Lungo il marciapiede di via Buonarroti, all’altezza del numero civico 29, una pietra d’inciampo in ottone ricorda che qui, il 14 febbraio 1944 fu catturato Paolo Petrucci, assassinato poco più di un mese dopo alle Fosse Ardeatine.

Ma le storie antifasciste in via Buonarroti n°29 hanno molte voci, tra cui quella di Enrica Filippini Lera, classe 1914, alla quale dedico la targa immaginaria di questo mese.
Enrica va ad abitare in questo palazzo con il padre Giuseppe e la sorella Giuliana dopo la morte della madre, Antonietta Azzoni, abile pianista, donna elegante e raffinata che trasmette alla figlia la passione per la musica. La famiglia Filippini Lera è una tranquilla famiglia borghese con inclinazioni fasciste ma non attiva politicamente. Possiede diverse proprietà tra le quali una villa a via del Casaletto, la casa in cui da molti anni vive Maria Michetti con la sua famiglia (Vitamine vaganti n° 239, https://vitaminevaganti.com/2023/10/07/via-del-casaletto-n202-204-la-casa-di-maria-michetti-negli-anni-della-resistenza/).

Da dove sia scaturito il suo impegno contro il regime lo racconta la stessa Enrica: «È stato il problema della donna. Io volevo studiare e loro mi dicevano: “No, tu non devi lavorare, quindi non ti serve studiare, basta che hai una cultura generale”. Invece io volevo fare il liceo e infatti l’ho fatto privatamente». Il diploma di maturità arriva perciò tardi ‒ a ventisei anni nell’anno scolastico 1939-40 ‒ e la non più giovanissima età spiega le difficoltà incontrate e la caparbietà di Enrica.
Gli anni Trenta sono gli anni della sua formazione umana e politica: «Andando avanti ho avuto la fortuna di incontrare alcuni giovani dell’Augusteo [sala per concerti attiva fino al 1936 n.d.r.] che allora era famoso come centro antifascista […]; alcuni di loro erano comunisti e si chiamavano Lombardo Radice, Natoli, Giolitti e altri […], questo era l’ambiente e naturalmente c’erano anche delle ragazze».

Auditorium Augusteo, foto Istituto Luce
All’Augusteo, nel 1934, Enrica conosce Paolo Buffa che sta facendo la fila per acquistare i biglietti di un concerto: non si lasceranno più, uniti dall’amore per la musica, dall’impegno antifascista, dal coraggio e dalla risolutezza, dal sogno per una società più giusta e libera. L’amore di tutta una vita.
«La cosa che ha determinato in modo assoluto il nostro orientamento ‒ ha spiegato Enrica Filippini Lera in un’intervista ‒ è stata la tragica guerra di Spagna che ci ha fatto capire tutto, che sarebbe stata una guerra generale, che quella era una prova». Anche l’incontro con alcuni studenti ebrei tedeschi e austriaci, fuggiti dai rispettivi Paesi, l’aiuta a comprendere cosa stia accadendo in Europa e da che parte stare. La sua scelta, meditata e condivisa con amiche e amici, è senza ripensamenti, resa più concreta nel 1939 con l’adesione al Partito Comunista.
Enrica, alla quale era stato consigliato di lasciare da parte gli studi perché inutili per una donna, nel 1940 si iscrive alla Facoltà di Scienze biologiche dell’Università La Sapienza e l’ambiente universitario salda ancora di più i legami con l’antifascismo; dopo l’8 settembre 1943 l’impegno si trasforma in partecipazione attiva alla Resistenza romana con l’adesione al Comitato studentesco di agitazione dell’università, la partecipazione alla cellula comunista di Piazza Vittorio, a pochi passi da casa sua, la nomina a responsabile del gruppo femminile e della distribuzione della stampa comunista nella sua zona.

