Premessa di Grazia Mazzè.
Le toponomaste conoscono bene la città di Palermo, sanno dove trovare Natalia Ginzburg, l’albero di Alessandra Wolff, il Giardino di Rosa Balistreri. Sanno quante donne mancano ancora all’appello, tante, troppe: il lavoro dietro una semplice intitolazione di strada è una condivisione lunga, burocratica, gli spazi a Palermo sono diventati veramente pochi. “Iole, alla Presidente serve una foto di Felicia per l’articolo su Vitamine vaganti, non ne abbiamo in archivio”. La foto arriva e se fosse stata in bianco e nero poteva dirsi d’autore, una recinzione, due sedie, il tempo segnato nel muro scalcinato, ma è imbrattata e spaccata… la tristezza non è solo per l’atto materiale ma a quella donna siamo legate, siamo aggrappate al ricordo di Felicia, probabilmente perché, da donne, da madri, percepiamo il significato del suo coraggio. La condividiamo nel gruppo, “Non possiamo lasciare che questo passi inosservato, Serena dammi una mano a fare uscire la notizia”. Scrivi questo, aggiungi quello, vediamo se passa, leggi se così va bene e la notizia è on line. Sentiamo di aver fatto la cosa giusta, per quietare il dispiacere, per dare un ulteriore senso alla Toponomastica femminile di Palermo. Condivido sui social, anche se non mi conosce personalmente ho amico su Fb il nuovo Assessore alla Cultura del Comune di Palermo, lo taggo, non si sa mai, al limite se non è interessato rimuoverà il tag. Adham M. Darawsha invece risponde, ne siamo felici, fa sua la nostra segnalazione e ci rendiamo conto che le istituzioni non sempre sono come ci appaiono. L’associazione volontaria di donne che da anni vuole mostrare il giusto volto dell’odonomastica delle città, nell’equilibrio di genere, si gratifica con i piccoli passi compiuti in tal senso. Nel ringraziare l’Assessore Darawsha, per l’impegno assunto a risistemare la targa di Felicia, proprio perché non possiamo rinnegare la natura che distingue la Toponomastica femminile, ci viene spontaneo chiedergli perché Felicia Impastato e non Felicia Bartolotta Impastato, come è giusto che sia. Per quanto la notorietà passi attraverso i congiunti, non bisogna mai consegnare alla storia una donna a metà e, nel caso di Felicia, senza riconoscere che è esistita a prescindere l’amaro percorso di vita. Ci auguriamo anche questa volta che Adham M. Darawsha legga.
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Una donna che non si è mai arresa alla rassegnazione e che incondizionatamente ha sposato gli ideali del figlio trasmettendoli fino all’ultimo giorno della sua vita. Ecco chi è stata Felicia Bartolotta Impastato, nata a Cinisi, in provincia di Palermo, il 24 maggio 1916. La famiglia in cui venne alla luce era piccolo-borghese, il padre impiegato e la madre casalinga. Nel 1947 si sposò con Luigi Impastato che faceva parte di un clan locale mafioso e addirittura un cognato era il capomafia di Cinisi.
Il suo non fu un matrimonio felice, lei stessa dichiarava che la sua vita coniugale era un inferno e ripeteva continuamente al marito che non avrebbe mai accettato che sotto il suo stesso tetto si fosse nascosto qualche latitante.
Appena il figlio Peppino crebbe e iniziò la sua lotta contro la mafia, la vita di Felicia diventò un tormento nel tentativo di difenderlo, sia dal padre che lo aveva cacciato di casa, sia da quella società intrisa di mafia in cui viveva.
Visse ogni giorno con la paura che potessero uccidere Peppino, cosa che purtroppo avvenne il 9 maggio 1978.
Piccola, minuta, gonfia di dolore e smarrita, decise di costituirsi parte civile. A Giovanni, il figlio che le era rimasto, diceva “Tu non devi parlare. Fai parlare me”, nel disperato tentativo di proteggerlo. E Felicia iniziò a parlare, con la gente, con i magistrati, con i giornalisti: aprì la sua casa a tutti quelli che volevano conoscere la storia di Peppino Impastato, una storia di ribellione alla mafia e di sete di giustizia; una storia che lei raccontava ogni giorno, come ha dichiarato la nipote Luisa Impastato, forse per tentare di esorcizzare il dolore, per ricordarne la memoria sia agli estranei che ai familiari.
Felicia ha sempre ripetuto che per il figlio ucciso voleva giustizia, non vendetta, un figlio adorato che sin da piccolo aveva difeso dalle grinfie del padre e dello zio che volevano portarlo con loro nella cosca malavitosa.
A questa madre non è restato neanche un corpo su cui piangere: Peppino fu letteralmente sbriciolato da una carica di tritolo nel vile tentativo di farlo passare per un terrorista.
Tra i messaggi scritti dalla gente il giorno in cui questa piccola donna morì, il 7 dicembre 2004, ci piace ricordare: “Ciao signora Felicia, che sei andata al di là degli alberi per pulirlo dal fango, per salvare il suo nome. A noi ora, a noi il compito di cantare la storia di Peppino ma anche della donna che per oltre vent’anni ha lottato per lui e con lui per tutti noi”.
“La forza di una mamma che ha saputo combattere con le armi della giustizia senza cadere nella stupida “vendetta mafiosa”; è questa la grande lezione che ci ha trasmesso questa meravigliosa donna siciliana.
Articolo di Ester Rizzo e Grazia Mazzè
Laureata in Giurisprudenza e specializzata presso l’Istituto Superiore di Giornalismo di Palermo, è docente al CUSCA (Centro Universitario Socio Culturale Adulti) di Licata per il corso di Letteratura al femminile. Collabora con varie testate on line, tra cui Malgradotutto e Dol’s. Per Navarra editore ha curato il volume Le Mille: i primati delle donne ed è autrice di Camicette bianche. Oltre l’otto marzo e di Le Ricamatrici.
Grazia Mazzè è nata e vive a Palermo. Da circa trent’anni è in distacco per attività sindacale. Segretaria Regionale di categoria del settore della chimica, energia e tessile della UIL, è impegnata da sempre nell’attività dei Coordinamenti Pari Opportunità e Politiche di genere, a livello regionale e nazionale. È la referente del gruppo Toponomastica femminile per la città di Palermo.