«Quell’anno avevo scoperto che c’era in me, nel mezzo del più rigido degli inverni, un’invincibile estate».
Quando si legge un libro di Giuseppe Catozzella si va sempre sul sicuro e non si resta mai delusi, perché le storie che racconta prendono vita dalla realtà, hanno il potere di farci immedesimare in esse, di vederle svolgersi davanti ai nostri occhi, ci catturano letteralmente. Non riusciamo a staccarci dalle pagine dei suoi libri, che scorrono grazie a uno stile accurato nel lessico e nello stesso tempo fluido, che permette davvero una lettura tutta d’un fiato.
A febbraio di questo anno Catozzella ha dato alla luce il suo ultimo romanzo intitolato Italiana, edito dalla Mondadori. È la storia di Maria Oliverio che vive con la sua numerosa e poverissima famiglia a Casole, un piccolo paese in provincia di Cosenza: una storia di povertà che parte dalle origini, dal nonno di Maria, costretto a eliminare le vacche e le capre ammalatesi e a cominciare, con i figli maschi, a lavorare la terra della famiglia Morelli, diventando «braccianti, dipendenti dai capricci dei “cappelli” […] Digerivamo la nostra stessa fame e la mattina ci svegliavamo ricordandoci che la dignità — “La dignità!” ripeteva papà —, quella non dovevamo farcela strappare mai da nessuno» (pp. 18-19). Le donne di casa, invece, filano tessuti per la famiglia Gullo. La sorella maggiore di Maria, Teresa, è stata mandata a vivere con i conti Tommaso e Rosanna Morelli, cugini dei padroni di Biaggio Oliverio, papà di Maria, in virtù di un tremendo ricatto, tra i tanti che gli ultimi e i più poveri della terra sono sempre stati costretti a subire: la bambina è il prezzo per continuare a lavorare per don Donato Morelli, i cugini l’avrebbero educata e mantenuta fino al matrimonio e gli Oliverio avrebbero ricevuto in cambio ogni anno un maiale.
Ma un evento all’inizio del romanzo cambia tutte le carte in tavola del destino, soprattutto quello di Maria: i conti adottivi muoiono e Teresa viene rimandata a Casole con pochi soldi e in un contesto poverissimo, in cui la ragazzina non è abituata a vivere. Cresce, inoltre, in modo esponenziale il suo odio verso la sorella Maria, perché ritenuta responsabile della morte dei genitori adottivi, in quanto questi si erano recati a Napoli per contrattare anche l’adozione di Maria e uccisi in quel frangente durante la sommossa di giovani napoletani, scesi per le strade il 15 maggio 1848 in seguito al rifiuto di re Ferdinando II di Borbone di firmare la Costituzione liberale. Si apre per Maria una strada attraverso la quale crescerà e diventerà sempre più consapevole di sé stessa e del mondo in cui vive, pregno di ingiustizie. Per cinque anni vive in montagna, nel bosco, con la zia Maddalena detta Terremoto, dal soprannome dato al marito, che si era dato alla macchia, di cui si diceva, secondo le leggende di paese, che fosse discendente «dei Carbonari della montagna, montanari che avevano combattuto contro l’occupazione dei francesi di Murat a fianco dell’esercito dei Borbone, e per questo si erano guadagnati il rispetto di tutti» (p. 48). Ma il re Borbone li aveva traditi, non concedendo la tanto agognata abolizione della schiavitù dei latifondi, e i Carbonari avevano così deciso di rimanere sulle montagne, da dove compivano azioni di guerriglia e rapina alle masserie dei nobili, distribuendo poi il bottino ai braccianti poveri e vessati.
