Costituzione letteraria. Artt. 7 e 8

Art. 7 Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.
Art. 8 Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze.
Gli artt. 7 e 8 della Costituzione definiscono il principio di laicità dello Stato italiano e il diritto di professare liberamente la propria religione. Prima di condividere il romanzo che mi è venuto in mente, in questa tappa della rubrica vorrei soffermarmi su aspetti che questi articoli pongono al centro della nostra riflessione e sui quali, personalmente, mi interrogo da sempre. Sono, infatti, ben consapevole che il dettato di queste norme è oggetto di discussioni e polemiche nell’opinione pubblica (e non solo), perché si ritiene che il non aver nettamente separato (come in Francia) lo Stato dalla religione abbia creato una situazione per cui la presenza della Chiesa cattolica in qualche modo influenza la legislazione nel nostro Paese. In Francia, come sappiamo, la laicità è espressamente indicata nel primo articolo della Carta costituzionale: «La Francia è una repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale». Da un’analisi dell’etimologia della parola, riscontriamo che essa è composta da «laos, “popolo”, da cui la-ikos: la- di laos e -ikos, “relativo a”. In greco, la parola designa l’indivisibilità: l’insieme di una popolazione senza distinzioni interne, senza sottogruppi e, pertanto, ciò che è comune a tutta la popolazione che vive entro uno spazio geografico definito. Laos è molto più esteso sia di ethnos, altra designazione di “popolo” secondo l’etnia, gruppo umano che si riconosce in un certo numero di caratteristiche, sia di demos, ossia il “popolo” che, nella Grecia antica, corrispondeva solo a una parte ristretta della popolazione: quella detentrice del potere politico, che di fatto escludeva le donne, gli stranieri, i meteci, gli schiavi… Così, l’origine concettuale da laos rivela una “laicità” intesa come ideale di convivenza, dove nessuno deve essere stigmatizzato per il suo particolarismo, sia esso religioso, etnico, sociale o di altro genere» (vd. https://www.questionegiustizia.it/data/doc/3336/traduzione-s-gaboriau-prima-parte-ok.pdf). In Italia, in data 26 maggio 2020, era stato presentato in Senato un disegno di legge per introdurre in maniera espressa il principio di laicità nell’art. 1 della nostra Costituzione, la cui formulazione viene così proposta: «L’Italia è una Repubblica democratica e laica, fondata sul lavoro». Dal sito ufficiale del Senato il disegno di legge costituzionale risulta assegnato, ma il suo esame non è ancora iniziato (il testo completo della proposta si può leggere al seguente link: https://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/REST/v1/showdoc/get/fragment/18/DDLPRES/0/1154762/all).
Dal commento alla Costituzione a cura della Fondazione Roberto Franceschi, apprendiamo che «lo Stato si riserva piena indipendenza e sovranità nel proprio ambito, che è quello della regolazione della convivenza tra le persone che si trovano in Italia. Non sarebbe ammissibile un potere di veto o d’indirizzo della Chiesa sulle leggi o sui provvedimenti del Governo. Da questa norma è stato tratto il fondamentale principio di laicità: lo Stato, senza essere indifferente rispetto alle religioni, deve garantire a tutte pari libertà». Dunque, è sancito che lo Stato ha potere temporale e la Chiesa potere spirituale.
Considerato che la questione è delicata, profonda e che non si può certamente risolvere nell’ambito di un contributo divulgativo come quello di cui mi occupo, condivido solo una riflessione che potrà essere letta anche come provocazione. Forse la questione non è tanto se sia opportuno o meno inserire la parola laica nel primo articolo della nostra Carta. Forse non è nemmeno la presenza — in seno al territorio della Repubblica italiana — dello Stato del Vaticano che influenzerebbe le scelte dei nostri/e governanti: ci sono Paesi occidentalissimi e lontani dal Vaticano in cui vengono comunque