Ai due bellissimi testi di Alan Alexander Milne, Winnie the Pooh (1926) e La strada di Pooh (1928), dedicai, anni fa, un corso di formazione per educatrici di asili nido. Dal punto di vista degli echi pedagogici, di affascinante, in questi libri, c’è praticamente tutto. La prima e più importante questione riguarda la straordinaria sensibilità paterna dimostrata dal loro autore, nei primi anni del secolo scorso. La figura del padre, come ci viene raccontata e descritta dalla pedagogia, ma anche da Freud quasi negli stessi anni, si concentrava allora attorno al ruolo del Censore, della Legge, del capo famiglia incaricato di vigilare sul rispetto delle regole e di intervenire con decisione sui trasgressori. Alla madre lo spazio della cura e degli affetti, al padre quello della rigidità, dei rimproveri e, al bisogno, delle bastonate. La minaccia “Lo dico al papà” risuonava sulle bocche delle madri come una condanna senza appello in quasi tutte le case, in quelle signorili come negli alloggi popolari. Milne sfugge in gran parte a questo identikit, configurandosi invece come un papà che dedica tempo ai giochi del figlio. Ne osserva i passatempi e gli svaghi, si fa coinvolgere a tal punto dalle storie narrate da Christopher Robin ai suoi pupazzi, da trasformarle in un mondo fantastico, in cui chiunque di noi può entrare. L’adulto – sorprendentemente un padre – restituisce dignità e valore alla fantasia del bambino, convertendola in qualcosa che profuma di cultura, fascino ed importanza: un libro. Ed è questa la prima fondamentale lezione: il gioco è il luogo naturale in cui i piccoli imparano a rielaborare dinamiche emotive e relazionali che poi guideranno tutta la loro vita. Il momento ludico, quindi, è una cosa serissima, che nasconde in sé molto più di quanto uno sguardo adulto superficiale possa cogliere. Sottolineo ancora una volta che siamo agli inizi del Novecento, in piena famiglia patriarcale di stampo normativo, nell’epoca dei padri-padroni e dei bambini dei poveri mandati a servizio dalle famiglie più abbienti già attorno ai sette anni. L’infanzia è un impiccio (quindi occuparsene è un ruolo che spetta alle donne), bisogna crescere in fretta per essere utili ai grandi, portare a casa la pagnotta, badare a sé stessi. Gli echi rivoluzionari degli anni Settanta, che portarono i padri nelle sale parto, sostituirono il modello familiare in luogo degli affetti prima che delle regole e trasformarono completamente le figure parentali, consegnando finalmente anche ai padri la responsabilità della crescita emotiva della prole e restituendo legittimità e spazio all’infanzia, ai tempi di Milne sono ancora ben lontani. Eppure questo papà, affascinato dai giochi del figlio, dedica loro tempo e parole. Nei racconti dell’orsetto Pooh troviamo tutti i vissuti infantili più importanti: c’è la paura della novità (Christopher Robin deve andare a scuola, ma cosa sarà mai?), l’oggetto transizionale (allora mi porto il più piccolino dei miei amici, Pimpi, ben nascosto, così nessuno lo vede, ma io non mi sento solo), l’odio per il diverso (Tappo vuole letteralmente uccidere Canga quando questa arriva, non invitata, nel Bosco dei Cento Acri) e la scoperta che si tratta di un sentimento del tutto inutile, l’incognita del diventare grandi (cosa vuol dire non trascorrere più insieme tutto il tempo, Pooh? Che non ci vogliamo più bene?), la fiducia totale nell’adulto/a (se qualcosa la dice Christopher Robin, allora è sicuramente vera), l’amicizia, l’importanza del linguaggio sotto ogni sua forma (parole, scritte, disegni, simboli, versi, segnali)… Il tutto raccontato dagli stessi pupazzi, tratteggiati con una finezza psicologica meravigliosa. L’insicurezza di Pimpi, l’allegria prorompente e spesso incosciente di Tigro, la pedanteria di Uffa, la dolcezza materna di Canga e l’entusiasmo infantile di Roo, la saccenza spesso insensibile di Tappo, la flemmatica tristezza di Ih-Oh, l’incrollabile fiducia nella vita di Winnie The Pooh risultano un mix perfetto di temperamenti, che aiutano bambini e bambine a comprendere i propri vissuti interiori. I tratti caratteriali stereotipati dei personaggi, accompagnano i piccoli a familiarizzare con il proprio mondo interiore, proprio perché lo rendono semplice e riconoscibile. Se il/la bambino/a deve confrontarsi con una emozione alla volta, ben definita e resa esplicita da comportamenti che è in grado di prevedere e riconoscere, il gioco della scoperta di sé non fa più paura. E avventurarsi dentro sé stessi con una compagnia come quella del Bosco dei Cento Acri non può che essere una avventura meravigliosa. A qualunque età.
Articolo di Chiara Baldini
Classe 1978. Laureata in filosofia, specializzata in psicopedagogia, insegnante di sostegno. Consulente filosofica, da venti anni mi occupo di educazione.