A Maria manca molto la scuola. Attraverso le sue parole, l’autore ci trasmette l’importanza cruciale dell’istruzione. Il pensiero corre a quanto sarebbe stata fondamentale per il Sud in quello scorcio di storia patria: «per me la scuola era tutto, mi faceva credere che forse sarei diventata diversa da com’ero, migliore, che forse da grande sarei diventata una donna importante» (p. 55); «L’unica consolazione la trovavo nei libri, la solitudine di quei mesi mi ha fatto capire che sono gli unici amici fidati che una donna possa avere, sempre che abbia la fortuna di imparare a leggere» (p. 97). Dopo cinque anni la ragazza torna in paese perché zia Terremoto decide di raggiungere il marito su per le montagne. Ed è da questo punto della storia che si svolge, pagina dopo pagina, la narrazione vorticosa e appassionata del suo destino, dal momento in cui scopre che in lei abita «nel mezzo del più rigido degli inverni, un’invincibile estate» (p. 73).
Maria cresce, diventa sempre più intelligente e bella, sempre più consapevole della subalternità del suo sesso in un mondo contadino e patriarcale come quello del Sud. È toccante il modo in cui Catozzella sa dare voce a una donna, pur essendo lui uomo: non è mai stereotipato, usa sempre grande sensibilità e rispetto per le questioni che investono noi donne. Questo era già stato apprezzato da noi lettrici e lettori, in modo particolare, leggendo la storia di Saamiya Yusuf Omar in Non dirmi che hai paura (Feltrinelli, Milano 2014, romanzo con cui l’autore ha vinto il Premio Strega Giovani). In alcuni passaggi di Italiana qualunque donna, specie se originaria del Sud — come me — si può ritrovare, può percorrere il filo dei suoi stessi pensieri e sensazioni: «[…] gli uomini per strada mi guardavano — prima con desiderio, subito dopo con curiosità —, qualcuno ammiccava. Ero disgustata da quegli sguardi, e mi sentivo intrappolata. […] Presto avrei avuto figli, visto che adesso ero pronta e gli uomini sembravano non chiedermi altro, e i miei figli mi avrebbero trattenuta dal vivere libera come zia Terremoto, dal chiudere gli occhi e respirare il bosco e non pensare a nient’altro, dal cercare il sole vicino alle cime del Monte Scuro e del Curcio, dal bagnarmi nei laghi se mi andava, dal perdermi per le pietraie e i sentieri. Dal salvarmi dallo sfacelo del mondo e del Regno» (p. 74). Maria deve rimboccarsi le maniche, lavorare, non può studiare, conosce l’amore e le sue contraddizioni e violenze, inscritte nella società di cui è figlia e nelle parole della madre, che le parla con la rassegnazione che tante volte abbiamo udito dalle nostre nonne e madri: «Siamo donne, Mari’, era meglio nascere maschi. Possiamo solo prendere. Tu devi stare attenta, perché di uomini onesti là fuori non ce n’è assai» (p. 79). Incontra Pietro Monaco, un ragazzo dall’indole rivoluzionaria, che sogna la libertà e un mondo diverso da quello in cui è costretto a spaccarsi la schiena. Si innamorano e Pietro vuole sposarla, ma dovranno rimandare perché il ragazzo è chiamato a Napoli per la leva militare nell’esercito dei Borbone. Lì il giovane Monaco conosce diversi rivoluzionari, tra cui Carlo Pisacane, con il quale deve prendere parte a una missione e ne parla a Maria in una delle sue fugaci licenze. Ma lei è una ragazza realista e concreta, intravede prima di Pietro i limiti di quella battaglia patriottica: «”Ogni bracciante possiederà le terre che ha lavorato per tutta la vita” ripeteva come una promessa. “Verrà abolita la tassa sul macinato, la tassa sul sale. Tutto. Avremo l’uso civico delle terre. Saremo liberi, Mari’”. Mi faceva paura, non avevo mai visto i suoi occhi accendersi di tanta esaltazione, non l’avevo mai visto avvampare per le sue stesse parole. Lo ascoltavo, ma non ho creduto a niente; come diceva papà, le cose da noi non sarebbero cambiate mai. La mia stessa vita, chiusa in quella stanza a tessere, lo dimostrava» (pp. 136-137). Il 28 giugno 1857 Pietro partecipa alla tragica spedizione di Sapri, nel Cilento, restando miracolosamente vivo mentre gli amici muoiono. Torna, scosso, da Maria e la sposa, visibilmente deperito nel corpo ma non negli ideali: sull’onda della sua ammirazione per Garibaldi, si arruola al seguito dell’esercito piemontese.