pesantemente attaccati diritti che si davano per acquisiti (vedi l’annullamento della sentenza Roe vs. Wade negli Usa o la legge anti-propaganda Lgbtq+ di Orbán in Ungheria). Forse la questione dirimente sta nelle scelte di chi ci governa e, prima ancora, di noi elettori ed elettrici nel momento in cui esercitiamo il nostro diritto di voto, scegliendo i politici e le politiche che ci rappresenteranno, informandoci su quale sia il contributo che essi/e possono dare al pieno compimento del principio di laicità nel nostro Paese. Non credo si tratti di fare una guerra alla religione in sé, ma di fare propria la lezione che ci ha indicato Mona Eltahawy nel suo libro-manifesto Sette peccati necessari, che affronta (tra i tanti temi) il rapporto tra religioni e patriarcato, e che — a mio avviso — può essere considerato uno spunto utile per orientarsi in un dibattito così complesso, troppo spesso lasciato alla mercè delle arene social, in cui ormai prevale il becero tifo da stadio e mai un reale approfondimento di aspetti così importanti per la nostra società. Eltahawy, che – ricordiamo – è una giornalista, scrittrice e attivista femminista egiziana e musulmana, scrive: «Ma è ingenuo dire solo “abbandona la tua religione”, come soluzione ai riti e ai credi patriarcali. Le religioni esistono in tutto il mondo in varie forme e con diverse strutture di potere. La maggior parte, se non tutte, è patriarcale. “Abbandona la tua religione” non è un’opzione possibile per molte donne. Infatti, questo ritornello come soluzione per liberarsi dal patriarcato, è carico di privilegi che non sono accessibili a tutte le donne. […] È necessaria una lotta femminista contro il patriarcato all’interno e al di fuori della religione». Penso che il più incisivo significato di laicità lo abbia formulato lei, e può valere per tuttǝ: «Dobbiamo avere libertà di fede ed essere libere dalla fede».
Noi in Italia su questi temi abbiamo avuto la voce lucida, determinata e irriverente di Michela Murgia (sono trascorsi due giorni, mentre scrivo, dall’anniversario di un anno dalla sua scomparsa), che — in particolare — ci ha lasciato due libri su cui riflettere, Ave Mary e God Save the Queer, in cui l’intellettuale sarda condivide riflessioni potenti sul rapporto tra donne e religione cattolica e sulla necessità di dover essere femministe pur restando dentro l’alveo della religione, ovvero da credenti. Murgia, infatti, non si è mai dichiarata atea, e forse le sue parole, tanto bistrattate, vituperate, infangate (per le sue parole, lei stessa è stata oggetto di scherno e attacco continuo), potrebbero essere una traccia di riflessione da cui partire per confrontarci con serietà e opportuna profondità sul concetto di laicità. Nel 2011, in Ave Mary, Murgia scriveva: «Sono sempre stata convinta che l’educazione cattolica abbia ancora un ruolo fondamentale nel fornire chiavi di lettura al nostro mondo, e anche quando crescendo molti abbandonano le convinzioni di fede o quando non le hanno mai avute, quell’imprinting culturale non viene meno […]. Quindi nessuno può considerarne irrilevanti gli effetti o evitare di fare i conti con le conseguenze sulla vita di tutti e di tutte noi». Dopo dieci anni, nel 2022, in God Save the Queer. Catechismo femminista scrive: «È possibile essere credenti, femminist3 e queer allo stesso tempo? La risposta, lo premetto come spoiler della tesi di questo libro, per me è sì. Ma di sicuro non è semplice. […] La vita non è un gioco a scacchiera dove vince il bianco oppure il nero. Quando si tratta di faccende di coscienza — e la fede lo è — i tagli netti sono l’anticamera dell’eresia, che nella storia delle divisioni ecclesiali è sempre scaturita dalla violenza di un aut-aut. […] Per la Chiesa il sigillo della fede si ritrova molto più riconoscibilmente nella pratica dell’et-et, che spesso tiene insieme verità in apparenza contraddittorie [Dio è divino ma umano, uno ma trino, onnipotente ma morto ammazzato in croce, N.d.A.]».

