“Sociologia degli studi di genere e del pensiero femminile”: questo è l’interessante nome della materia di insegnamento che la prof.a ordinaria di Scienze psicologiche, pedagogiche, dell’esercizio fisico e della formazione dell’Università di Palermo, Ignazia Bartholini, tiene da alcuni anni e terrà per l’anno accademico 2025/2026, nell’ambito del corso di studi di Scienze pedagogiche.
Numerosi e pioneristici i progetti con cui, come Principal Investigator, ha intercettato finanziamenti europei o nazionali (ne citiamo solo 3 tra i maggiori: progetto Fami-Migration Mainstreaming, European Project, Just 2015; Provide Project e PRoximity On VIolence: Defence and Equity, Prin 2008 (Progetti di rilevante interesse nazionale) – Violenza nelle relazioni intime. Si tratta di progetti tutti tenacemente orientati a porre in campo attività di formazione, di consapevolizzazione e, non da ultimo, di ricerca teorica in tema di gender violence, o meglio di Proximity Violence, perché Ignazia Bartholini è stata forse la prima studiosa ad affermare con forza, negli anni Novanta, che la violenza che vede come vittima una donna (il caso Giulia Cecchettin non è che uno degli ultimi, atroci, esiti di questa forma di violenza) proviene dalla persona prossima che è legata o che le è stata legata intimamente, nei confronti della quale «quote emozionali ibride fra tenerezza, pietà e misericordia» la pongono «sull’altare del sacrificio» senza che se ne renda conto.

Le lettrici e i lettori di Vitamine vaganti già conoscono alcuni libri e interventi della docente, illustrati in questi articoli: Rosso silenzio. La genesi dell’identità e dell’incontro nella rete della violenza simbolica; La conferenza finale del progetto Migration mainstreaming. Prima giornata – Seconda giornata; Un saggio sociologico su matrimonio e maternità.
Per conoscere meglio il suo iter culturale e professionale, le poniamo alcune domande, che vogliono essere anche spunti di riflessione per possibili scelte di vita da parte delle nostre giovani lettrici.
Quali persone, momenti o esperienze del tuo percorso scolastico ti hanno fatto cogliere l’importanza di fenomeni come le differenze di genere e generazionali, le migrazioni, la devianza, la povertà e il disagio sociale, che sono poi diventati centrali nelle tue ricerche accademiche e nel tuo impegno anche politico?
L’attitudine a conoscere e rappresentare le “vite di scarto” appartiene sempre a una peculiare modalità con cui si è percepito il proprio “me”. Non si tratta di un “Sé sociale” né dell’io come anfratto più intimo della propria natura, ma del me, appunto come dimensione intermedia tra ciò che senti di essere e ciò che gli altri ti restituiscono come immagine di te stessa. Patricia Hill Collins raccontava di essersi sentita a scuola come una bambina “che non aveva voce”, che gli altri non sentivano. Nel mio caso, lo scarto fra le rilevanti aspettative culturali e sociali della mia famiglia “decaduta” e le concrete condizioni economiche di orfana, mi hanno da sempre fatto guardare il mondo con una naturale propensione verso il più vulnerabile, colei o colui che “era esposto/a” alla ferita senza “colpa”. Mi sono quindi convinta, durante gli studi universitari, che la riflessione filosofica, pur fondamentale, non bastava a conoscere e interpretare la realtà circostante; che dovessi attrezzarmi dei mixed method di analisi per portarla alla luce e di fronte allo sguardo della comunità scientifica. L’esperienza francofortese dei cenacoli di K.O. Aper e J. Habermas hanno contribuito fortemente alla mia attuale assunzione di responsabilità socio-politica.
Quali metodi utilizzi nel tuo lavoro di ricerca?
Svolgo analisi qualitativa con strumenti classici, quelli dei Chicagoens per intenderci — interviste, life-stories, focus group — suffragata dal confronto con i Big Data delle ricerche quantitative su scala internazionale-nazionale (dati Istat, Eurostat ecc.).
Ciò consente a me e alle mie collaboratrici di sperimentare, ma anche di confrontare big data e dati raccolti in ambito micro, mettendo in relazione e approfondendo le ragioni dello scarto quando è osservabile incontestabilmente. In tale traiettoria, tutta outsiders within, la desk analisys, cioè lo “studio matto e disperatissimo” è anticipatorio di ogni ricerca e fondamentale alla stessa interpretazione e costruzione teorica.
Nei tuoi interventi per la Giornata internazionale sulla violenza contro le donne, che si tiene ogni anno il 25 di novembre, affermi spesso che non si deve parlare di “violenza di genere”, ma è meglio dire “violenza di prossimità”. Ce ne parli?

