La danza non è cosa da uomini? Almeno non è cosa da uomini eterosessuali?
Esistono da sempre grandi ballerini. Personaggi come Nureyev e Baryshnikov sono indimenticabili, Roberto Bolle è un mito. Ma sono le eccezioni.
“L’uomo lombardo non balla”. Questa lapidaria risposta risale al 1948, quando il sovrintendente Antonio Ghiringhelli commentò il desiderio espresso dal maestro Aurel Milloss di dotare il corpo di ballo della Scala di elementi maschili.
Ancor oggi mi è capitato di ascoltare vivaci discussioni dove veniva affermato con estrema sicurezza che la danza è per donne, se un uomo fa danza è gay. Lo stesso meccanismo scatta per il nuoto sincronizzato, da poco accettato – tra le polemiche – ai Mondiali, ancora in forse alle Olimpiadi.
Sono i padri i più testardi, incuranti del fatto che i loro pregiudizi possano rendere infelici i figli.
Il piccolo Billy Elliott, che voleva fare il ballerino nonostante il parere contrario del padre e del fratello, non avrebbe vita facile neppure oggi (l’omonimo film, scritto e trasmesso nel 2000, racconta una storia vera ambientata nel 1984 nel Regno Unito). L’anno scorso il Teatro dell’Opera di Stato di Budapest è stato costretto a cancellare le repliche del pluripremiato musical dallo stesso titolo dopo un’accanita campagna d’odio anti-gay sui media.
In un mondo dove le donne fanno fatica ad avere le loro quote rosa c’è anche una frangia di ragazzi che vuole la sua quota azzurra e se la deve guadagnare a fatica. È analogo il motivo: l’ignoranza che porta a una lettura dicotomica della realtà.
Divieti non scritti, ma potenti.
Se una ragazza sceglie la danza si tratta di qualcosa con cui ha già avuto a che fare, direttamente o indirettamente; a scuola di danza sicuramente c’è andata qualcuna delle sue amiche. Nessuno la scoraggerà, anzi. Per un ragazzo invece significa qualcosa che non solo non ha mai praticato, ma che tutti han sempre vissuto come riguardante l’altro sesso. Significa sviluppare una passione, una dedizione, per qualcosa di apparentemente lontano da lui. E spesso significa dover affrontare lo scherno, mettere in conto la probabilità di essere bullizzato.
L’omofobia (= paura, tra le tante forse la più stupida) è un dispositivo culturale: serve per distanziarsi da un’attribuzione di mancata virilità che equivale a una perdita di potere; serve per rinsaldare una fragile corazza identitaria. Nel più o meno tacito accordo di molti e di molte il gay è un “maschio che non fa il suo dovere”, o peggio una “femminuccia”.
Tutto nasce dal presupposto inossidabile che essere donna o essere uomo corrisponda a caratteristiche vincolanti, tagliate con l’accetta: non solo fisiologiche, ma caratteriali, sentimentali e morali, uguali per tutti e per tutte.
In barba alla psiche – in cui il maschile e il femminile non sono separati nettamente ma si presentano, in proporzioni variabili, in entrambi i sessi – sin dall’antichità si è stabilito un ordine rigido e prescrittivo, si sono elencati princìpi antitetici: tutti gli uomini devono avere tutti i caratteri maschili e tutte le donne tutti i caratteri femminili. Si è sottovalutata, o si è finto di non vedere, la ricchezza infinita delle potenzialità e delle esperienze umane.
Virili la forza, l’irruenza, se occorre fino alla violenza. Femminili la grazia, la dolcezza, magari fino alla svenevolezza.
Di fronte a queste pretese verità assolute, così congeniali all’ordine costituito, ogni volta che si prospetta un cambiamento si genera una resistenza.
Le dicotomie preparano le esclusioni. Le opposizioni binarie producono inevitabilmente ordini determinanti non solo per i destini individuali dei singoli uomini e delle singole donne, ma per i modi dell’intera società.
L’organizzazione patriarcale è così difficile da abbattere perché la sua abolizione richiede la rimozione non solo di singoli atteggiamenti, bensì di un intero sistema di significati e comunicazioni. Questo disorienta, destabilizza, appare disordine e minaccia. Si preferisce il comodo rifugio delle certezze antiche.
Illustrazione di Marika Banci
Dopo la laurea in Lettere moderne, Marika si iscrive al corso triennale di Progettazione grafica e comunicazione visiva presso l’ISIA di Urbino. Si diploma nel 2019 con una tesi di ricerca sulle riviste femministe italiane dagli anni ’70 ad oggi e la creazione di una rivista d’arte in ottica di genere dal nome “Biebuk”. Designer e illustratrice, ha dedicato alle tematiche femministe molti dei suoi ultimi progetti.
Articolo di Graziella Priulla
Graziella Priulla, già docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nella Facoltà di Scienze Politiche di Catania, lavora alla formazione docenti, nello sforzo di introdurre l’identità di genere nelle istituzioni formative. Ha pubblicato numerosi volumi tra cui: “C’è differenza. Identità di genere e linguaggi”, “Parole tossiche, cronache di ordinario sessismo”, “Viaggio nel paese degli stereotipi”.