Molte riunioni clandestine vengono organizzate nella sua abitazione in via Buonarroti, il padre Giuseppe vede, sa, ma non dice nulla; come non dice nulla lo zio Alberto, l’altro uomo di destra della famiglia, che nella villa di via del Casaletto vede transitare o «fermarsi, per soggiorni più o meno brevi, partigiani, comunisti, renitenti alla leva, ospiti della famiglia Michetti» ricorda Enrica Filippini Lera nel suo libro I fiori di lillà quel giorno. Una storia piccola (1995). Lo zio non fa domande, non esprime dubbi, incertezze o malumori, a dimostrazione che dopo l’8 settembre qualcosa cambia anche per chi non è antifascista militante.
L’attività clandestina di Enrica procede tra mille rischi fino al 14 febbraio 1944. Quella mattina, intorno all’ora di pranzo, Enrica fa ritorno nella sua abitazione. Ha con sé una borsa piena di fogli di propaganda e trova le SS ad aspettarla.

Non sono arrivati per lei ma per Vera Michelin-Salomon, sua ospite da alcuni mesi, denunciata per aver distribuito volantini davanti al Liceo Cavour; in casa ci sono anche Paolo Buffa, che oltre a essere il fidanzato di Enrica è cugino di Vera, il fratello di Vera, Cornelio, e Paolo Petrucci, un giovane amico di Trieste. Le SS non sanno (e non scopriranno successivamente) che Paolo Buffa e Paolo Petrucci sono in missione per conto degli Alleati. La tensione, già alta, sale ancora di più: oltre ai manifestini politici in casa vengono trovati libri “proibiti” della casa editrice Einaudi e a un certo punto, con mossa maldestra, Vera cerca di far sparire una piccola pistola nascosta in un sacco di farina. Vengono tutti condotti nel carcere di via Tasso; Enrica, immediatamente interrogata, è trasferita il giorno stesso a Regina Coeli, nel terzo braccio tedesco, rinchiusa al primo piano nella cella n. 380. Sul primo interrogatorio nel carcere di via Tasso e sui successivi a Regina Coeli Enrica scrive una lunga relazione che riesce a far giungere al padre: «Nulla a carico dei ragazzi, soltanto non essere segnati in portineria, Vera è accusata di aver distribuito manifestini ad una dimostrazione al Liceo Cavour (le SS sono venute a casa per Vera). […] Io sono accusata di essere in possesso di due pacchi di manifestini. […] Io e Vera accusate di comunismo. Abbiamo spiegato l’infondatezza dell’accusa».
Passa circa una settimana e Vera e i tre uomini sono trasferiti nello stesso braccio in cui è rinchiusa Enrica che annota: «Ormai siamo tutti riuniti e questa è una grande gioia». Enrica è così, generosa nei sentimenti e animata da slanci di grande forza e umanità: «Sento in me tanto amore per tutti e per tutto ‒ scrive al padre il 21 febbraio ‒ e questa esperienza sono sicura mi renderà migliore. Quanto la vita è ricca! È per me una continua meraviglia vedere come da un nulla può scaturire tanta luce tanto impulso di vita». Chiede al padre di preparare pacchi con viveri e libri, anche di studio, una grande consolazione in quelle giornate di incertezza e di attesa per il processo: «[…] Stai sereno. Tu hai la sicurezza che in me non verrà mai meno la fede e l’amore per tutto ciò che di buono, di bello, di santo è negli uomini». I cinque amici comunicano tra loro fischiettando un motivo di Stravinsky e restando poi in attesa di una risposta sempre zufolata: è un modo per sapere se sono tutti lì, se sono stati spostati o anche peggio. Appena il fischiettio di risposta risuona nel terzo braccio, tutti e cinque cominciano a parlare tra loro come se riuscissero a stare vicini e a vedersi.

(Di quelle giornate in carcere si è già occupata Vitamine vaganti, nel n°34 del 2 novembre 2019 https://vitaminevaganti.com/2019/11/02/in-ricordo-di-vera-michelin-salomon/)
Il 22 marzo comincia il processo nel Tribunale di Guerra presieduto dalla Wehrmacht. Contro i tre uomini non ci sono accuse specifiche né elementi a carico, pesanti invece nella situazione processuale di Vera ed Enrica che si addossano tutte le responsabilità scagionando gli amici. Il dibattimento è veloce, la sentenza arriva il giorno dopo: Vera ed Enrica «sono condannate per il possesso di armi proibite e di stampati antitedeschi non distribuiti a una pena complessiva di tre anni di detenzione»; Paolo Buffa, Paolo Paolucci e Cornelio Michelin-Salomon sono invece dichiarati liberi per mancanza di prove. Sembra finita e invece il destino ha pronto un tragico epilogo. Paolo Petrucci, assolto dal Tribunale tedesco, viene inserito nelle liste dei prigionieri condannati a morte dai nazisti come rappresaglia per i fatti di via Rasella. Enrica, in un’intervista, ricorda quei drammatici momenti. Dalla finestrella della porta della cella vede l’arrivo frenetico e violento delle SS, alcune delle quali, con una lista in mano, urlano i nomi dei prigionieri.

