Media e diversità. Per una narrazione rappresentativa 

Nonostante l’odierno panorama mediale risulti sempre più affollato grazie al continuo affermarsi e diffondersi delle piattaforme e dei social network, sembra che l’autorevolezza delle fonti e la professionalizzazione di giornalisti e giornaliste siano passate in secondo piano. In un momento storico caratterizzato dall’incredibile facilità di accesso alle informazioni e dalla possibilità di poter usare il web per esprimere pubblicamente la propria opinione, risulta che la professione del giornalismo abbia perso il suo valore e la sua stimabilità. La concezione utilitaristica dei media digitali ha fatto in modo che nel mondo dell’informazione si insidiasse una subdola competizione, per cui chi arriva in prima posizione riceve in premio like, retweet, condivisioni e interazioni. Questo a scapito del contenuto, dell’approfondimento, della ricerca e della passione, solo alcune delle caratteristiche che descrivono – o almeno dovrebbero descrivere – l’etica del giornalismo. La questione si fa ancora più delicata quando si entra nel merito di tematiche non convenzionali, in genere sconosciute e decisamente lontane dal conquistare una posizione di rilievo nella gerarchia mediale. Rappresentare le diversità diventa così un duro esercizio per gli esperti e le esperte di comunicazione. 


Partendo dal principio secondo il quale ciò che non si riesce a vedere non può diventare un esempio, il compito del giornalismo nella rappresentazione della diversità dovrebbe essere quello di restituire alla collettività storie provenienti da ambienti nascosti, dimenticati, discriminati. Tale restituzione è indispensabile all’affermazione di una società dell’informazione realmente democratica, in cui accedere all’informazione significa compiere un percorso di documentazione, scoperta, riflessione e condivisione di valori comuni in grado di porre le basi per una cittadinanza sempre più attiva e consapevole. A questo punto, sembrerebbe quasi banale ricordare che il giornalismo è un impegno civico, sociale e morale oltre che professionale, eppure il frenetico incalzare delle nuove tecnologie sembra affievolire l’etica della professione, ormai in preda agli essenzialismi e alle banalizzazioni dicotomiche.  


Certamente, il primo e più importante passo verso rappresentazioni mediali della diversità rispettose e dignitose è l’uso di un lessico democratico, inclusivo ed espansivo. Proprio a partire dalla lingua è infatti possibile rinforzare stereotipi socioculturali, tramandati nello spazio e nel tempo dai linguaggi famigliari, sociali, culturali, istituzionali, e così destinati a essere interiorizzati e naturalizzati dagli individui. Qui risulta fondamentale la distinzione natura-cultura: la cultura, così come il linguaggio, è una costruzione umana forzata sulla natura, non vi è nulla di naturale nella ripetizione di simboli e linguaggi apparentemente e storicamente innocui, in realtà profondamente denigratori nei confronti di individui e categorie altre. Stabilire che il maschile neutro sia la scelta più opportuna per parlare di entrambi i generi grammaticali è uno degli esempi più rappresentativi della volontà – conscia o inconscia – di rafforzare i rapporti di potere nella società, i quali prevedono che la donna resti in ogni caso nascosta dietro l’uomo, anche nell’applicazione quotidiana della lingua e della grammatica italiana. A questo proposito, si rimanda alla doverosa e magistrale disamina di Stefania Cavagnoli e Francesca Dragotto su sessismo linguistico nella coscienza condivisa in Sessismo, Milano, Mondadori Università, 2021.

Le parole sono fondamentali, descrivono la realtà, rappresentano il mondo e comunicano sensazioni ed emozioni. Ma non solo, permettono l’identificazione e il riconoscimento sociale degli individui: tramite questo riconoscimento, che avviene attraverso l’interazione, si costruiscono le relazioni sociali e i rapporti di potere. Dunque, alla maniera di Pierre Bourdieu, l’individuo avverte tanto la necessità di autodefinirsi quanto quella di lasciarsi definire. In virtù di tale logica, è impensabile che un soggetto o una categoria assenti nelle narrazioni mediali e riconosciuti dalla collettività attraverso stereotipi e pregiudizi aprioristici possano entrare a far parte del dibattito pubblico.  


Parlando di minoranze e categorie sensibili, il lavoro da compiere è quello di dare vita a un confronto diretto, in grado di portare alla luce tutto ciò che non si riesce a vedere e osservare da una posizione di privilegio, qui inteso come l’impossibilità sostanziale di immedesimarsi empaticamente e totalmente nei protagonisti e nelle protagoniste delle storie di diversità che si vogliono raccontare. Solo dando loro voce è possibile lasciar parlare, comunicare, stabilire un contatto informativo ed emotivo con l’utente che legge la notizia. Oltre che alla condivisione di valori e sensazioni, tale confronto comunicativo e informativo sarebbe potenzialmente in grado di raggiungere le istituzioni dal basso nell’ottica di un’idealtipica sfera pubblica habermasiana, poiché un riconoscimento formale è proprio ciò che manca a coloro lasciati indietro sia dall’agenda mediale che dall’agenda politica e istituzionale.

La sfida ultima della professione del giornalismo è proprio questa: al di là delle pratiche redazionali, dell’autonomia e della professionalizzazione, compito dei giornalisti e delle giornaliste è quello di far emergere dal sommerso della realtà tutto ciò che è invisibile, dimenticato, denigrato, o ancora volontariamente distorto e manipolato. Una narrazione mediale della diversità potrà finalmente essere rappresentativa quando la professione avrà svolto il suo sacro ruolo e gli individui direttamente interessati da tale comunicazione avranno ricevuto il posto che spetta loro nella gerarchia mediale, oltre che sociale e culturale. 

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Articolo di Giacomo di Benedetto

Laureato in Lingue, Culture, Letterature, Traduzione e attualmente iscritto a Media, Comunicazione Digitale e Giornalismo presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Si sta specializzando in linguaggi espansivi e narrazioni decisive per la ridefinizione dei ruoli socioculturali all’interno dell’arena di genere, comprensiva di tutte le diversità sottorappresentate dal sistema mediale.

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