
Samia Yusuf Omar era un’atleta somala che ha partecipato alle Olimpiadi di Pechino nel 2008. Fin da subito ha avuto propensione per la corsa, ma non è stato semplice per lei coltivare la sua passione, in un paese dominato dalla guerra e dai fondamentalisti islamici: il governo non era in grado di offrire formazione e sostegno agli atleti, men che meno alle atlete, le poche strutture sportive erano state danneggiate o completamente distrutte. La sua storia la conosciamo grazie a Abdi Bile, medaglia d’oro nei 1500 metri ai Mondiali di Roma del 1987, che dopo il trionfo di Mo Farah – atleta britannico di origine somala – alle Olimpiadi di Londra, davanti a una platea riunita a Mogadiscio per ascoltare i membri del Comitato olimpico nazionale, disse: «Siamo felici per Mo, è il nostro orgoglio, ma non dimentichiamo Samia. Sapete che fine ha fatto Samia Yusuf Omar? La ragazza è morta… Morta per raggiungere l’Occidente. Aveva preso una carretta del mare che dalla Libia l’avrebbe dovuta portare in Italia. Non ce l’ha fatta. Era un’atleta bravissima. Una splendida ragazza». Era il 2012, mancavano pochi giorni alle elezioni presidenziali somale e la morte di Samia Yusuf Omar – che non è chiaro quando e come avvenne – fu ripresa da varie testate nazionali e internazionali. In Italia fu raccontata dalla scrittrice italo-somala Igiaba Scego su Pubblico. Le notizie sulla sorte di Samia Yusuf Omar sono molto poche: tra queste, quelle riportate in diversi articoli da Teresa Krug, scrittrice e giornalista di Al Jazeera, che intervistò a lungo e in diverse occasioni Samia in vista dell’uscita di un libro sulla sua vita, progetto che poi fallì. Samia era la più piccola dei sei figli di una famiglia di Mogadiscio, nata il 30 aprile del 1991, anno in cui il presidente Siad Barre venne destituito dal movimento di liberazione somalo. Il padre, Omar Yusuf, fu ucciso da un colpo di pistola al mercato di Bakara, il più grande di Mogadiscio, dove lavorava: il mese dopo Samia lasciò la scuola per occuparsi dei fratelli al posto della madre, che dovette iniziare a lavorare. Fu in quel periodo che iniziò ad allenarsi nella corsa. Non fu affatto semplice: quando non poteva allenarsi allo stadio correva per le strade, ma una donna atleta non era ben vista dalla società del suo paese. Samia correva con le maniche lunghe, i pantaloni della tuta e una sciarpa sulla testa. Alla BBC raccontò che quando usciva per andare ad allenarsi spesso veniva fermata ai posti di blocco, che mentre correva subiva intimidazioni, che una volta fu arrestata e minacciata di morte se non avesse smesso di fare sport. «Tradizionalmente i somali considerano “rovinate” le ragazze che praticano sport, musica, che indossano abiti trasparenti o pantaloncini. Quindi sono stata messa sotto pressione», spiegò. Nel maggio del 2008, quando aveva diciassette anni, Samia riuscì a partecipare ai 100 metri dei Campionati africani di atletica leggera, concludendo in ultima posizione la sua batteria. Fu comunque chiamata quello stesso anno a gareggiare alle Olimpiadi di Pechino in rappresentanza della Somalia, con un altro atleta: «Non mi importa se vinco. Ma sono felice di rappresentare il mio paese in questo grande evento. Non credo che faccia la differenza se vinco a questi o ai prossimi Giochi Olimpici».

Il 19 agosto Samia corse i 200 metri: fu uno dei momenti più famosi di quei Giochi. Era in seconda corsia, accanto ad atlete celebri e ben nutrite. La prima a tagliare il traguardo della batteria fu la giamaicana Veronica Campbell-Brown in 23,04 secondi. Samia, magrissima, con le scarpe regalate dalla squadra di atletica sudanese, stava ancora entrando nella curva della pista. Arrivò ultima in 32,16 secondi, incoraggiata e applaudita dal pubblico dello stadio. «Sono felice», disse. «Le persone mi hanno incoraggiato con il tifo, è stato molto bello. Ma mi sarebbe piaciuto essere applaudita per aver vinto, e non perché avevo bisogno di incoraggiamento. Farò del mio meglio per non essere ultima, la prossima volta».
Dopo Pechino, Samia tornò a Mogadiscio. Fu ricevuta con poco clamore. La sua gara era avvenuta intorno alla mezzanotte ora locale, nessuna radio o televisione aveva parlato dell’evento e nessuno, a parte la sua famiglia, aveva potuto vederla. Samia ricevette nuove minacce dal gruppo islamista al Shabaab, che in Somalia stava prendendo sempre maggiore potere, e dovette cominciare a nascondere e a negare pubblicamente il fatto di essere un’atleta. Nel dicembre del 2009 finì a vivere con la famiglia in un campo profughi a venti chilometri da Mogadiscio. Nel luglio del 2010 riuscì a partecipare ai Campionati africani di Nairobi e il mese dopo si trasferì in Etiopia, nella speranza di trovare un allenatore.

