Editoriale. Nella pietà che non cede al rancore

Carissime lettrici e carissimi lettori,

troppo difficile, troppo complicato, troppo amaro. Guardare, ricordare, scrivere, pensare. Al presente. Nella ricerca di un futuro di poca speranza e di immagini di terrore e di offesa, da ambedue le parti. Questa è la cosiddetta questione palestinese? Una domanda. Le domande esigono una risposta. I fisici e i matematici ci hanno raccontato che spesso le includono, si compensano. Una, la risposta, nell’altra, la domanda. Ci vuole coraggio per fare la pace. E la pace, non lo sapevo, non ci avevo riflettuto abbastanza: «non si crea sulla vittoria». Scrive il giornalista e intellettuale Raniero La Valle, da sempre interessato alle questioni degli ultimi, soprattutto quelli delle guerre, volute e, spesso non combattute in prima persona, dai potenti. Quelli delle guerre, da Sarajevo a Israele e alla Palestina: «Dinanzi allo scempio che dilania la Palestina – scrive l’ormai ultranovantenne La Valle — apriamo il Vangelo e leggiamo che Gesù, ebreo di Galilea, salendo a Gerusalemme, alla vista della città pianse su di essa dicendo: «Gerusalemme, se tu avessi conosciuto ciò che giova alla tua pace!». Così oggi, come allora, Gerusalemme non ha capito dove fosse la sua pace, ha creduto che fosse nella vittoria, mentre la guerra ora caduta su di lei è proprio il salario della vittoria. Aveva vinto infatti Israele, o almeno così credeva, tanto che i partiti religiosi erano saliti al potere, dimentichi dei moniti a «non forzare il Messia» e Netanyahu aveva istituito un «governo di annessione ed esproprio», come scrive Haaretz, e anche il diritto interno era stato piegato, e le difese allentate, come se la pace fosse stata raggiunta, l’atto di fondazione fosse stato innocente e il problema palestinese fosse ormai cancellato e risolto… Raimundo Panikkar aveva letto in quei circa 8000 trattati di pace, scritti anche sui mattoni, che si sono susseguiti nella storia da prima di Hammurabi ai giorni nostri: che la pace non si raggiunge mai con la vittoria, sicché mentre l’inchiostro o i mattoni sono ancora freschi, già si approntano le lance e i cannoni, e prima o poi il vinto risorge e si vendica…Yehuda Elkana, illustre filosofo e storico della scienza in Israele, nato in Serbia, aveva raccontato su Haaretz (2.3.1988) di essere stato portato con i suoi genitori ad Auschwitz a soli dieci anni, di essere sopravvissuto all’Olocausto, liberato dall’Armata Rossa e poi immigrato in Israele nel 1948 dopo aver passato alcuni mesi in un «campo di liberazione russo». E aveva scritto: «Dalle ceneri di Auschwitz sono emerse una minoranza che afferma che «questo non deve accadere mai più» e una maggioranza spaventata e tormentata che dice «questo non deve accaderci mai più.» É evidente che, se queste sono le uniche lezioni possibili, io ho sempre creduto nella prima e considerato l’altra una catastrofe…».

