Charlie Chaplin e Il grande dittatore

«La vita può essere felice e magnifica».

Il 15 ottobre 1940 Il grande dittatore è proiettato per la prima volta nelle sale cinematografiche “Capitol” e “Astor” di New York, sostenuto da una poderosa campagna pubblicitaria della United Artists, da tempo allarmata dalla possibilità di un clamoroso e oneroso insuccesso, ovvero dalle difficoltà che la pellicola avrebbe potuto incontrare sia negli States che in Gran Bretagna.

«È un grande film, valeva proprio la pena farlo, ma non incasserà un soldo»: il parere di Harry Hopkins, consigliere del presidente Franklin Delano Roosevelt, è ampiamente smentito; il coraggio di Charlie Chaplin, disposto a rischiare in proprio due milioni di dollari «perché Hitler doveva essere messo alla berlina», è invece largamente ricompensato dalla risonanza mediatica, dal successo in termini commerciali, dalle successive cinque candidature al premio Oscar.

Eppure, afferma Chaplin, «Il grande dittatore non è un film di propaganda. È la storia del piccolo barbiere ebreo e del potente dittatore a cui, per caso, assomiglia. È la storia dell’ometto di sempre che ho raccontato per tutta la vita». In realtà, il confronto a distanza tra Charlot e il Führer (curiosamente nati a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, nell’aprile 1889) è iniziato qualche anno prima, nel 1936: Hitler, già solidamente al potere in Germania, vieta la proiezione di Tempi moderni, accusato di essere un film di ispirazione comunista (denuncia l’alienazione da lavoro e gli effetti della grande depressione), realizzato e interpretato da ‘un ebreo’ (e dire che Chaplin non lo è), la cui fisionomia, in particolare i baffi, ricorda quella del dittatore.

L’idea di partenza di film – l’assoluta somiglianza che porta allo scambio di persona – si sviluppa nel corso del 1938, l’anno che precede lo scoppio della guerra, quando in Germania (e in Italia) si inasprisce la persecuzione antiebraica. Cecilia Cenciarelli – responsabile del settore ricerca e progetti speciali della Cineteca di Bologna – ricostruisce puntualmente la storia del capolavoro: il 12 novembre 1938, due giorni dopo la “notte dei cristalli” (pianificata da Joseph Goebbels e agita tra il 9 e il 10 novembre nei territori del Reich), Chaplin chiede di depositare il titolo The Dictator (l’aggettivo Great è apposto successivamente) alla Library of Congress. Nei mesi successivi si susseguono notizie e smentite a riguardo: se la stampa diffonde la voce secondo cui il progetto sarà abbandonato per non peggiorare la situazione degli ebrei in Europa, per sua parte il regista dichiara che non si piegherà a pressioni e censure. Chaplin è consapevole che il film sarà messo al bando in diversi paesi europei (la Germania e l’Italia in primis), perciò pensa di avvalersi di una distribuzione indipendente, nonché di devolvere i proventi europei della pellicola alla causa ebraica. Le copie della sceneggiatura sono distribuite il 3 settembre 1939, il giorno in cui, facendo seguito all’invasione della Polonia da parte della Wehrmacht, l’Inghilterra dichiara guerra alla Germania; il 9 settembre iniziano le riprese.

La visione del Grande dittatore è ancora oggi, a distanza di quasi ottant’anni, sorprendente: Chaplin interpreta Hitler, alias il dittatore di Tomania Adenoid Hynkel, riproducendone mimica e gestualità (analizzate grazie ai film di propaganda di Leni Riefenstahl); lo circonda di comprimari ridicoli e squallidi (sinistri e tragici nella realtà storica): Garbitsh (Joseph Goebbels) ed Herring (Hermann Goering), «pagliacci da circo» secondo la definizione di Ennio Flaiano; rievoca con efficacia la devastazione della “kristallnacht” e l’internamento di ebrei e oppositori nei campi di concentramento, per altro già noti (Dachau fu aperto nel marzo 1933); infine, ironizza sull’alleanza ritrovata tra Hynkel e Benzino Napaloni, dittatore di Bacteria (nell’edizione originale), alias Bonito Napoloni, dittatore di Batalia (nell’edizione italiana del 1972), ovvero Benito Mussolini, dopo i contrasti per le comuni ambizioni sull’Ostria (Austria), conquistata e annessa dalla Tomania (Germania), sia nella finzione cinematografica sia nella realtà storica.

La parodia di Benito Mussolini, succube del più potente alleato, è irridente: Il grande dittatore – proibito nell’Italia fascista – è proiettato in Roma liberata nell’ottobre 1944; a Bologna, Venezia, Milano, Torino, Genova nel maggio 1945, con scarso successo. Nel 1960 la censura italiana ne impedisce una seconda visione, temendo di scatenare la reazione della destra, che soltanto pochi mesi prima ha violentemente contestato la proiezione de Il generale Della Rovere di Roberto Rossellini, con lancio di uova marce e bombette puzzolenti. Nel 1972, dopo che a Charlie Chaplin sono stati assegnati l’Oscar e il Leone d’Oro alla carriera, il film viene doppiato ed esce in Italia, ma non in versione integrale: manca la scena nella quale la corpulenta moglie di Napaloni balla con Hynkel, perché Rachele Guidi Mussolini – un’icona per la destra italiana, sarebbe morta nel 1979 – avrebbe potuto aversene a male. La scena, gustosissima, è finalmente reintegrata nel 2002, quando il film torna nelle sale italiane e, naturalmente, nella versione restaurata a cura della Cineteca di Bologna, del gennaio 2016.

«Se avessi conosciuto gli orrori dei campi di concentramento tedeschi non avrei potuto fare Il Dittatore; – dichiara successivamente Charlie Chaplin – non avrei certo potuto prendermi gioco della follia omicida dei nazisti. Ma ero ben deciso a mettere in ridicolo le loro mistiche scemenze sulla purezza del sangue e della razza». Ed era ben deciso, il grande Charlot, a consegnare all’umanità il proprio messaggio di etica, impegno, speranza, con il quale il piccolo barbiere ebreo che nella vicenda cinematografica ha preso il posto del grande dittatore arringa la folla e invoca l’unità nel nome della democrazia: «un discorso straordinario, una sorta di Discorso di Gettysburg di Abraham Lincoln in inglese hollywoodiano, uno dei messaggi di propaganda più forti che abbia sentito da molto tempo», scrive un entusiasta George Orwell dopo aver assistito alla proiezione del film.

«Mi piacerebbe aiutare tutti, se fosse possibile: – afferma Charlie Chaplin nella memorabile sequenza finale, quattro minuti interi in primo piano, guardando il pubblico dritto negli occhi –  gli ebrei, gli ariani, i neri, i bianchi. Noi tutti dovremmo aiutarci sempre. Gli esseri umani sono fatti così. Vogliamo vivere della felicità reciproca, non odiarci e disprezzarci. In questo mondo c’è posto per tutti, la natura è ricca, è sufficiente per tutti, la vita può essere felice e magnifica, ma noi lo abbiamo dimenticato».

Articolo di Laura Coci

y6Q-f3bL.jpegFino a metà della vita è stata filologa e studiosa del romanzo del Seicento veneziano. Negli anni della lunga guerra balcanica, ha promosso azioni di sostegno alla società civile e di accoglienza di rifugiati e minori. Insegna letteratura italiana e storia ed è presidente dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.

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