Da lì, non si sa esattamente come né perché, decise di affrontare il Viaggio attraverso il deserto e il Sudan, per arrivare in Libia, Viaggio che, insieme alla sua vita, è stato raccontato nel bellissimo romanzo-inchiesta Non dirmi che hai paura di Giuseppe Catozzella, edito dalla Feltrinelli nel 2014, nato dall’incontro dell’autore con la sorella di Samia, Hodan, e con una ragazza che era stata con la stessa Samia nei giorni di permanenza a Tripoli, una tappa del Viaggio, in una casa con altre quaranta donne. In un’intervista della BBC, Hodan, che nel frattempo aveva ottenuto asilo politico in Finlandia, disse di Samia: «Non aveva bisogni materiali, non stava male, non aveva fame. Ma Addis Abeba è un punto di snodo delle migrazioni. E poi c’era sempre quella voglia di partecipare alle Olimpiadi. Il pensiero fisso di Londra». La sorella raccontò anche dell’ultima telefonata di Samia con la madre, e la giornalista di Al Jazeera Teresa Krug scrisse: «Dopo il suo arrivo in Libia parlammo di rado. La sostenni per quanto mi fu possibile ma lei non si faceva sentire spesso. Nell’ultimo messaggio che mi mandò diceva che era stata in prigione, che era stata molto male ma che adesso si sentiva meglio. Questo accadde all’inizio del 2012». Da quel momento in poi, di lei non si ebbero più notizie. Stando ad alcune ricostruzioni Samia è annegata il 2 aprile al largo di Lampedusa, nel tentativo di raggiungere le coste italiane. Nel tempo circolarono altre ricostruzioni sul fatto che fosse naufragata il 17 marzo e fosse incinta, notizie successivamente smentite dal racconto veritiero di Catozzella. Testimone inascoltata del desiderio di libertà, la traversata del Mediterraneo come migrante su un barcone è stata la sua ultima corsa verso la salvezza. Samia è il simbolo di tutte le donne migranti che con la forza della disperazione e la voglia di credere ancora in un futuro migliore, di attaccarsi alla vita, affrontano il Viaggio terribile che dall’Africa le porta a mettersi in mare per raggiungere le coste europee, attraversando un vero e proprio calvario, una moderna e crudele Via Crucis fatta di torture, estorsione di denaro, violenze sessuali, sfruttamento, svuotamento totale della propria identità, un percorso che Catozzella racconta senza veli e senza retorica nel suo libro-testimonianza: «Sulla stuoia dura e piena di zecche mi chiedevo se ne valeva la pena. Mi rispondevo di no. Perché mi ero ridotta così? Volevo soltanto essere una campionessa dei duecento metri. A nessuno al mondo, per la breve durata di una vita, doveva essere consentito passare per quell’inferno» (Catozzella, Non dirmi che hai paura). La sua vita sia per noi insegnamento di tenacia e caparbietà nell’inseguire i nostri sogni, nell’operare per cambiare le cose che riteniamo ingiuste, che non ci piacciono, nel lottare per realizzare gli ideali di vera giustizia e vera libertà, così come sempre il padre di Samia la invitava a fare: «Lamentarsi serve solo a continuare a fare ciò che non ti piace […]. Se qualcosa davvero non ti va devi soltanto cambiarla […]. Non devi mai dire che hai paura, piccola Samia. Mai. Altrimenti le cose di cui hai paura si credono grandi e pensano di poterti vincere» (Catozzella, cit.).

A Samia la nostra Associazione di Toponomastica femminile ha dedicato un pannello della mostra Le viaggiatrici e la sua storia è presente nel viale delle Giuste alla Libera Università di Alcatraz, un percorso di circa 1500 metri lungo il quale sono state posizionate le sculture dedicate a 40 donne meritevoli del titolo di Giuste. Nella mia scuola, l’I.I.S. “Vincenzo Benini” di Melegnano, le abbiamo intitolato l’aula della 5B Liceo delle Scienze umane, nell’anno scolastico 2017/2018, dopo un percorso di approfondimento della sua storia attraverso la lettura del libro di Giuseppe Catozzella, autore che abbiamo avuto il piacere di ospitare a Melegnano, con la collaborazione del Comune, ad ottobre 2019, dal quale abbiamo ascoltato in modo diretto il suo incontro con la sorella dell’atleta. A Samia affidiamo tutte le donne che hanno vissuto e vivono l’orrore del Viaggio: alcune ce la fanno, tante altre affollano il cimitero sottomarino del Mare Nostrum. Che il mare sia loro lieve e la nostra memoria non ne disperda il coraggio e la forza di volontà.

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Articolo di Valeria Pilone

Già collaboratrice della cattedra di Letteratura italiana e lettrice madrelingua per gli e le studenti Erasmus presso l’università di Foggia, è docente di Lettere al liceo Benini di Melegnano. È appassionata lettrice e studiosa di Dante e del Novecento e nella sua scuola si dedica all’approfondimento della parità di genere, dell’antimafia e della Costituzione.