“Abbiamo guardato per secoli e secoli, finalmente abbiamo visto!”.
Mary Wollstonecraft (Vindication of the rights of women, 1792) affermava che la causa della debolezza femminile va individuata in un’educazione che induce le donne a voler somigliare all’immagine che gli uomini hanno di loro.
Per occupare uno spazio contrassegnato come ‘femminile’ la bellezza – definita secondo i canoni maschili – è il dazio da pagare, annotava più tardi Simone de Beauvoir.
Lo sguardo maschile è talmente pervasivo che le donne finiscono per introiettarlo e guardare se stesse (e le altre) con quegli occhi. “Se quel che vedi non ti piace, guarda dall’altra parte”, dice la lingua del buonsenso. “Guardami ti prego se no non esisto”, dice la lingua addomesticata del femminile.
La femminilità è presentata – oggi e ieri – come un costrutto che solletica il narcisismo di lei ma alla fine consiste in ciò che lui trova stimolante. Mutandine o tanga, bikini o topless, scollature o spacchi. Pose lascive, allusioni, ammiccamenti erotici. Sguardi preorgasmici, bocche socchiuse, particolari anatomici inquadrati con ossessivo feticismo. Non si vendono solo oggetti; si stanno vendendo – negli spot televisivi, nelle riviste patinate, sui muri delle città – rappresentazioni di soggetto e oggetto.
La “lei ideale” dei media nella postmodernità non è più solo casalinga e mamma: lavora, viaggia, si diverte, ma il suo corpo è come sempre un richiamo che fa leva sul desiderio maschile. Serve a vendere auto, bibite, pizze (te la diamo gratis) … betoniere e pannelli fotovoltaici (montami a costo zero). Il consumatore è un cane di Pavlov che sbava alla vista di carne esposta.
Nel nostro tempo alle antiche regole (la seduzione vedo/non vedo) si è aggiunto infatti, confermandole e rafforzandole, lo strapotere del marketing. Lo sfruttamento soft dei corpi fa da carburante al consumo, scorciatoia magica per la felicità: dalla cosmetica alla chirurgia estetica (in media 200mila operazioni l’anno in Italia), dalla moda alle diete al fitness, tutto impone un modello forzato che ricatta le insicurezze umane con mete irraggiungibili.
Ha scritto di recente Jem Bloomfield (università di Nottingham) nel suo blog:
Alle donne non viene dato un singolo standard per cui saranno ricompensate secondo il grado di ottenimento dello stesso. Sono soggette a standard contrastanti e contraddittori, fatti per assicurarle che non sono mai a posto. Sii snella, ma non scheletrica. Curati della tua apparenza, ma non essere vanitosa. Ricostruisci te stessa sino a diventare l’immagine che noi vogliamo, ma non apparire finta o artificiale. Usa i trucchi che ti fanno sembrare naturale. Sii sessualmente disponibile, ma non una zoccola. Sii premurosa, ma non fare la mamma. Sii eccentrica, ma non stramba.
Truccare tingere schiarire depilare levigare rassodare ammorbidire aspirare spianare rimpolpare asciugare raddrizzare rimodellare snellire: una rincorsa senza fine, una fatica pazzesca, una spesa enorme.
Inchiodate a un’ossessiva manutenzione che alimenta industrie sofisticate, ci è difficile viverci pienamente e accettarci serenamente. Sembriamo condannate a impietose valutazioni e a quotidiane frustrazioni, a provare costantemente lo scarto tra il corpo reale cui ci sentiamo incatenate e il corpo ideale cui ci sforziamo di somigliare, con un dispendio di energie che potrebbero esser dedicate a ben altre forme di autorealizzazione.
Lotta senza quartiere agli odiati rotolini e alle innominabili maniglie dell’amore, diete francescane, guerra perpetua ai carboidrati, palestra obbligatoria, esercizi sfiancanti. Che vitaccia. “Chili in più” è diventato un anatema, la pancia un terrore, la cellulite una catastrofe. Fat-shaming: se sei grassa ti tirano le pietre. Sei pronta per la prova costume? Tu devi adattarti a lui, non lui a te.
Se non ci convincessero ogni giorno che bisogna combattere il peso in eccesso, la cellulite, i peli, le rughe, una parte consistente del mercato perderebbe il suo potere (e noi saremmo molto più serene). Un giro d’affari miliardario prospera su queste ossessioni.
Giovinezza-bellezza-magrezza sono condizioni necessarie per volersi bene: questo è il messaggio che lo show business manda quotidianamente a milioni di ragazze. Non importa se l’auto-oggettivazione e il correlato monitoraggio ossessivo del proprio aspetto esteriore hanno conseguenze negative autolesionistiche: ansia, disturbi alimentari, depressione, peggior funzione sessuale, peggiori prestazioni cognitive.
Per allargare il mercato (la sola ModaBimbo vanta un business da 2,7 miliardi di euro) bisogna cominciare presto, fin dall’infanzia. Così un testo per le scuole elementari presenta i verbi riflessivi: il bambino dice “io mi diverto al computer” ed è raffigurato davanti all’oggetto; la bambina dice “io mi vesto, io mi pettino” ed è raffigurata mentre si liscia i capelli.
A Roma il primo centro estetico per bambine dai 3 ai 12 anni è stato aperto nel 2012. La baby-modella assume in studio pose seduttive davanti alla macchina fotografica e occhieggia allusiva dai cartelloni pubblicitari, per la gioia dello sponsor. Mette il lucidalabbra a sei anni, le calze a rete a dodici.
Che stupido, crudele paradosso. Cercar di diventare grandi con un anticipo micidiale e poi passare il resto della vita a cercar di sembrare giovani. Aver rifiutato lo Stato padrone, il Padre padrone, per poi accettare con entusiasmo il Mercato padrone.
Illustrazione di Marika Banci
Dopo la laurea in Lettere moderne, Marika si iscrive al corso triennale di Progettazione grafica e comunicazione visiva presso l’ISIA di Urbino. Si diploma nel 2019 con una tesi di ricerca sulle riviste femministe italiane dagli anni ’70 ad oggi e la creazione di una rivista d’arte in ottica di genere dal nome “Biebuk”. Designer e illustratrice, ha dedicato alle tematiche femministe molti dei suoi ultimi progetti.
Articolo di Graziella Priulla
Graziella Priulla, già docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nella Facoltà di Scienze Politiche di Catania, lavora alla formazione docenti, nello sforzo di introdurre l’identità di genere nelle istituzioni formative. Ha pubblicato numerosi volumi tra cui: C’è differenza. Identità di genere e linguaggi, Parole tossiche, cronache di ordinario sessismo, Viaggio nel paese degli stereotipi.