In molti si sono chiesti «a chi giova» il terrorismo di questi giorni, crudele e insensato, messo in atto da Hamas. Perché, a pensarci bene, non giova a nessuno dei due popoli, né agli e alle israeliane, né alle e ai palestinesi. I civili muoiono della morte peggiore, affamati/e e assetate/i, con numeri che rasentano e superano quelli della conta della Seconda guerra mondiale, per la carneficina di civili, per esempio in città come Napoli che ancora non riesce a dimenticare.
Per non parlare della parte avuta delle donne, eterne vittime, ancora di più nei periodi di offesa sociale e di guerra. Lea Melandri scrive: «La guerra, le sue radici nel patriarcato, le sue ragioni, le responsabilità da cui ogni volta ricompare in tutto il suo orrore, il suo retaggio di barbarie. Il fatto che di fronte a uno scenario di guerra le donne scompaiono non dovrebbe destare meraviglia. Quando non sono respinte nel loro ruolo, considerato “naturale” di cura e protezione della famiglia, purtroppo vanno ad accrescere il numero delle vittime tra la popolazione civile. Per questo manifestare oggi per dire che la guerra deve essere messa “fuori dalla Storia” non significa distogliere lo sguardo dalle ragioni più o meno remote da cui ogni volta prende la sua spinta meno visibile, perché più conveniente da nascondere a chi sceglie la logica “amico/nemico”, “democrazia/dittatura”, “civiltà/barbarie”. A volte l’occultamento dell’ingiustizia e della violenza che sta a monte di un conflitto è talmente vergognoso, cinico e intollerabile, che ogni altra ragione riconducibile a situazioni contestuali passa in secondo piano: è il caso, riemerso con il feroce imprevisto attacco di Hamas a Israele, di un silenzio, che ha dell’incredibile, della stampa occidentale sull’occupazione di Gaza, sull’apartheid e le infinite restrizioni, devastazioni e stragi inflitte al popolo palestinese. Forse non è un caso che una delle voci più autorevoli, perché impegnata da anni a mettere fine al conflitto Israele/Palestina, sia quella di Luisa Morgantini: al centro della sua appassionata denuncia ci sono prioritariamente le responsabilità dei governi del mondo che finora hanno permesso a Israele di ignorare la violazione di diritti internazionali.
«Battersi per una informazione sottratta all’uso degli interessi politici e militari in campo è il primo passo per aprire la strada a un No alla guerra, che non sia solo un vuoto grido di protesta» (Lea Melandri, 8 ottobre 2023).
Qui, ancora una volta sulle sponde del Mare Nostrum, non siamo in guerra, ma siamo nello spavento truce della morte. Siamo in un susseguirsi di rancori e vendette che hanno radici lontane e a cui nessuno, proprio nessuno, soprattutto in un’Europa che ha accettato l’olocausto, vuole seriamente partecipare a che si risolvano, facendo capire i torti e le ragioni, opponendosi al terrorismo e portando avanti la politica come stava facendo Rabin, ucciso da un fuoco amico che non ammetteva che ciò avvenisse.
Si perpetua l’ingiustizia in Iran dove ormai la giovanissima Armita Garavand, di soli 16 anni, muore (è stata dichiarata la morte cerebrale) uccisa dallo stesso destino di Mahsa Amini, di poco più grande di lei. Spazzate via dal mondo come se lo avessero offeso, nella loro giovanissima età, colpite ferocemente dalla violenza ottusa della cosiddetta Polizia morale iraniana perché indossavano l’hijab non secondo la legge dello Stato teocratico.
Da noi l’ingiustizia, il rancore, si sviluppa intorno a chi migra, a chi chiede di aprire le porte del nostro mondo. Alle accuse, appellabilissime, contro la giudice di Catania, Iolanda Apostolico, sono seguite altre sentenze, come quella del collega Rosario Cupri. Decreto dopo decreto della magistratura, l’impianto che restringe le garanzie per i richiedenti asilo viene contestato dalla giustizia insieme a ciò che disciplina le espulsioni. Si controbattono tanti punti. Il trattenimento dei richiedenti asilo, così come la norma che dispone il fermo di chi, richiedendo asilo, proviene da Paesi “sicuri”. Poi si giudica illegale anche la cauzione di 5000 euro, da versare entro 48 ore. La si reputa antieuropea e sproporzionata rispetto alle possibilità dei migranti (ha l’aria del ricatto/riscatto?) e poi, cosa non secondaria, non permette, perché lo esige, la fideiussione, cosa che è impossibile ottenere per chi non ha documenti. Per i giudici non sono ammissibili neppure le procedure di frontiera per cui chi sbarca a Lampedusa dovrebbe aver l’esame della sua richiesta di asilo lì, in questa isola, e nel più breve tempo possibile, e non altrove. Ai due giudici siciliani si è affiancato un terzo giudice che, da Firenze, ha poi messo in crisi il concetto di Paese sicuro inserito nella Legge Cutro. Riguarda proprio la Tunisia interpretata diversamente alla luce degli ultimi avvenimenti.
Sempre intorno al tema dei migranti ci sono, invece, finalmente buone notizie. Il sindaco Mimmo Lucano condannato in primo grado a 13 anni e due mesi per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e per altri reati, vede quasi annullata la sua pena in appello. Cadono quasi tutte le accuse: «Una bella giornata, una sentenza che restituisce a Mimmo Lucano il riconoscimento che il suo operato è sempre stato per la difesa del bene comune e dei più deboli. Vedremo le motivazioni, ma la sentenza stravolge tutte le accuse rivolte all’uso dei finanziamenti per consentire un’accoglienza diffusa e una reale integrazione, attraverso lavoro, strutture, cooperative, frantoio e case di abitazione. Salvare vite umane, offrire delle prospettive reali e concrete a chi è sfruttato e ridotto alla fame, non è mai reato». I giudici della Corte d’Appello di Reggio Calabria hanno stabilito solo una condanna a un anno e sei mesi con pena sospesa per abuso d’ufficio.
Viaggiando verso un lago per festeggiare un anniversario la radio mi indica parole attualissime e altamente poetiche che si legano e mi legano al silenzio che mi si è costruito dentro per la Storia del mondo attuale. La canzone che ho ascoltato è Il Testamento di Tito, uno dei dieci testi scritti dal grande Fabrizio De André per l’album La Buona Novella. Racconti presi dai Vangeli apocrifi che lo stesso De André definisce “nascosti e non falsi”, come la Chiesa ha voluto far credere per tanto tempo perché la storia del Cristo era trasmessa, in un insieme di voci polifoniche, dai greci agli arabi, dagli armeni ai bizantini, dunque non tutti cristiani, ma anche di altre fedi. Il Faber raccontò anche, durante un suo storico concerto, che la raccolta fu contestata dal Movimento studentesco del ’68, considerandola anacronistica. Ma l’autore stesso spiegò che volle fare un’allegoria e che trovava un forte parallelismo tra l’agire (non obbligatoriamente religioso) del Cristo (che reputa uno dei più grandi rivoluzionari della Storia), seppure in maniera più spirituale, «con gli stessi principi di protesta verso gli abusi del potere, contro il sopruso dell’autorità, in nome di un egalitarismo di una fratellanza universale» dettati nelle esigenze dei e delle giovani universitarie. Il testamento di Tito racconta la storia di uno dei compagni di morte di Gesù di Nazareth che gli parla dalla sua croce a cui è e sono stati condannati. Commenta lo stesso Fabrizio De André: «dalla voce di Tito probabilmente la Buona novella assumerà forse il momento più ampio dal punto di vista dell’etica sociale quando Tito stesso, confutando uno per uno i Dieci comandamenti, metterà in risalto le contraddizioni che esistono fra chi le leggi le fa, a sua immagine e somiglianza, a suo uso e consumo, per potersi permettere anche il lusso di non rispettarle, e chi, invece, è obbligato a rispettarle, perché il potere non lo gestisce e lo deve semplicemente subire». «Posso dire – proseguiva De Andrè, ancora commentando la Buona novella— che dandogli questo tipo di taglio, di lettura, probabilmente i personaggi del Vangelo perdono un poco di sacralizzazione. Ma io credo, e spero soprattutto — conclude il grande poeta genovese — a vantaggio di una loro migliore, maggiore umanizzazione».

