più a Mosca che a Bruxelles, siano temporanei, cioè dovuti allo stato di estrema emergenza e quindi eventualmente revocabili, o siano invece i tratti con cui l’Ucraina del futuro vorrà caratterizzarsi e gli strumenti con cui la classe dirigente vorrà governare il paese.
Un’Ucraina fortemente nazionalista andrebbe probabilmente a saldarsi con paesi come i baltici, la Polonia, la Repubblica Ceca, gli Stati dell’Europa del Nord, forse anche l’Ungheria, spostando in senso conservatore, sovranista e iperatlantista gli equilibri politici dell’Unione Europea che già scontano il declino della Germania, la parziale emarginazione della Francia, la latente ma perenne crisi dell’Italia…»
(continua)
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Articolo di Sara Marsico

Ama definirsi un’escursionista con la e minuscola e una Camminatrice con la c maiuscola. Docente per passione da poco in pensione, è stata presidente dell’Osservatorio contro le mafie nel sud Milano e referente di Toponomastica femminile nella sua scuola. Scrive di donne, Costituzione e cammini.
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Grazie Sara, per la chiarezza e completezza dei tuoi contenuti.
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