Ma le promesse fatte non saranno mantenute e i giovani che avevano combattuto al fianco dell’”eroe dei due mondi” verranno ricercati e perseguitati dall’esercito piemontese. Pietro e i suoi compagni si nasconderanno nelle montagne della Sila, dove Maria lo raggiungerà — dopo aver vissuto una tragica esperienza personale che la spingerà ad abbracciare la fuga verso i boschi — per cominciare la loro vita da briganti. Sui monti Maria diventa la brigantessa Ciccilla, l’unica donna della nostra storia che arriva a guidare una banda di briganti.
La vicenda di Maria Oliverio viene ricostruita dall’autore dopo un attento studio dei documenti degli archivi, come lui stesso ci riferisce nella sua nota in calce al libro e come da sua prassi scrittoria, per la quale le sue storie nascono dopo una fase di lungo lavoro di consultazione e studio di materiale d’archivio, in una perfetta e armonica coesistenza tra romanzo e realtà (Catozzella è anche autore di molti reportage per diverse riviste e testate giornalistiche). In Italiana scorri le pagine e ti riscopri a rincorrere Maria, corri nei boschi della Sila, corri tra le montagne, corri pagina dopo pagina dietro l’afflato di libertà che animano Ciccilla e la banda del marito Pietro Monaco. E scopri che la Storia di morantiana memoria non è stata ancora raccontata nella sua interezza e secondo punti di vista più ampi: la Storia che spesso conosciamo e studiamo è la Storia dei vincitori, mai quella dei vinti e vinte. Uno dei tanti meriti di questo libro è proprio quello di farci ascoltare la voce di una umile, un’ultima della società, che apparentemente perde, ma apre strade che ancora oggi hanno bisogno di essere battute. Ed è una storia che fa riflettere, tanto, sempre. Tutte le storie di vera letteratura fanno pensare, pongono domande, ti mettono in movimento alla ricerca di risposte, alla ricerca di altre domande. Lo stesso Catozzella, in occasione dell’uscita del libro, ha dichiarato: «È la storia di una donna che trova dentro di sé il coraggio per liberarsi […] Mia nonna in più occasioni mi ha raccontato le vicende di questa ava che insieme a suo marito aveva combattuto nella guerra civile italiana, come brigantessa. Sono storie a cui ho cominciato a interessarmi sin da piccolo e che poi, pian piano, ho studiato sempre di più. E ho scoperto che riguarda noi tutti, il passato di noi italiani, il rapporto mai risolto veramente tra il Nord e il Sud, ce lo portiamo dentro e dietro, è una delle tare del nostro Paese» (intervista del 12/02/21 per Mondadori, reperibile al link https://www.youtube.com/watch?v=KT4ykRQtOdQ ).
È una questione rimasta irrisolta, una zavorra che — come sottolinea l’autore — ci portiamo dietro da 160 anni e con la quale abbiamo fatto i conti solo in parte: la nostra storia nazionale e il processo che ha portato all’unificazione del 1861 hanno lati oscuri che non ci permettono, ancora oggi, di indentificarci in una tradizione epica comune e in sentimenti patriottici univoci, come avviene per altri Paesi. Catozzella si chiede, infatti, «perché nella nostra tradizione moderna e contemporanea non esiste, a differenza della letteratura delle altre lingue europee, un’epica della nazione», provando a rispondere a partire dalla considerazione che nelle opere che annoveriamo come appartenenti al tema dell’unità nazionale manca l’elemento epico per due ragioni: «tradimento del Nord verso il Sud e tradimento delle élite verso il popolo […]. È su questa doppia frattura che è costruito tutto il nostro disincanto. Ma non solo. È su questa doppia frattura che è costruito tutto il nostro disimpegno. E così non tornare a quella frattura è continuare a vivere, a produrre, a consumare, a esistere nell’interregno, nel “regno di mezzo”, nello scarto di fiducia tra una promessa e il suo mantenimento. Ovvero poter fare un po’ come ci pare. Niente di male, si intende, ma niente di adulto e di reale, però» (https://www.illibraio.it/news/dautore/catozzella-epica-nazione-1397152/).