Il testamento di Tito
Non avrai altro Dio all’infuori di me
Spesso mi ha fatto pensare
Genti diverse venute dall’est
Dicevan che in fondo era uguale
Credevano a un altro diverso da te
E non mi hanno fatto del male
Credevano a un altro diverso da te
E non mi hanno fatto del male
Non nominare il nome di Dio
Non nominarlo invano
Con un coltello piantato nel fianco
Gridai la mia pena e il suo nome
Ma forse era stanco, forse troppo occupato
E non ascoltò il mio dolore
Ma forse era stanco, forse troppo lontano
Davvero lo nominai invano
Onora il padre, onora la madre
E onora anche il loro bastone
Bacia la mano che ruppe il tuo naso
Perché le chiedevi un boccone
Quando a mio padre si fermò il cuore
Non ho provato dolore
Quanto a mio padre si fermò il cuore
Non ho provato dolore
Ricorda di santificare le feste
Facile per noi ladroni
Entrare nei templi che rigurgitan salmi
Di schiavi e dei loro padroni
Senza finire legati agli altari
Sgozzati come animali
Senza finire legati agli altari
Sgozzati come animali
Il quinto dice non devi rubare
E forse io l’ho rispettato
Vuotando, in silenzio, le tasche già gonfie
Di quelli che avevan rubato
Ma io, senza legge, rubai in nome mio
Quegli altri nel nome di Dio
Ma io, senza legge, rubai in nome mio
Quegli altri nel nome di Dio
Non commettere atti che non siano puri
Cioè non disperdere il seme
Feconda una donna ogni volta che l’ami
Così sarai uomo di fede
Poi la voglia svanisce e il figlio rimane
E tanti ne uccide la fame
Io, forse, ho confuso il piacere e l’amore
Ma non ho creato dolore
Il settimo dice non ammazzare
Se del cielo vuoi essere degno
Guardatela oggi, questa legge di Dio
Tre volte inchiodata nel legno
Guardate la fine di quel nazzareno
E un ladro non muore di meno
Guardate la fine di quel nazzareno
E un ladro non muore di meno
Non dire falsa testimonianza
E aiutali a uccidere un uomo
Lo sanno a memoria il diritto divino
E scordano sempre il perdono
Ho spergiurato su Dio e sul mio onore
E no, non ne provo dolore
Ho spergiurato su Dio e sul mio onore
E no, non ne provo dolore
Non desiderare la roba degli altri
Non desiderarne la sposa
Ditelo a quelli, chiedetelo ai pochi
Che hanno una donna e qualcosa
Nei letti degli altri già caldi d’amore
Non ho provato dolore
L’invidia di ieri non è già finita
Stasera vi invidio la vita
Ma adesso che viene la sera ed il buio
Mi toglie il dolore dagli occhi
E scivola il sole al di là delle dune
A violentare altre notti
Io nel vedere quest’uomo che muore
Madre, io provo dolore
Nella pietà che non cede al rancore
Madre, ho imparato l’amore