Michela Murgia

In fondo, a ben vedere, Eltahawy e Murgia dicono la stessa cosa: occorre partire da quell’et-et che unisce, non praticare l’aut-aut, principio perpetrato da secoli nella logica della guerra, che continuiamo a osservare ancora oggi con infinita tristezza, sgomento e preoccupazione, e non possiamo fare a meno di sottolineare che sia un principio ad alto tasso di testosterone, dato che le guerre sono prevalentemente mosse da uomini contro altri uomini, spesso coadiuvati — come ci spiega Eltahawy — dalle «operaie del patriarcato», donne che, in cambio di un briciolo di potere, servono il sistema del patriarcato anziché scardinarlo.     

Eltahawy

Proprio in relazione a questa riflessione sull’aut-aut, per questa sesta tappa del nostro viaggio di interconnessione tra il dettato costituzionale e la letteratura, il libro che mi ritorna alla memoria è Il grande futuro di Giuseppe Catozzella.

Copertina del libro Il grande futuro

Il romanzo, pubblicato nel 2016, è ispirato alla storia vera di un giovane africano che ha fatto parte delle milizie al Shaabab, movimento giovanile estremista nato nel 2006 all’interno dell’Unione delle Corti Islamiche, e dal 2012 riconosciuto come cellula somala di al-Qāʿida. La trama racconta di Alì e della sua formazione religiosa e militare verso il fondamentalismo islamico. In un’intervista Catozzella ha dichiarato: «Sono andato al confine tra la Somalia e il Kenya per seguire una delle mie ossessioni: il rapporto tra il cristianesimo, e quindi la civiltà occidentale da una parte, e il mondo dell’Islam dall’altra. In quel territorio c’è un famoso campo di addestramento di giovani fondamentalisti e ho avuto la possibilità di incontrare un ragazzo che ha fatto parte degli al Shabaab.

La cosa più difficile è stata guadagnarmi la sua fiducia. […] La sua storia è sostanzialmente quella che racconto nel mio libro, una storia che accomuna molti giovani nati da quelle parti, in villaggi poverissimi, che vedono nell’arruolamento l’unico modo per riscattarsi» (vd. https://www.famigliacristiana.it/articolo/catozzella.aspx).


Amal è nato su un’isola di cui non si specificano le generalità, è come sospesa nel tempo e nello spazio, e su di essa è in corso la guerra tra l’Esercito Regolare e quello dei Neri. Il vero nome del ragazzo è Alì, è figlio di un pescatore e di una donna di origini beduine, ma sua madre lo ha ribattezzato Amal, che in arabo significa speranza’, per esser sopravvissuto all’esplosione di una mina che lo ha sventrato. Nel suo petto, però, dopo l’incidente batte un cuore cristiano, un cuore del nemico, che metterà Amal sempre in discussione, alla ricerca della verità sul suo destino. Egli è legato anche all’amicizia con Ahmed, figlio di Said, signore del villaggio, ben più ricco, e con Karima: i tre ragazzini crescono condividendo sentimenti ed esperienze adolescenziali. Alle tante domande che Amal si pone cercano di dare risposta Raja, la vecchia strega, che dice al ragazzo che lui, come era già stato per il suo antenato Alì Yonus, porterà la guerra. L’imam Tarif, invece, prova a calmare le sue paure e a dare una risposta al suo desiderio di sfuggire a un destino infelice: «Arriverà un tempo in cui gli uomini impareranno a vivere in pace. Arriverà un tempo in cui le cose tra noi e i cristiani saranno cose di pace. […] Volevo solo ricordarti che la felicità è un diritto di tutti, Amal. Ricorda queste parole. Qualunque cosa accada alla tua giovane vita, hai diritto alla felicità. Se la cercherai, lei si farà trovare». Arriva poi il momento cruciale in cui il ragazzo vede venire meno i suoi punti di riferimento: l’amico Ahmed se ne va per arruolarsi nell’Esercito regolare e anche suo padre Hassim parte per sempre portando con sé un segreto. Allora Amal si rifugia nella Grande Moschea del Deserto, dove lo studio della religione sarà per un tempo lo strumento per placare il desiderio di riscatto e il richiamo alla guerra, che da sempre abitano dentro di lui: «Non