La memoria di Anna Magnani è tuttora serbata, più che in ogni altra, nella scena notissima della sua folle corsa dietro il camion che le porta via l’uomo amato, in Roma città aperta (1945). Corsa spezzata dalle raffiche dei mitra nazisti, che uccidono la donna davanti ad una folla muta e atterrita e davanti agli occhi del figlioletto che, disperato, si getta sul corpo esanime della madre.
L’immagine, che allora si costituì, non solo del personaggio, ma presto anche della persona Magnani, e che a volte le pesò come condanna irrefutabile a un destino, è quella di donna, spesso di madre, dolorosa. E piena d’impeto, irruente fino alla violenza verbale, a volte fisica, esacerbata, spesso amara, raramente cattiva, quasi sempre selvaggiamente sensuale.
Un’immagine che, ad esempio, negli USA, e più dopo La rosa tatuata (1955), con cui, prima attrice italiana, Magnani vinse l’Oscar da protagonista, la fece percepire come modello della femminilità italiana, forse anche per un pre-giudizio già di lungo corso e che, inconsapevolmente, persona e personaggio Magnani
contribuirono a radicare ulteriormente e a far durare ancora per molto tempo.
Insomma, dal primo grande film neorealista di Rossellini, seguìto dai due episodi, ancora da lui diretti, di Amore (1948), e poi in ogni altra interpretazione, al cinema, al teatro, in televisione, e recitasse, cantasse o rilasciasse interviste, Magnani fu, per i più, emblema del femminile mediterraneo e italiano, pure nella declinazione romana, fino a essere ritratta da Fellini, in quella che sarebbe stata la sua ultima apparizione, come ancestrale lupa capitolina.
Un contributo fondamentale alla fusione perfetta tra la donna Anna Magnani e la “Nannarella” romana si deve a Suso Cecchi D’Amico, che giunse a costruire alcune sceneggiature invertendo la modalità creativa tradizionale secondo cui, creato un carattere, l’attore o l’attrice deve cucirselo addosso. Valga per tutti il caso di Nella città l’inferno (1959, regia di C. Castellani)9, in cui, è già stato notato, non casualmente, la parte assegnata nel film a Giulietta Masina si ridimensionò molto a vantaggio della centralità, inizialmente non prevista, del ruolo di Magnani.
E, sia pure con un tratto molto più indipendente, anche Bellissima (1951) di Visconti aveva confermato il ‘tipo’ già noto.
L’unico regista che chiese una rottura della coincidenza fra attrice e personaggio fu Pasolini, cui, in realtà, per Mamma Roma (1962), Anna Magnani fu imposta dalla produzione. Restarono, infine, scontenti sia il regista che l’attrice: l’uno perché riteneva che il carattere sotto-proletario della sua protagonista fosse stato tradito dalla connotazione piccolo-borghese dell’interprete, l’altra perché si sentì strumentalizzata e usata fuori dalle proprie corde.
Forse, il mito di Nannarella, secondo Pasolini, contiene un equivoco interpretativo nato e portato avanti nell’immaginario collettivo, che, al di là delle indubbie doti attoriali di Anna Magnani, ha finito per trasformare la rivoluzionaria mitologia neorealista di Rossellini in un’icona stereotipata e sostanzialmente regressiva.
Articolo di Alba Coppola
Docente di materie letterarie negli Istituti di istruzione secondaria di II grado. Italianista, ha lavorato per sette anni presso l’Università di Salerno per le cattedre di Letteratura Italiana e di Storia della Grammatica e della Lingua. Ha pubblicato su riviste specializzate, atti di convegni, quotidiani e riviste generaliste. Si è accostata da alcuni anni agli studi di genere con particolare riguardo alla toponomastica.