Buona lettura a tutte e a tutti con la speranza nel cuore di una possibile fratellanza e sorellanza. E una felicità nel cuore: di avere, seppure inconsapevolmente, predetto qui, dall’editoriale della scorsa settimana, a una donna il Nobel per l’economia deciso lunedì scorso. L’11 ottobre 1971, cinquantadue anni fa, il mondo intero poteva ascoltare la musica e le grandi parole di una delle più grandi canzoni: usciva Imagine, di John Lennon. Nonostante quelle parole incoraggianti alla pace ancora nel 2023 assistiamo a ben 170 conflitti nel mondo, di diversa intensità, secondo i dati dell’Uppsala Conflict Data Program (UCDP), seppure i riflettori dei nostri media siano puntati soprattutto sui conflitti israelo-palestinese e ucraino. Proprio da questo fronte, passato da qualche giorno in secondo piano, partiamo questa settimana per presentare i nostri articoli, con Giornaliste dall’Ucraina. In periodo di guerra c’è purtroppo la sospensione del diritto e la quinta parte di Donne antifasciste nel carcere di Perugia ci racconterà la storia delle donne ostaggio incarcerate perché madri dei cosiddetti “disertori”, nel periodo subito dopo l’armistizio, in cui l’esercito italiano fu lasciato allo sbando. Ci spostiamo nel continente meno capito dalle potenze occidentali, con la prima parte di Africa contro Occidente. Il numero di settembre di Limes. Parte Prima, in cui avremo l’occasione di confrontarci con visioni del mondo molto diverse da quella occidentale e altrettanto legittime. Per fortuna arrivano buone notizie dall’autrice di Eccezionale poker d’assi femminile ai Premi Nobel del 2023, che ci descrive le donne di cui la giuria del prestigioso premio sembra finalmente essersi accorta. Continuiamo a interessarci ai Premi Nobel femminili incontrando, per Calendaria 2023 la norvegese May-Britt Andreassen Moser. Premio Nobel in Fisiologia e medicina, pioniera, insieme al marito, dei meccanismi che permettono al cervello di immaginare e percepire lo spazio. Se per Jane Austen «la casa è uno stato d’animo», come ci racconta l’autrice di Analisi degli spazi in Jane Austen, per la rubrica “Tesi vaganti”, per Katherine Mansfield, la penna mirabile della “figlia del sole”, di cui ricorre un doppio anniversario, «casa significava la sicurezza dell’amore di “essere in una qualche via per la pace, colma di felicità”». Ancora di una casa su cui apporre un’altra targa immaginaria trattiamo nella seconda parte di Piazza del Risorgimento n°14. Qui ha vissuto Maria Michetti, una donna eccezionale, sempre in tensione tra eresia e appartenenza, a cui le donne e non solo devono tanto. Chi ci legge da tempo sa che i viaggi delle donne ci appassionano, soprattutto perché «il viaggio ci cambia, sempre. Tutto ciò che circonda l’aura della partenza reca con sé – com’è giusto – tanta esaltazione quanto timore». Questa settimana l’autrice di «Non aspetto nessuno» donne, uscite e viaggi riferisce di un’indagine su un campione di 50 donne, di diversa età e professione che ha condotto personalmente sul tema dell’uscire da sole insieme a quello del viaggiare da sole, con dati che meritano di essere conosciuti. Continuiamo a parlare di donne e del potere terapeutico della danza sfrenata e liberatoria con l’autrice di Quando la danza libera l’anima, che ci introduce alla taranta, alle sue origini, al suo rapporto con la sessualità femminile. Cambiamo argomento segnalando il primo incontro di La storia siamo noi. Conoscere il passato per scrivere il presente, il nuovo corso della Società italiana delle storiche, con l’autrice di Discriminazioni e violenze di genere, dal passato al presente e due eventi, il primo avvenuto all’Idroscalo di Milano raccontato nell’articolo Le Amazzoni: empowerment of women; il secondo riguardante Il Festival della fotografia etica a Lodi, giunto alla sua quattordicesima edizione. La ricetta suggerita dalla nostra rubrica La cucina vegana. Torta al cacao, zucchine e frutta secca questa volta è un dolce senza uova che ci fa scoprire un utilizzo insolito delle zucchine in cucina.
Chiudiamo ricollegandoci all’inizio di questa nota. Al ricordo di John Lennon e a proposito di quella che è stata definita come la canzone più bella di tutti i tempi, che abbiamo citato all’inizio. In un’intervista a Playboy (!) il grande musicista raccontava di essere stato chiamato al telefono dal Consiglio ecumenico delle Chiese con questa richiesta: «Possiamo usare il testo di Imagine e cambiarlo semplicemente in Imagine one religion al posto di no religion?» Ciò gli dimostrò che non lo capivano affatto e che forse, fino ad oggi, non è stato mai davvero capito.
SM