pregavo più, ero diventato io stesso preghiera. […] Questo è Islam, sentii nel cuore il giorno della mia shahada: sottomissione a cuò che già siamo. Sottomissione alle leggi di Dio, che ci vogliono proprio come siamo e non diversamente. […] La preghiera era il mio jihad, lo sforzo che conduceva a me stesso». Ma una strana ombra viene a trovarlo di notte e Amal decide di cambiare vita, abbracciando la scelta del reclutamento presso un campo di addestramento dei Neri. Il significato di jihad per lui cambierà e l’esperienza della guerra e del sangue lo stravolgeranno: «Uccidendo il primo nemico, avevo ucciso per sempre la mia trasparenza: ero duro come legno, resistente come ferro. Che fosse questo, essere uomo?, mi chiesi». Solo l’unione con una sposa-bambina, la quattordicenne Marya, che deve obbligatoriamente scegliere tra le donne rapite e tenute schiave al villaggio dei Neri, solo l’amore di questa ragazza e la sua rivelazione di essere una kafir, una cristiana, un’infedele, lo riporterà a sé stesso e alla salvezza, attraverso le parole che Marya ogni sera gli rivolge per raccontare le storie che lei e le compagne rapite si tramandano al campo: «Era stata Zanah, la più vecchia – aveva diciannove anni allora –  ad avere l’idea. “Dobbiamo parlare tra di noi. Se stiamo zitte hanno vinto”, aveva detto Zanah. “I Neri vogliono ridurci ad animali. Non ce la faranno. Ci hanno trasformate in schiave. È questo che siamo. Ma non annienteranno la nostra anima. Dobbiamo pregare. Quando siamo sole, sorelle, dobbiamo pregare. E di giorno, quando ci incontriamo, ognuna deve avere una storia pronta da raccontare alle altre. Così soltanto potremo rimanere donne. E, per davvero, vive». Così, dopo essere sceso agli inferi della sua ultima battaglia, dopo aver ritrovato il vecchio Ahmed e con lui essersi scontrato, dopo aver scoperto il segreto che suo padre aveva portato via per sempre dal loro villaggio, Amal decide di tornare a casa con Marya, che intanto ha in grembo la loro promessa di un destino diverso, un figlio che chiameranno Futuro.
Quella raccontata da Catozzella è una storia profonda che arriva diritto al cuore, grazie anche allo stile di questo scrittore, che è sempre incisivo, asciutto e allo stesso tempo penetrante come lama. La sua scrittura narrativa nasce sempre da un’esperienza, come in Non dirmi che hai paura, la storia dell’atleta Samia Yusuf Omar (di cui ho approfondito in questo contributo: https://vitaminevaganti.com/2020/04/11/una-gazzella-in-corsa-verso-la-liberta-storia-di-samia-yusuf-omar/) o da un accurato approfondimento dei documenti, come Italiana (vd. https://vitaminevaganti.com/2021/07/24/30068/). Alla fine de Il grande futuro l’autore ringrazia Alì e ci informa che attualmente egli dedica le sue giornate a tenere i bambini del villaggio lontani dalla guerra.
È un romanzo che mi è riaffiorato alla memoria nel rileggere gli articoli 7 e 8 della Costituzione e nel ripensare alle tante domande che sempre ci si pone sul senso delle religioni nella vita degli esseri umani. La Storia ci insegna che spesso, purtroppo, guerre sanguinose si sono combattute in nome della religione, ma, a ben vedere, la storia di Alì ci mostra come il vero senso della religione non è la guerra, ma l’amore e, dunque, la pace:
Chiunque uccida un uomo sarà come se avesse ucciso l’umanità intera. E chi ne abbia salvato uno, sarà come se avesse salvato tutta l’umanità (Corano, 5:32, esergo del romanzo).
Amerai il prossimo tuo come te stesso. Non c’è altro comandamento più importante di questo (Vangelo di Marco 12,29-31).
A questo l’umanità dovrebbe ritornare con forza e significativamente, ad un et-et che includa in una pacifica convivenza. Credo non ci possa essere altra laicità possibile se non quella nel nome dell’amore e del rispetto delle persone in quanto tali e dei loro diritti. È compito nostro far sì che la politica e la società si adoperino affinché tale principio diventi di reale uguaglianza e pace tra popoli.