il 24 marzo 1944
Si diffonde la notizia che si sta organizzando uno spostamento di prigionieri per mandarli a lavorare ma, visti i precedenti trasporti di uomini verso i campi di lavoro che avevano seguito altre modalità, Enrica, Vera e le altre detenute comprendono che si tratta di ben altro, di qualcosa di più grave. Enrica scrive al padre il giorno successivo: «La giornata del 24 marzo e la tragica fine di P. [Paolo Petrucci n.d.r.] mi avevano lasciata distrutta. Mi sentivo come caduta nel buio e in me non c’era che un senso di orrore: ti dissi allora che tutte le mie forze erano prese per superare, per vincere l’orrore; […] la serenità che era stata in me dal primo giorno dell’arresto era distrutta […]».
Un mese dopo, il 24 aprile, Enrica e Vera, insieme ad altre sei donne e una sessantina di uomini, vengono prelevate dal carcere per essere deportate in Germania. Consapevoli del loro destino, le due amiche hanno da tempo organizzato la partenza preparando lo zaino in cui stipano tutto quello che possono. Hanno il permesso di salutare Paolo e Cornelio che, nonostante l’assoluzione nel processo, sono ancora a Regina Coeli. Di quei momenti restano i ricordi dei due ragazzi. Scrive Cornelio: «Ad aprile hanno portato via Vera e Enrica. Sono riuscito a farmi portare nella loro cella per salutarle, per stare con loro […]», mentre Paolo, in un messaggio inviato al padre della sua fidanzata, annota: «Enrica ha il fisico minuto ed apparentemente fragile, ma ha una forza d’animo eccezionale perciò si può essere sicuri che neppure questa prova, per quanto dura possa essere, la piegherà».Verso sera, poco prima del coprifuoco, donne e uomini vengono fatti uscire dal carcere e salire nei camion telonati. Enrica scorge il padre: «Uscii baldanzosa dal portone, e vidi mio padre dall’altra parte del marciapiede. Tentai di salutarlo ma lo vidi allontanarsi e andare via. Poi, dopo la guerra, un giorno mi disse che c’era il coprifuoco». Da via della Lungara i camion partono alla volta di via Cassia che da Roma risale verso il nord Italia. Un piccolo foro nel telone che copre il mezzo di trasporto permette a Enrica di allungare lo sguardo e scorgere il mondo esterno, la campagna, il cielo che non vede dal giorno dell’arresto.

