Il 12 luglio 1962, al Marquee di Londra, un locale alla moda al n. 165 di Oxford Street, si tenne il primo concerto dei Rolling Stones. Fino a un paio di giorni prima neppure sapevano di chiamarsi così. Brian Jones aveva telefonato alla redazione di Jazz News, un giornaletto che pubblicava le notizie di attualità della scena musicale britannica, per far inserire l’annuncio del loro concerto. La telefonata costava un tanto al minuto e i ragazzi non avevano soldi nemmeno per il contatore del gas della loro stamberga in affitto, e così, alla domanda: «Come vi chiamate?» Brian fu preso dal panico. Ma per terra c’era la copertina del disco The Best of Muddy Waters e la prima traccia era Rollin’ Stone. Come scrive Keith Richards nella sua autobiografia Life, «Disperati, Brian, Mick e io ci buttammo. “The Rolling Stones”. Fiuuu! Risparmiata una moneta da sei penny».
Il nome, benché trovato quasi per caso, è comunque tutto un programma. Deriva dal proverbio “A rolling stone gathers no moss”, “Pietra smossa non fa muschio”, e gli Stones hanno sempre voluto dare di sé proprio un’immagine irregolare e instabile. Tanto per cominciare, all’epoca il ventenne polistrumentista Brian Jones aveva già avuto tre figli da tre ragazze diverse, tutte opportunamente scaricate insieme ai bambini, e la sua stessa poliedricità musicale era vincolata all’impossibilità di fermarsi a uno strumento solo. Da ragazzino aveva imparato a suonare il pianoforte dalla madre, poi era divenuto primo clarinetto della banda della scuola a 14 anni. A 15 ascoltò un disco di Charlie Parker e insistette per ottenere dai genitori un sassofono, che studiò in maniera ossessiva fino a stufarsene. A 17 ebbe la prima chitarra, strumento con il quale entrò nella band, ma non si fermò qui. Nei dischi dei Rolling Stones, Brian ha suonato di tutto, dalla marimba all’organo, dal sitar al dulcimer. Fu proprio per tale ingordigia musicale, legata a un’assoluta inaffidabilità, che gli altri quattro decisero di sostituirlo. Ma non fecero in tempo a dare la notizia perché pochi giorni prima, il 3 luglio 1969, sette anni dopo il debutto, Brian morì annegato nella sua piscina, strafatto di tutto il possibile. Il concerto a Hyde Park del 5 luglio, previsto per presentare il nuovo chitarrista Mick Taylor, fu rapidamente trasformato nelle esequie di Brian e, in un certo senso, ne fu degno: la maggior parte delle migliaia di farfalle bianche che avrebbero dovuto librarsi in volo morirono nelle scatole in cui erano state trasportate e gli Stones suonarono in modo approssimativo, con strumenti scordati e, come sempre, in condizioni deprecabili. Visto e sentito ora, il video del concerto è imbarazzante.
Gli altri due fondatori, Mick Jagger e Keith Richards, si erano conosciuti da bambini e poi si rincontrarono e scoprirono il loro comune amore per il blues. Il batterista Charlie Watts, molto considerato nell’ambiente jazz, accettò di suonare con loro e il bassista Bill Wyman, a quanto pare, fu cooptato perché possessore di un amplificatore. Poi le cose andarono come andarono: la bohème, lo studio, il colpo di fortuna, il successo. Ovvero: sesso, droga e rock and roll.
Il manager dei Rolling Stones Andrew Loog Oldham con Keith Richards
L’irregolarità e l’inaffidabilità di Brian divennero il marchio di fabbrica degli Stones, un’operazione di marketing studiata a tavolino dal loro primo manager, Andrew Loog Oldham, che la casa discografica Decca affibbiò al gruppo dopo averlo messo sotto contratto, colpita dalla sua crescente notorietà. Oldham lavorò su pochi punti-chiave elementari, come la pretesa inconciliabile rivalità con l’altro gruppo in vetta alle classifiche, i Beatles; la fama di pessimi soggetti dei cinque; l’aspetto affascinante e sexy dei tre leader. In realtà le differenze con i Beatles erano su un piano puramente musicale, mentre sul lato umano, a quanto pare, i componenti delle due band fraternizzavano molto e facevano spesso baldoria insieme. Oldham, per definire meglio l’immagine del gruppo, coniò uno slogan che fece epoca: «Fareste uscire vostra figlia con un Rolling Stone?» ed epurò il tastierista Ian Stewart perché era corpulento e inelegante, e anche perché sei musicisti erano troppi da memorizzare. Già negli anni Sessanta il marketing faceva il bello e il cattivo tempo anche nel rock e l’idea di trasgressione, nutrita anche dai problemi con la giustizia degli Stones, divenne un vero e proprio prodotto. La cosa non era nuova: a partire dagli Stati Uniti, alla fine della Seconda guerra mondiale, i giovani erano diventati un target redditizio: Come scrive Jon Savage, «La diffusione postbellica dei valori americani avrebbe avuto come testa di ponte l’idea del teenager. Questo nuovo tipo era veramente all’altezza psichica dei tempi: viveva nel presente, cercava il piacere, era affamato di prodotti, incarnava la nuova società globale in cui l’inserimento sociale sarebbe stato garantito dal potere d’acquisto. Il futuro sarebbe stato teenager».
