Un anniversario storico

Il 9 febbraio del 1963 veniva approvata la legge n. 66 che all’articolo 1 recita: «La donna può accedere a tutte le cariche, professioni e impieghi pubblici, compresa la Magistratura, nei vari ruoli, carriere e categorie, senza limitazione di mansioni e di svolgimento della carriera, salvi i requisiti stabiliti dalla legge» e il 3 maggio dello stesso anno venne bandito il primo concorso in magistratura aperto alle donne, che fu vinto da Letizia De Martino, Ada Lepore, Maria Gabriella Luccioli (la prima Presidente titolare della prima sezione civile della Corte di Cassazione), Graziana Calcagno Pini, Raffaella D’Antonio, Annunziata Izzo, Giulia De Marco ed Emilia Capelli, tutte entrate in servizio il 5 aprile 1965

Durante i lavori dell’Assemblea Costituente il dibattito sulla parità di accesso alla magistratura per uomini e donne era stato infuocato: «Con tutto il rispetto per la capacità intellettiva della donna – affermava l’onorevole Enrico Molè – ho l’impressione che essa non sia indicata per la difficile arte del giudicare. Questa richiede grande equilibrio e alle volte l’equilibrio difetta per ragioni anche fisiologiche».

Giuramento delle prime giudici

Da allora la composizione e la natura della magistratura appaiono profondamente mutate: oggi, su 8678 magistrati in servizio, 4006 sono donne, composizione che ha inevitabilmente riequilibrato la presenza dei generi ma soprattutto arricchito l’attività interpretativa offrendo un punto di vista prima trascurato in un contesto maschile per eccellenza come quello dell’interpretazione della legge. Oggi le donne in magistratura sono oltre la metà, ma quelle titolari di uffici semidirettivi rappresentano ancora solo il 7,6% e quelle titolari di uffici direttivi appena il 5,4%. Le donne che svolgono funzioni di legittimità in Corte di Cassazione sono sedici, a fronte di 260 uomini, mentre nella Procura Generale ce n’è addirittura solo una su 39. L’equiparazione dunque non è ancora del tutto avvenuta, ma il percorso è avviato. Per la prima volta una donna è prima presidente della Corte di Cassazione, la dr.a Margherita Cassano, e nel giro di qualche anno si assisterà inevitabilmente all’aumento di tale presenza e altre donne si aggiungeranno alle attuali tre Presidenti di sezione in servizio presso la Corte di Cassazione.

Nel mese di marzo dello scorso anno è stata pubblicata dal Csm, il Consiglio superiore della magistratura, la relazione aggiornata sulla Distribuzione per genere del personale di magistratura. Essa contiene l’analisi dei dati statistici relativi alla presenza delle donne nel settore: in particolare, oltre a rappresentare la distribuzione secondo il genere del personale di magistratura attualmente in servizio, viene esaminata quella dei vincitori e delle vincitrici di concorso a partire dal 1965, anno che, come si è detto, ha visto entrare le prime donne nei ranghi del personale togato. Si legge, per esempio, che al 2 marzo 2022 i magistrati presenti in Italia ammontavano a 9576 e che la distribuzione secondo il genere mostrava una prevalenza di donne: 4293 magistrati di sesso maschile e 5283 di sesso femminile (pari al 55% circa). È interessante, poi, conoscere l’evoluzione storica della distribuzione per genere nell’ambito dei vincitori del concorso per l’accesso alla magistratura. Nella relazione si richiama dapprima la legge n. 66 del 1963 e successivamente si fa riferimento alle prime 27 donne che sono entrate nel personale di magistratura nel 1965 (in 3 diversi concorsi) e che rappresentavano il 6% dei vincitori. E si legge ancora nella relazione: «Analizzando la serie storica dei vincitori del concorso di magistratura dal 1965 a oggi emerge che il sorpasso rosa tra i vincitori di concorso avviene per la prima volta nel 1987, quando, tra i nuovi 300 magistrati, le donne furono 156. Negli anni immediatamente successivi il trend della percentuale di donne vincitrici del concorso è altalenante fino al 1996 ma, da questo momento in poi, il numero delle donne vincitrici del concorso in magistratura è sempre superiore a quello degli uomini, in particolare il divario si allarga a partire dal 2007. Nel concorso del 2020 le donne hanno rappresentato il 63% dei vincitori ma è solo dal 2015 che il numero totale di donne presenti in magistratura ha superato quello degli uomini». 

Le giudici ricordano quindi il 9 febbraio 1963 come una data fondamentale per il loro ingresso in Magistratura. Il Parlamento fu direttamente sollecitato dalla pronuncia della Corte costituzionale n. 33 del 1960, che aveva dichiarato illegittimo l’articolo 7 della legge 1176 del 1919 nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche, a seguito della proposta di un gruppo di deputate democristiane (guidate da Maria Cocco e composto da Maria de Unterrichter Jervolino e dalla ex costituente Angela Gotelli) che chiese l’abrogazione della intera legge del 1919. A tutte le donne che, dall’Assemblea costituente alle aule parlamentari, nelle aule di giustizia e nelle istituzioni, si batterono affinché l’articolo 3 della Costituzione non restasse lettera morta ma garantisse pari dignità sociale e uguaglianza di fronte alla legge a tutti i cittadini senza distinzione di sesso e a quelle giudici che furono pioniere nel cambiare e modernizzare sia il diritto che la giurisdizione, va oggi tutta la gratitudine dell’Associazione nazionale magistrati nella consapevolezza che, anche sessant’anni dopo la caduta di ogni divieto all’accesso delle donne in magistratura, diritti e principi costituzionali vanno tutelati e riaffermati ogni giorno.