Gran parte delle donne sono vittime di gender violence; lo sono per mano del partner, di un familiare, di una persona di cui si fidavano. Non si tratta di un soggetto estraneo o neutrale, ma contestualmente della persona o una delle persone legittimate all’uso della violenza dalla vittima stessa che si trova all’interno della sfera di influenza del carnefice, come ultima ratio, situazione da evitare ma non sempre evitabile. La vittima che cerca di uscire dalla relazione, o che ha già interrotto la relazione, mette la violenza nel paniere delle situazioni possibili, ma la volontà di interrompere la relazione evitando di far male al proprio carnefice la rende comunque una “vittima sacrificale”.
Quello che le indagini statistiche non sono in grado di rilevare è la condizione di crisi o di reciprocità volontaria del trovarsi all’interno di una relazione. Si tratta quindi di tenere in considerazione il sesso dell’aggressore oltre che quello della vittima; la relazione tra aggressore e vittima (partner, ex partner o soggetto comunque vicino alla vittima); la portata del coinvolgimento affettivo o emozionale derivante dal ricordo-importanza che tale persona ha avuto nella biografia della vittima. Proprio l’accertamento di questi tre indicatori mi ha permesso di evidenziare come la gender violence sia nella stragrande maggioranza dei casi il prodotto di una co-dipendenza, determinata da una prossimità emotiva oltre che fisica fra i soggetti coinvolti in una, sia pur differentemente connotabile, continuità temporale e vicinanza spaziale (Bartholini, 2013; 2020). Il paradigma della proximity violence ha riferimento a una forma più ambigua di violenza non più esclusivamente sostenuta da culture patriarcali o egemoniche, ma che tuttavia rivela l’elemento retroattivo di natura patriarcale che permea questo tipo di relazioni sia lungo l’asse verticale delle stratificazioni sociali sia lungo l’asse orizzontale delle diverse culture.
Tale paradigma sottolinea come si tratti di una violenza 1. autosufficiente; 2. autoimmune; 3. che esclude il conflitto aperto (Bartholini 2020). Essa è situata all’interno del contesto oppressivo e definisce (nella varietà dei modi in cui si manifesta a livello fisico, psicologico e simbolico) le identità reciproche e i ruoli dei soggetti coinvolti; evidenzia alcune dinamiche tra vittime resilienti e l’ambiguità dei carnefici, sottolineando l’importanza dell’adesione soggettiva e la condivisibilità di pratiche di sottomissione e normalizzazione della violenza e i nessi vischiosi esistenti tra vulnerabilità e resistenza al riconoscimento della violenza subita da parte delle vittime.
Il Dizionario di sociologia per la Persona (2025), è l’opera che hai recentemente curato, insieme a Carmelina Chiara Canta, e che vede un grande apporto da parte tua. 43 le voci che compongono il dizionario, in una analisi della società che vuole tener conto, finalmente, del pensiero e della prospettiva interpretativa femminile/ista. In che modo hai affrontato questo progetto editoriale che ha coinvolto tante accademiche e accademici?

Si è trattato di un impegno collettivo che oggi noi studiose/i del Gruppo Genere di SPe abbiamo preso: quello del ‘riprodurre riconoscendo’ le voci soffocate e, per così dire ‘insonorizzate’ della produzione femminista. Insieme a noi, tante studiose e tanti studiosi italiani che hanno contribuito alla pubblicazione di questo Dizionario.
Aiuto, Amore, Arti, Artiste, Barriere invisibili, Conflitto, Congedo, Corpo, Denatalità, Differenza, Educazione, Emozioni, Escortismo e tratta, Famiglia, Follia, Genere, Genitorialità, Gestazione Per Altri (Gpa), Giovani (le), Disabilità/ Handicap/Diversabilità, Imprenditoria, Intersezionalità, Invecchiamento, Lesbismo, Mass-Media, Maternità, Medicalizzazione, Migrazioni, Moda, Molestie-Stalking, Movimenti, Procreazione Medicalmente Assistita (Pma), Povertà, Prostituzione, Quote rosa, Radicalizzazione, Resilienza, Risentimento, Soggettività, Violenza, Vulnerabilità sono le voci che lo compongono e che sono state declinate tutte attraverso una letteratura femminile. La struttura del Dizionario è abbastanza semplice, prima facie: tutti i lemmi sono presentati in ordine alfabetico, ma alla fine di ognuno di essi sono elencati rimandi e connessioni con altri lemmi nello stesso testo, in un periplo che dà ragione alla complessità del pensiero femminile attraverso i lemmi principali (di natura più squisitamente teorica), i lemmi secondari o di corollario (che fanno riferimento alle voci principali e anche a risultati di natura empirica e procedurale) e a lemmi trasversali (che cioè si pongono intersezionalmente fra due o più voci principali) presenti nell’opera e abbinate alle prime.
I lemmi secondari (o di corollario) e trasversali sono voci che a loro volta appaiono come principali in altre parti del Dizionario.
Lo sforzo comune, nel dare conto di tale ricchezza, è stato quello di spostare l’asse del pensiero male mainstream, di bilanciarne le prospettive nonché i contributi che i filoni di ricerca gender oriented hanno evidenziato.
Approcci come quelli dell’intersezionalità (Collins, 1990; 2016), del femminismo postcoloniale (Bell Hooks, 1984) e dell’ecofemminismo (Kings, 2017) hanno vistosamente sottolineato l’importanza di comprendere le realtà complesse in cui fattori differenti modellano le relazioni, le azioni, i percorsi attuali. Alla base di concetti come, ad esempio, ‘vulnerabilità’, ‘aiuto’, ‘amore’, ‘invecchiamento’, ‘cura’, ecc., è rintracciabile quella particolare e universalmente riconoscibile capacità decostruzionista del pensiero femminile che non nega i costrutti sociali, ma li riposiziona intersezionalmente fornendo prospettive innovative su questioni sociali, culturali e politiche che ampliano le categorie stesse con cui sono state interpretate le questioni.
Ringraziamo la prof.a Ignazia Bartholini per queste sue risposte, che arricchiscono la nostra conoscenza in ambiti fondamentali della nostra società, non sempre affrontati adeguatamente; con una punta di invidia per i suoi e le sue studenti, che hanno il piacere di seguirla nelle lezioni, nella speranza di altri futuri momenti di incontro e lettura in rivista.
In copertina: l’autrice.
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Articolo di Danila Baldo

Laureata in filosofia teoretica e perfezionata in epistemologia, già docente di filosofia/scienze umane e consigliera di parità provinciale, tiene corsi di formazione, in particolare sui temi delle politiche di genere. Giornalista pubblicista, è vicepresidente dell’associazione Toponomastica femminile e caporedattrice della rivista online Vitamine vaganti.