Sempre sbirciando dalla piccola apertura capisce di essere giunta a Firenze: sono le prime ore del mattino, riconosce i Lungarni e casualmente intravede Bruno Sanguinetti, responsabile del Partito Comunista clandestino col quale aveva avuto molti incontri e fatto numerose riunioni. Il suo animo si rallegra: «Che bravi! Questi stanno ancora in piedi», ricorda sorridendo in un’intervista molti anni dopo, rivivendo la sorpresa e la speranza intense provate.I camion si fermano nella stazione di Campo di Marte e prigioniere e prigionieri sono trasferiti sui vagoni: «[…] abbiamo sostato fino al pomeriggio per poi riprendere il viaggio sul treno (carri bestiame) […]. Al Brennero i ferrovieri furono sostituiti da personale tedesco. Ricordo che il macchinista e altri vennero nascostamente a salutarci scusandosi di aver dovuto condurre il treno fino lì. Furono loro consegnati alcuni biglietti con nominativi e indirizzi. […] Ripartiti poi verso Monaco, ancora una notte e un giorno […]. Arrivo a Monaco verso sera. Alla stazione furono uniti al nostro gruppo deportati di altra provenienza (ricordo uno in catene). Tutti incolonnati passammo tra la gente. […] Ci consegnarono alle SS. Da questi fummo caricati alla rinfusa su camion scoperti e ci portarono al campo di Dachau […]».
Enrica e Vera restano poco nel campo di concentramento, sono spostate prima nella prigione di Stadelheim a Monaco e infine nella sede definitiva del carcere femminile di Aichach. È il 29 maggio 1944.
Il regime carcerario è durissimo. Enrica è identificata col numero 341/44, Vera col 348/44. La sorveglianza rigidissima non consente neanche il contatto con le altre prigioniere, il cibo consiste in una misera brodaglia e un pezzo di pane scuro, indossano un grembiule nero con una striscia gialla al braccio. Lavorano dodici ore al giorno, riposano solo la domenica: «Le carceriere erano tutte professioniste o volontarie e la prigione era interamente gestita dalle SS. […] con della gomma dura dovevamo fare dei cerchietti […]. Ci fecero fare anche delle ghette militari e questo ci permise di fare del sabotaggio: tagliavamo il filo sotto il tallone di modo che si sarebbero presto consumate. Faceva freddo e non avevamo un abbigliamento adeguato». Nonostante la stretta sorveglianza e l’isolamento, Enrica e Vera riescono ad avere notizie sull’andamento della guerra da una lettera di Elettra Pollastrini, anche lei nel carcere di Aichach: «Stelline care, siamo questa volta alla vigilia di grandi avvenimenti o meglio del crollo finale definitivo, totale».

Lo capiscono anche dal fatto che vedono i nazisti distruggere tutte le prove e la documentazione esistente. Si sentono i rombi degli arei, i colpi di mitragliatrici e i cannoneggiamenti: «Prima della liberazione vedemmo i tedeschi bruciare tutte le prove della prigionia e dei loro reati […] ci tenevano fuori a zappare all’aperto, ma noi un giorno ci rifiutammo, a mo’ di sciopero, e allora potemmo ritornare al chiuso. La mattina successiva vidi una bandiera bianca sul campanile del paese di Aichach. Anche quella mattina ci controllarono i pidocchi ma poco dopo, improvvisamente, si aprì la porta e vedemmo un americano». È il 29 aprile 1945, sono passati 11 mesi esatti dall’arrivo nella prigione femminile. Enrica non riesce a festeggiare «[…] avevo un gran febbrone ‒ racconta nelle sue memorie ‒ e dei medici mi diedero qualcosa […] Vera mi incitava: “non ammalarti adesso che siamo libere, che è finito tutto!”». Vengono portate in un campo di raccolta francese, sono dodici italiane, tutte imprigionate per motivi politici, ora diventate, dopo queste indicibili prove, «una grande famiglia e ci amiamo come sorelle». Enrica e Vera non sanno che Paolo Buffa è partito alla loro ricerca, ha attraversato i confini e le sta cercando in ogni modo, ricostruendo con le poche notizie in possesso la loro posizione. Paolo riesce ad arrivare al campo con una jeep, le trova e le riconduce in Italia. È il 2 giugno 1945.

In una intensissima lettera al padre, scritta dopo la liberazione dal carcere di Aichach, Enrica testimonia tutta la forza delle speranze di chi ha vissuto quei periodi di buio: «[…] presto ritorneremo e potrò riprendere il mio lavoro. Tanto ci sarà da lavorare in Italia, ma non ci sgomenta. Lavoreremo e ricostruiremo la nostra vita e non ci sarà gioia più grande. Siamo giovani e l’entusiasmo non ci manca. Vedi, anche nei momenti più tristi in carcere la serenità e la fede, una grande fede nell’avvenire non mi hanno mai abbandonata ed ora al pensiero di essere presto fra voi, carissimi, alla fede si unisce la gioia e la certezza di giorni luminosi che ci attendono. Vera è stata sempre con me, siamo più che sorelle».
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Articolo di Barbara Belotti

Dopo aver insegnato per oltre trent’anni Storia dell’arte nella scuola superiore, si occupa ora di storia, cultura e didattica di genere e scrive sui temi della toponomastica femminile per diverse testate e pubblicazioni. Fa parte del Comitato scientifico della Rete per la parità e della Commissione Consultiva Toponomastica del Comune di Roma.