La giudice

Paola Di Nicola

Mi sentivo osservata da tutti perché ero fuori posto, fuori contesto, con quella camicetta a fiorellini piccoli che mi aveva regalato mia sorella Elisa e la collana di perle di zia Luciana. I miei amuleti dei giorni difficili che, però, lì dentro, stonavano in modo inopportuno con le divise blu scuro della polizia penitenziaria. Nel carcere non potevano esserci colori vivaci, occhi azzurri ridenti e capelli biondi leggermente spettinati, accompagnati da quel frivolo ticchettio sul pavimento. Percepivo che con quel modo di apparire, di camminare, di riempire i corridoi avrei rischiato di non essere presa sul serio, per quello che ero e che istituzionalmente rappresentavo». Perché il dubbio di non apparire autorevole in quanto donna? Perché questo timore torna come un tarlo nella mente della giudice Paola Di Nicola, quando nel suo libro La Giudice. Una donna in magistratura si domanda se le persone presenti nell’aula del Tribunale non avrebbero preferito trovare un uomo al suo posto? «Le signore e i signori presenti in aula non sapevano che fosse una donna a esaminarli, interrogarli, giudicarli. Sul foglio ricevuto a casa c’era scritto un nome puntato e un cognome. Anonimi e senza differenza come la toga nera […] Sono una donna e mi chiamo Paola. Vorrei essere nella mente di coloro che ho di fronte, per sapere se avessero sperato di avere di fronte un Pietro, un Patrizio, un Paolo, un Pierluigi, un Piercamillo e non una Paola. Ma, più ancora, vorrei sapere il perché: la domanda in cui si annidano secoli di pregiudizi». Perché, dunque, la giudice Di Nicola è portata a chiedersi se l’appartenenza al genere femminile la renderà meno autorevole di fronte a un imputato e a un’aula di tribunale? La risposta è offerta a più riprese e con estrema chiarezza dall’autrice: anche lei, come tutte le giudici, ha ereditato una storia di esclusione dall’esercizio della magistratura e come tutte le donne porta con sé una memoria millenaria di subordinazione e marginalizzazione. «Mentre per un uomo c’è solo – si fa per dire – la difficoltà oggettiva di mettersi alla prova per quello che si rappresenta e che si è, ovvero per la propria professionalità, per una donna si aggiunge un altro pezzo, che necessariamente precede questo: essere riconosciuta dal proprio interlocutore, chiunque esso sia, come magistrato e non come l’altra metà del cielo che, per millenni, è stata estromessa da qualsiasi luogo decisionale perché inadeguata, incapace, irrazionale». 

Paola Di Nicola, La Giudice. Una donna in magistratura, Ghena, 2012

La dottoressa Paola Di Nicola riflette anche sul linguaggio, su quell’uso del maschile come neutro, che assorbe il femminile cancellandolo. Avviene nei codici, dove l’autore del reato e la vittima è sempre l’uomo, anche laddove genera paradossi logici, come nella norma che punisce le mutilazioni genitali femminili e indica la vittima utilizzando il maschile. «Come può darsi che gli organi genitali femminili vengano lesionati a un minore o a un cittadino? – si chiede retoricamente Di Nicola. L’uomo è la categoria omnicomprensiva, l’essere donna è un elemento indifferente, al più un corpo che riproduce esseri umani. E così cancelliamo, con un tratto di penna, tutte le donne che vengono uccise per essere tali, perché i loro uomini non accettano la fine di un amore o il loro desiderio di autonomia». Ma la neutralizzazione del femminile nella lingua avviene anche nel linguaggio comune e nel modo di riferirsi a determinate professioni, un esempio su tutti il giudice che pretende di essere sia maschile che femminile. Al termine di un faticoso percorso di consapevolezza e valorizzazione della differenza sessuale in un contesto che si pretende neutro, Di Nicola sceglie di farsi chiamare la giudice. Oggi, cosciente della propria appartenenza di genere e del proprio ruolo nel mondo, può andare in tipografia e chiedere un timbro con la scritta La giudice Paola Di Nicola. Del resto, quale uomo accetterebbe di farsi appellare utilizzando l’articolo femminile?