Esempio di pacifica convivenza arabi e palestinesi

Pillola di bellezza ri-costituente

Quest’anno, a marzo, l’istituto “Iqbal Masih” di Pioltello, in provincia di Milano, è diventato protagonista di una vicenda paradossale e beceramente strumentalizzata dalla politica nostrana. Il Consiglio di Istituto, nelle sue facoltà, aveva deliberato all’unanimità come giorno di chiusura della scuola – in aggiunta e non in sottrazione ai giorni stabiliti dal calendario regionale – il 10 aprile, giorno della festa di chiusura del Ramadan, poiché il 43% degli alunni e alunne frequentanti questa scuola sono di fede musulmana.
La decisione ha suscitato una polemica, inutile e pretestuosa, al punto che l’Ufficio scolastico della Lombardia, attivato dal Ministro Valditara in persona, la delibera della scuola di Pioltello sulla chiusura è irregolare (USR solerte, in questo caso, come mai in altri casi di scuole in cui avvengono irregolarità reali e ben più gravi). Le reazioni del Paese cosiddetto reale — perché si sa che i rappresentati del Governo siedono su poltrone che sembrano essere collocate nell’iperuranio, lontani anni luce dai nostri quotidiani affanni — non tardano ad arrivare.
Il preside dell’istituto Alessandro Fanfoni ha spiegato: «Abbiamo classi in cui, negli anni scorsi, in occasione del Ramadan, si presentavano a scuola solo tre o quattro bambini di fede islamica. Questa festa per loro è importante, e spesso viene condivisa anche dai compagni italiani che partecipano per rispetto e amicizia».
I/le docenti dell’Istituto hanno affidato il loro commento a una lettera aperta: «Come docenti dell’Istituto Comprensivo “Iqbal Masih” di Pioltello vogliamo esprimere la nostra indignazione per la strumentalizzazione di una scelta legittima, condivisibile o meno, votata all’unanimità dei docenti presenti nel maggio 2023 e accolta all’unanimità dal Consiglio di Istituto.  La scelta della Scuola nasce dall’analisi e dalla valutazione del contesto territoriale, sociale e culturale in cui è inserita, in periferia di Milano, con un’utenza multiculturale con predominanza araba e pakistana. Ci teniamo a sottolineare con forza che la nostra non è una scelta politica e prendiamo le distanze da ogni strumentalizzazione. Siamo un Collegio formato da quasi 200 docenti, con idee ed orientamenti politici ovviamente molto diversificati, che ha operato una scelta didattica che va rispettata».
Roberto Pagani, diacono permanente che dal 2013 è responsabile del Servizio ecumenismo e dialogo interreligioso della Diocesi di Milano, ha affermato: «Siamo a favore di questo gesto. Di più: come i musulmani in Italia condividono e festeggiano insieme a noi Cattolici il Natale e la Pasqua, trovo bello che un’iniziativa di dialogo interreligioso parta da una scuola, che si fa promotrice della creazione di un ponte tra giovani che a casa vivono fedi differenti.
Mahmoud Asfa, presidente della Casa della cultura musulmana di via Padova a Milano: «Il gesto della scuola di Pioltello è davvero straordinario perché ha reso possibile quello che tra compagni e amici già accade: condividere un momento di festa. Questo non vuol dire rendere il Ramadan una tra le “feste del calendario nazionale” di tutte le scuole. Assolutamente. Ma in un istituto con così tanti ragazzi italiani di seconda o terza generazione di fede mussulmana è bello che sia stata data loro un’occasione del genere. Lo trovo un gesto di civiltà e di rispettosa convivenza che viene coltivata già nelle giovani generazioni».
L’arcivescovo ambrosiano, monsignor Mario Delpini, ha dichiarato: «È un legittimo provvedimento dell’istituto, non solo assolutamente normale, ma auspicabile. Non mi pare il caso di far diventare la questione un problema. Una delle cose più importanti della vita è la religione. Credo anche che quanto deciso dalla scuola sia addirittura auspicabile. Rispettare la festa dei musulmani è un modo per capire l’altro. Le scuole tengono in considerazione le settimane bianche, figuriamoci un appuntamento come questo. Lo ritengo un ottimo esempio davanti a una realtà complessa, che abbraccia la logica dell’incontro».
Nonostante le pressioni, riunito nuovamente per modificare la delibera, il Consiglio d’Istituto ha tenuto il punto: la scuola ha chiuso il 10 aprile, aggiungendo nella delibera le motivazioni di ordine didattico che avevano portato a tale scelta.
Valditara ha dichiarato: «Non credo che si faccia inclusione chiudendo le scuole, ma parlando dei problemi del dialogo delle religioni: è meglio parlare che chiudere». Peccato che la compagine politica da cui il ministro dell’istruzione e del merito (!) proviene ha tenuto chiusi i porti lasciando innocenti in stallo in mare aperto: in quel caso, forse, non prevaleva il dialogo sulla decisione della chiusura. Un’occasione persa, come tante, dal neofascismo di Stato che si fa garante di Dio, Patria e famiglia ma disattende proprio a quel principio di laicità insito nel nostro dettato costituzionale, che richiede pacifica convivenza e rispetto di ogni credo ed etnia.
Intanto, si sono concluse le Olimpiadi 2024 e Paola Egonu (non Enogu, come ha twittato Bruno Vespa) con le fantastiche atlete azzurre della pallavolo hanno vinto una bellissima e storica medaglia d’oro.
Con tanti saluti a Vannacci!

In copertina: presidio a sostegno dell’Istituto Iqbal Mashil.

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Articolo di Valeria Pilone

Già collaboratrice della cattedra di Letteratura italiana e lettrice madrelingua per gli e le studenti Erasmus presso l’università di Foggia, è docente di Lettere al liceo Benini di Melegnano. È appassionata lettrice e studiosa di Dante e del Novecento e nella sua scuola si dedica all’approfondimento della parità di genere, dell’antimafia e della Costituzione

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