Esperti giuristi vs ignoranti

Un tempo si diceva che il fascismo era violenza, repressione dei diritti e delle libertà, odio, dittatura e tante altre cose che potrei racchiudere in una sola parola che, per rispetto della rivista che mi ospita, eviterò di scrivere. Bisogna pur resistere alla facilità della volgarità.

Fino a qualche decennio fa, di fronte ad una persona che aveva un pensiero diverso dal nostro, si entrava nel merito, argomentando e provando, con contenuti, a dimostrare la fragilità dell’altrui opinione. Quando gli avversari erano al governo, ci si organizzava per dimostrare il dissenso nelle piazze, creando movimenti e predicando alternative. Si arrivava anche a disobbedire a una legge ingiusta per il “solo” motivo di ritenerla ingiusta. Tutto questo, oggi, avviene sempre più raramente.

Oggi, per rispondere a queste esigenze, basta affermare che ciò che non va è “incostituzionale”.

La Costituzione è un’altra cosa che ci siamo fatti rubare dal vuoto che avanza, dai politici di se stessi, dagli esperti di lettere maiuscole e concetti sgrammaticati sul web.

Negli ultimi mesi si è palesato ancor di più questo fenomeno, in realtà cresciuto esponenzialmente grazie agli ormai frequenti cambi di stagione e alle elezioni perenni che la scena politica ci regala da svariati anni. Durante questo movimentato agosto, ciascun leader e ciascun partito, ha avanzato critiche o soluzioni per il bene del Paese, appellandosi alla sacralità del libro faro della nostra Repubblica (oltre che al cuore immacolato di qualche santo o madonna, regalandoci in Senato una straordinaria lezione di Catechismo).

Non sono un giurista e non è certo mio il compito di analizzare se tali appelli siano legittimi o meno, non mi interessa neanche farlo. La riflessione va oltre il mero diritto. Ciò che preoccupa è il vuoto delle opinioni, la mancanza di coraggio nel portare avanti certe idee e certe posizioni, anche se, ahi noi, attualmente scomode.

Così, per condannare un gruppo di saluti romani e di richiami nostalgici al Ventennio, ormai frequenti anche in appartenenti a istituzioni, ci si appella alla Costituzione; per fermare chi sta lasciando morire in mare gente bisognosa, per bocciare o proporre una legge, per contrastare o accreditare un governo, per chiedere il rispetto dei propri diritti o per attentare a quelli altrui, o anche semplicemente per dare un tono “neutrale” alle proprie opinioni, si invoca la suprema ragione costituzionale. Come se la semplice affermazione della propria idea non bastasse più, come se, in un mondo dove è dimostrabile tutto e il suo contrario, la forza del ragionamento, dell’ideologia, dell’argomentazione sia venuta meno. Tutto ciò non fa che alimentare un contesto degradante del dibattito pubblico: è umiliante dover fare appello a una legge per difendere l’ideale antifascista e l’impegno vitale che quell’ideale ha, così com’è degradante ricorrere alla Costituzione perché non basta più sottolineare la disumanità che un decreto sicurezza (bis) sottende.

In un clima di disordine lessicale, di ragioni calpestate e di urla scomposte, pare che l’unica soluzione sia richiamare l’arbitro a far rispettare le regole. Il rischio, però, è che alla fine resti solo la Legge, senza l’ideale che porta con sé, col suo fastidioso limitare le libertà. Il dibattito si svolge tra “esperti costituzionalisti” e “ignoranti del diritto”, senza considerare che, nella sua applicazione, anche la Costituzione può sempre avere diverse interpretazioni, diversi punti di vista. E allora basterà un governo nuovo, un uomo forte o una sbandata collettiva per modificare quelle regole, piegarle al proprio tornaconto, in nome di un bene superiore: quello del populismo, del consenso facile, della semplificazione a discapito dell’approfondimento.

La Costituzione deve essere considerata, non come una legge morta, deve essere considerata, ed è, come un programma politico. La Costituzione contiene in sé un programma politico concordato, diventato legge, che è obbligo realizzare.” (P. Calamandrei)

Un esempio attualissimo è il dibattito sul taglio dei parlamentari, schiacciato sul tema prettamente economico del risparmio o su quello della “governabilità” e dello snellimento del dibattito parlamentare, senza considerare assolutamente il discorso della rappresentanza, della partecipazione della minoranza politica o delle periferie del Paese alla vita pubblica. La popolazione, dal 1948 ad oggi, è aumentata di circa 15 milioni di abitanti: perché dovrebbero diminuire i suoi rappresentanti? Come si può dare più voce al “Paese reale” (di cui tutti, in quella famosa seduta d’agosto del Senato, sembrano avere a cuore le sorti) concentrando il dibattito e il potere decisionale nelle mani di 400 persone?

I miei sono semplici interrogativi che cercano dibattiti: se non fossimo stati così impegnati a gridare all’incostituzionalità dell’altro, ci saremmo accorti che, in quel libro, sono richiamati anche i doveri a cui ciascuno dovrebbe attenersi, e, se li avessimo seguiti, forse, neanche saremmo arrivati a questo punto.

 

Articolo di Sasy Spinelli

OWVBrE9G.jpegNato a Foggia, sul finire degli anni ’80, ha sempre avuto una passione per le seconde opportunità: per il riciclo creativo di oggetti, per il trapianto di piante e fiori, per l’inclusione di persone ai margini dei contesti sociali.  Laureato in Economia delle Istituzioni e dei Mercati Finanziari, con una tesi sul microcredito, intreccia percorsi di ricerca per l’innovazione sociale, perseguiti anche all’interno dell’associazione Libera, con il suo interesse per la scrittura e la lettura in prosa e in versi.

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