***

Articolo di Giusi Sammartino

Laureata in Lingua e letteratura russa, ha insegnato nei licei romani. Collabora con Synergasia onlus, per interpretariato e mediazione linguistica. Come giornalista ha scritto su La Repubblica e su Il Messaggero. Ha scritto L’interpretazione del dolore. Storie di rifugiati e di interpretiSiamo qui. Storie e successi di donne migranti e curato il numero monografico di “Affari Sociali Internazionali” su I nuovi scenari socio-linguistici in Italia.

5 commenti

  1. Non lascio mai commenti ai vostri articoli (che neppure riesco a leggere tutti, sono anti, e vorrei poterlo fare) per il semplice motivo di non aver nulla da dire, da aggiungere. Il mio semplice vale, dunque, adesione; e un ringraziamento. Ecco. Tutto qui,
    Grazie, dunque per questo, e per tutti i vostri scritti

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  2. Di Giusi colgo ogni dettaglio. Mi fa tornare alla mente il Testamento di Tito.e dice che va verso un lago. È il lago della riflessione. Per non farci rattristare parla di un evento felice. Anche noi ne ricordiamo subito un nostro..e ci rallegriamo Grazie Giusi. Ogni tua parola al posto giusto. È classe !

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    1. E io insieme a tutta la redazione ti ringraziamo tantissimo, perché leggere è una cosa bella, essere lette/i è un’esperienza indicibilmente emozionante

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    2. Carissimo sempre Luciano, so ad ogni mio editoriale che mi leggi e questo mi riempie di gioia per la stima che ho per te. Poi, e succede spesso, mi commenti. Allora è bellissimo. Non sai solo ogni volta sorprendermi per le belle parole che mi dedichi, ma tocchi sempre i punti più importanti a cui tenevo, sui quali volevo si soffermasse chi legge. Ecco tu fai questo ed è come se entrassi nel cuore. Per questo editoriale, per questo tuo commento un grazie in più per aver colto l’essenza di quell’accenno al piccolo viaggio intorno al lago, quello di Castel Gandolfo, (piace anche a te?) per una cena di festeggiamento di 31 anni di matrimonio. Lo hai inteso come una consolazione dai guai odierni e così è. grazie Luciano, grazie di essere letta da te.

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