Questa storia ci scuote dal torpore del perbenismo intellettuale e ci fa ritornare su una questione apparentemente atavica ma in realtà molto attuale: la frattura, il distacco su cui si fondano ancora oggi disuguaglianze culturali, economiche, sociali, che nel nostro Paese pesano come macigni sulle spalle dei più deboli, senza che mai ce ne si assuma la responsabilità di un serio progetto di ricostruzione e investimento che risollevino il Mezzogiorno, spesso usato meramente come mantra elettorale. Mi ritornano alla mente le parole dello storico Paolo Viola: «Ma la grande tragedia della guerra civile fu vissuta nel mezzogiorno continentale, fra Calabria, Basilicata e Campania: là dove sessant’anni prima si era reclutato l’esercito “sanfedista” che aveva abbattuto la “Repubblica partenopea”. Intere popolazioni contadine presero le armi contro lo Stato unitario. Con una definizione riduttiva, questa insurrezione fu definita “brigantaggio”. Ma richiese l’intervento massiccio dell’esercito e si concluse dopo anni con un bilancio di migliaia e migliaia di morti e province intere devastate. […] il nuovo Stato nasceva con un’eredità di lacerazioni estremamente profonde. Il tempo avrebbe sanato molto lentamente e solo in piccola parte questi gravissimi squilibri» (Paolo Viola, Storia moderna e contemporanea. L’Ottocento, volume terzo, Einaudi, Torino, 2000, p. 152). L’insurrezione ha implicato l’uso della violenza, come tutte le rivoluzioni: a chi grida allo scandalo ancora oggi, la storia di Maria Oliverio ricorda che la violenza genera sempre altra violenza e nel popolo oppresso non nasce mai spontaneamente dal nulla. È un grande pregio, poi, che si rifletta su tutto questo attraverso la storia di una donna che si racconta in prima persona. Maria sceglie di essere libera in un sistema che l’aveva condannata all’eterna schiavitù del povero al soldo del padrone, del cafone calpestato dal latifondista nelle bellissime terre del Sud: «[…] avevano preso Ciccilla, la famosa Ciccilla, la terribile Ciccilla […] Certo che ero io, e che non ero un uomo, per niente al mondo avrei voluto esserlo. Da due anni ero più simile a Bacca che a un uomo, e non c’è niente di più lontano da un uomo di una lupa. Ma una cosa dev’essere chiara: se ho usato un coltello per tagliarmi i capelli e mi sono vestita da uomo non è stato per essere come uno di loro. Se l’ho fatto è stato perché, senza, non mi sarei mai liberata. Senza, sarei rimasta Maria» (p. 14).
Per chi è nato nel Sud del nostro Paese, leggere Italiana significa fare un viaggio alla riscoperta delle radici di quella «faglia tra Nord e Sud» di cui noi, emigrati al Nord, siamo «esito». Leggere Italiana è per tutti e tutte fondamentale e terapeutico oggi più che mai, per ritrovare in sé stessi/e quell’aspirazione alla libertà e alla giustizia che ha condotto ogni impresa umana finalizzata a migliorare il mondo in cui viviamo, quel senso di comune appartenenza a un destino che, a distanza di un secolo e mezzo, per noi non si è ancora pienamente compiuto.

Giuseppe Catozzella
Italiana
Mondadori, Milano, 2021
pp. 322
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Articolo di Valeria Pilone

Già collaboratrice della cattedra di Letteratura italiana e lettrice madrelingua per gli e le studenti Erasmus presso l’università di Foggia, è docente di Lettere al liceo Benini di Melegnano. È appassionata lettrice e studiosa di Dante e del Novecento e nella sua scuola si dedica all’approfondimento della parità di genere, dell’antimafia e della Costituzione.