La testimone del cambio di paradigma

Rosanna Oliva De Conciliis

Abbiamo chiesto a una testimone d’eccezione, la dr.a Rosanna Oliva de Conciliis, di raccontarci le battaglie che, negli anni Sessanta, ha condotto con coraggio e determinazione per abbattere le barriere normative che escludevano le donne dalle carriere pubbliche e che hanno aperto la strada anche all’ingresso delle donne in magistratura. «Decisi di partecipare ai concorsi per le carriere pubbliche dopo la laurea – esordisce Oliva de Conciliis – e quando lessi il bando per la carriera prefettizia mi accorsi che tra i requisiti era prevista l’appartenenza al sesso maschile e io, ovviamente, non lo avevo. Presentai lo stesso la domanda e, quando mi comunicarono che la mia richiesta era stata respinta, andai dal Professore con il quale mi ero laureata, il costituzionalista Costantino Mortati, che diventò il mio avvocato. Senza il suo appoggio non avrei avuto la possibilità di un’impresa come quella di un ricorso contro il Ministero dell’Interno e del Governo». E prosegue: «Il Consiglio di Stato ritenne la questione non manifestamente infondata e mandò gli atti alla Corte costituzionale. I giudici, tutti uomini, il 13 maggio 1960, con la sentenza numero 33, dichiararono «l’illegittimità costituzionale della norma contenuta nell’articolo 7 della legge 17 luglio 1919, n. 1176, che escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicano l’esercizio di diritti e di potestà politiche, in riferimento all’art. 51, primo comma, della Costituzione».
La Rete per la parità, che la dottoressa Oliva de Conciliis ha fondato nel 2010 e di cui è Presidente onoraria, si propone la piena attuazione del principio fondamentale di parità uomo-donna sancito dalla Costituzione italiana e dalla normativa comunitaria e internazionale. Ci spiega meglio Rosanna: «La Rete promuove iniziative per rendere effettiva la parità di genere in Italia e ne fanno parte reti di associazioni, associazioni, organismi e università, riunite nel Comitato scientifico. Impostiamo le nostre attività secondo le tre linee guida indicate nello Statuto e dal 2016 facciamo parte dell’ASviS – Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile, con la quale monitoriamo il bilancio statale, il Pnrr e il gender procurement, ovvero uno strumento introdotto dalla Commissione europea, nell’ambito dei cicli di programmazione, per favorire gli investimenti in parità. Per il prossimo Festival, che partirà l’8 maggio, organizzeremo, come per i precedenti, uno o più eventi. In questo periodo siamo impegnate su più fronti, in particolare sosteniamo un gruppo di cicliste afghane che si sono rifugiate in Italia con le loro famiglie e stiamo proseguendo il lavoro per ottenere la Riforma del cognome dopo le due sentenze della Corte costituzionale. Ci sono anche altri argomenti che possono essere approfonditi sul nostro sito e sui nostri social e mi piace sottolineare il fatto che la Rete per la parità da anni è impegnata per la presenza di donne qualificate nelle istituzioni». E a proposito della presenza delle donne in magistratura, aggiunge: «In particolare, per quanto riguarda il Csm, dopo aver trattato l’argomento in un convegno del 2011, la Rete ha monitorato costantemente l’iter verso la legge di riforma del Csm e l’elezione dei componenti togati e di quelli laici. Per la prima volta nel Csm, una donna ricopre una delle tre cariche di diritto e aumenta ancora il numero delle presenze femminili da 10 a 11».

Chiediamo infine a Rosanna Oliva de Conciliis che cosa resta ancora da fare affinché le donne possano godere di una effettiva parità con gli uomini, in particolare nel contesto professionale. «L’obiettivo virtuoso è ancora lontano», ci risponde. «Nella classifica del 2022 del “Global gender gap index”, che misura in 146 Paesi il divario di genere in termini di partecipazione economica e politica, salute e livello di istruzione, l’Italia si colloca al sessantatreesimo posto registrando un miglioramento di solo 0,001 punti. Continuiamo a occupare la stessa posizione del 2021, nella classifica europea siamo venticinquesimi su 35 Paesi, a livello mondiale serviranno ancora 132 anni per colmare il gap di genere, anche se si tratta di quattro anni in meno rispetto ai 136 stimati nella graduatoria del 2021. L’impegno sulla parità di diritti dunque spetterà ancora a molte altre generazioni». E conclude: «In Cara Irene ti scrivo, la lettera a mia nipote che ho scritto nel 2010, auguravo a lei e alle sue coetanee, le giovani donne di domani, di raggiungere nel 2060 (anno del centenario della sentenza) i loro obiettivi negli affetti e nel lavoro. In libertà, senza condizionamenti e senza dover lottare contro gli stereotipi che oggi ancora contrastano il cammino delle donne, augurandomi che le donne del futuro non dovessero compiere scelte difficili e dolorose come quelle che devono affrontare ancora oggi: la scelta tra famiglia e lavoro, tra lavoro e figli e tra carriera e figli».

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Articolo di Serena Del Vecchio

Laureata in Giurisprudenza e specializzata nelle attività didattiche di sostegno a studenti con disabilità, è stata docente di discipline economiche e giuridiche e ora svolge con passione la professione di insegnante di sostegno. Ama cantare, leggere, camminare, pensare, suonare la chitarra e ha da poco intrapreso lo studio dell’arpa celtica, strumento che la aiuta a ritrovare pace e serenità interiore.

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