La copertina originale del singolo Street Fightin’ Man e l’aggressiva edizione danese
Ma la Gran Bretagna del 1962 era un Paese che ancora soffriva delle conseguenze della guerra, un luogo tetro in cui l’unico divertimento della classe operaia era sbronzarsi fino al deliquio il venerdì e il sabato sera mentre la borghesia guardava ancora con stupefatta malinconia alla perdita dell’impero. Il governo era presieduto dal conservatore Harold Macmillan, il che incrementava la noia e le differenze di classe. Quando, due anni dopo, fu eletto il laburista Harold Wilson, Londra era già diventata la swinging London, ovvero l’ombelico del mondo, e non era un caso.
Dopo soli due mesi dal primo concerto dei Rolling Stones al Marquee uscì in Gran Bretagna il film The Loneliness of the Long Distance Runner (“La solitudine del maratoneta”), di Tony Richardson, tratto dall’omonimo racconto di Alan Sillitoe, grande cantore della deprimente vita dei sobborghi britannici. In Italia apparve con il titolo Gioventù amore e rabbia, meno poetico ma più adatto al mercato e, tutto sommato, più realistico. Di questo parla il film: soprattutto di rabbia e la rabbia può essere un ottimo motore per il marketing. Irregolarità, inaffidabilità e rabbia. «Cosa può fare un povero ragazzo se non cantare in una rock and roll band?» canta Mick Jagger in Street Fighting Man (“Combattente della strada”). Già, cosa può fare? Nonostante la furia del testo e la dirompente energia della musica, nonostante fosse nato sulla scia del Maggio francese e della contestazione alla guerra in Vietnam, né questo né altri brani degli Stones hanno mai avuto un contenuto politico. Il che forse non è una sorpresa. L’idea, diffusissima nell’estrema periferia dell’Impero statunitense, che il rock avesse un contenuto rivoluzionario, era solo l’ingenua proiezione di un Paese come il nostro, orfano della Resistenza, ammaliato dalla lustra abbondanza americana postbellica, illuso nelle sue aspirazioni di democrazia dalla Cinquecento in ogni famiglia, addormentato dal Piano Marshall e dalla Democrazia cristiana e appena messo a fuoco nel mirino del marketing. Il blues, cui tanto devono i brani degli Stones, non è la rivoluzione: parla soprattutto di sesso, amori finiti, soldi che mancano, ancora sesso. Nel film sul più importante raduno rock di tutti i tempi, il festival di Woodstock del 1969, il pubblico è solo bianco e anche sul palco prevalgono i bianchi; nel concerto di Altamont in cui erano presenti anche i Rolling Stones, quattro mesi dopo, furono assoldati gli Hell’s Angels come servizio d’ordine e vi furono quattro morti. Gli Stones riuscirono, bene o male, a finire la loro scaletta e a filarsela in elicottero.
I Rolling Stones sul palco ad Altamont. A sinistra un Hell’s Angel
Cosa resta dei Rolling Stones? Tre su cinque dei soci fondatori continuano da cinquantasette anni, pur con gli inevitabili acciacchi, a suonare negli stadi di tutto il mondo. Brian Jones fu sostituito da Mick Taylor nel 1969 e questi da Ron Wood nel 1975; il bassista Bill Wyman abbandonò nel 1994 e fu rimpiazzato da Darryl Jones, che però non entrò mai stabilmente nel gruppo e figura ancor oggi come collaboratore (il motivo non è chiaro, forse perché dividere il fatturato per quattro anziché per cinque è più interessante, sperabilmente non perché è nero e poco attraente).
I brani dei concerti sono ancora quelli, meravigliosi, dei loro primi anni. È vero che gli Stones somigliano sempre più alle loro effigi nel Museo delle cere di Madame Tussaud (con molte rughe in più), ma è anche vero che la loro musica ha cantato un’epoca che la nostalgia e la cupezza del tempo presente ha reso dorata, e che molti di noi non intendono spegnere il giradischi.
Come dicono loro, «È solo rock and roll, ma mi piace».
La citazione è tratta da Jon Savage, L’invenzione dei giovani, Milano, Feltrinelli, 2009.
Articolo di Mauro Zennaro
Mauro Zennaro è grafico e insegnante di Disegno e Storia dell’arte presso un liceo scientifico. Ha pubblicato numerosi articoli e saggi sulla grafica e sulla calligrafia. Appassionato di musica, suona l’armonica a bocca e la chitarra in una blues band.