Il nostro cervello è plastico, si trasforma costantemente sulla base delle nostre esperienze. Se al mio cervello faccio vivere crescenti esperienze di distrazione ho creato i presupposti per cui perdo progressivamente la capacità di attenzione e cerco stimoli sempre più veloci e superficiali.
Tale e tanta è stata la canea che si è sollevata la settimana scorsa sull’intervista rilasciata a Vogue da Elly Schlein, che non sarebbe il caso di aggiungere nemmeno una riga se non offrisse in modo paradigmatico la possibilità di riflettere su quel fenomeno antico e moderno che viene comunemente definito “distrazione di massa”. Distrarre = porre l’accento su qualcosa per distogliere lo sguardo e spostare l’attenzione da qualcos’altro potenzialmente scomodo.
Cambiano i tempi, cambiano i canali ma il risultato è sempre quello: l’attenzione dell’opinione pubblica è dirottata da problemi strutturali, da rischi incombenti, da responsabilità reali a faccende marginali, a episodi frivoli, a dettagli irrilevanti, facendo aggio sui preconcetti più comuni e sulle dinamiche tipiche della psicologia di massa e della percezione umana della realtà.
Il giustificato timore per un futuro incerto, lo stato diffuso di insicurezza e il disagio per una società distopica ad esempio sono regolarmente indirizzati da un copione antico verso lo straniero e verso il diverso, bersagli facili e impotenti.
Un tempo le strategie di distrazione nascevano dai poteri forti che detenevano le “armi” controllando la stampa (oggi si dice con sarcasmo “i giornaloni”); poi la palla passò in mano ai magnati onnipotenti delle tv, da sempre grandi “armatori”. Oggi non c’è bisogno più nemmeno di ricorrere all’idea di complotto o veder impegnati grandi capitali: se si innesca a costo zero qualche parola chiave sui social la cittadinanza fa tutto da sola, con un meccanismo a cascata che si riproduce in pochi attimi e in breve diventa valanga.
Il rodaggio è probabilmente ormai concluso – la reazione all’intervista sopra citata ne è un segno – ma è stato lungo. Un’opinione pubblica afflitta da un bisogno bulimico di alimentarsi attinge da gran tempo a trasmissioni quotidiane di gossip scambiandole per informazione.
Siamo stati addestrati da decenni di un populismo che della vox populi ha fatto il suo credo e di dinamiche come queste si è alimentato. Alla diffidenza verso chiunque acquisti spazio nel mondo politico si è accompagnata una distinzione manichea tra popolo tutto buono ed élite tutta cattiva; l’impoverimento progressivo della società globalizzata è diventato terreno facile per un pauperismo che attecchisce anche a sinistra e guarda con ostilità ogni dimostrazione di agio (salvo chiudere gli occhi di fronte alla ricchezza smodata, a grandi fortune dall’incerta origine).
È la retorica eterna non di Marx ma di Masaniello: non aiuta i poveri e non torce un capello alle disuguaglianze ma dà a chi la usa la patente di “duro e puro” che non cede alle lusinghe di Mammona.
Aggiungi – nel nuovo manuale di comunicazione – l’imperativo della brevità dei messaggi in quei social di cui siamo dipendenti, a impedire qualunque approfondimento e a consentire l’illusione di “farsi un’idea” dando un’occhiata rapida al post o al tweet di turno.
Aggiungi il piacere narcisistico di sentirsi per un momento un eroico opinion leader controcorrente che dà addosso ai potenti: uno sport che dà molte soddisfazioni.
Se si discredita una donna il piacere raddoppia, sollecitato dal senso di superiorità. Vecchia storia. Il suo abbigliamento, il suo trucco, i suoi capelli, il suo stile, l’intero suo corpo sembrano e purtroppo sono a disposizione del giudizio critico di chiunque, in qualunque luogo e circostanza.
Ricordate le critiche di qualche settimana fa al look trasandato di Elly Schlein?
Se sei brutta ti tirano le pietre, se sei bella ti tirano le pietre. Qualunque cosa fai,
dovunque te ne vai, tu sempre pietre in faccia prenderai.
Se la donna in questione è di sinistra, tanto più se non è allineata, tanto più se è al vertice, si raggiunge l’acme: ricordate il linciaggio di Laura Boldrini?
Ma cos’è la destra cos’è la sinistra, cantava Giorgio Gaber. Non sapeva che l’armocromia sarebbe diventata la nuova linea di frattura.
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Articolo di Graziella Priulla

Già docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nella Facoltà di Scienze Politiche di Catania, lavora alla formazione docenti, nello sforzo di introdurre l’identità di genere nelle istituzioni formative. Ha pubblicato numerosi volumi tra cui: C’è differenza. Identità di genere e linguaggi, Parole tossiche, cronache di ordinario sessismo, Viaggio nel paese degli stereotipi.